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Una specie di magia

Da Marcofre

Ci sono alcuni elementi nella scrittura che ritornano, perché un post non è sufficiente per esaurire quello che abbiamo da dire. O quello che l’argomento ha da dire. Aggiungiamo a questi, anche la riflessione del tutto personale che si porta avanti tra incertezze, contraddizioni…

La descrizione è uno degli argomenti che tormenta soprattutto chi inizia a muoversi nell’insidioso mondo della scrittura. In soldoni: come si deve descrivere un personaggio? Un ambiente?
La prima risposta che mi viene in mente è: occorre leggere finché gli occhi non cadranno sul pavimento. A quel punto, chinatevi, tastate, recuperateli, reinseriteli nelle orbite e continuate a leggere.

Con la lettura ci si renderà conto che la parola contiene sufficiente forza per ottenere quasi qualunque cosa. Purché si usino le parole giuste, certo. No, mi spiace, non esiste una ricetta che si possa replicare tra le pareti di casa propria. Però se si fa propria la verità sulla forza della parola, diventa abbastanza semplice comprendere come di un ambiente o un personaggio non ci serva tutto.

Ho scritto “semplice”, ma in realtà non c’è niente del genere nella scrittura. L’ho fatto solo per illudere chi legge.
Il tempo dei personaggi descritti in ogni dettaglio dell’abbigliamento, del fisico, è finito. Ecco perché, come spesso scrivo da queste parti, è necessario non solo leggere i classici, ma anche gli autori contemporanei. O almeno quelli del Novecento.

Spesso chi si avventura nell’affascinante ambiente della scrittura, utilizza la descrizione per nascondere la mancanza di una storia. È un grave errore: agendo in questa maniera si perde di vista lo scopo di uno scrittore: scrivere una storia, appunto.
Quando ci si attarda con la camera e il suo arredamento, è perché non vogliamo essere notati da un editore, ma compiliamo un catalogo per essere assunti da un mobilificio.

Può accadere a volte, che sia necessario descrivere alcuni elementi di una stanza perché ci dicono qualcosa del personaggio che la abita. Però attenzione: alcuni elementi.

Idem per i tratti somatici dei personaggi, i loro abiti.

A ben pensarci, un personaggio quando appare, lo notiamo perché ci colpisce con qualcosa. È questo il motore che mette in moto il meccanismo, e da esso non dobbiamo allontanarci. Gli occhi li dobbiamo in seguito tenere fissi sulla storia, e se ci distaccheremo da essa, quel motore comincerà a girare a vuoto. A volte troppo a vuoto. Piaccia o no, ci sono peccati che sono perdonati agli scrittori affermati (forse persino troppo), e peccati che non sono perdonati se si è agli inizi.

Credo che sia giusto così. Essere all’inizio dell’avventura della scrittura non vuol dire ignorare almeno i cardini del mestiere. Poi questi benedetti cardini possono essere cigolanti, sfregare troppo e bloccarsi. Ma devono esserci, e trasmettere l’idea che chi scrive ha una pallida idea di che cosa diavolo sta combinando. Che non è il tipo: “Ehi, queste otto parole mi pare suonino bene! Ma se otto suonano bene, dodici saranno anche meglio!”.

Lo so che a questo punto il lettore vorrebbe un’indicazione in più.

A parer mio la scuola migliore restano i gialli: Georges Simenon e il suo commissario Maigret. Si tratta di libri dove la sbavature sono minime, i fronzoli ridotti all’osso. In fondo il protagonista è un commissario, e deve sbattere in galera l’omicida. Non c’è spazio per le descrizioni inutili, solo per quelle che servono a fornire al lettore l’atmosfera di un luogo, di uno studio. Niente di più.

Ecco un esempio tratta da “La chiusa n°1”:

Ma l’anima del paesaggio era altrove, o comunque il suo cuore, i cui battiti imprimevano il ritmo all’aria stessa. Era sulla riva del canale: un marchingegno alto e sbilenco, una vecchia torre di ferro che probabilmente di notte era solo una macchia grigia, ma che di giorno faceva un gran fracasso con tutte quelle lamiere, quei longaroni e quelle pulegge, frantumando il pietrame che rotolava sopra gli stacci e poi riprendeva la sua corsa assordante, per finire su dei mucchi di sassi da cui si alzavano nuvole di polvere.

A ben vedere, ci sarebbe tanto da aggiungere vero? Qualcosa a proposito di queste macchine. Magari sfogliando un’enciclopedia che spieghi per bene il funzionamento di queste… No. C’è una sorta di tacito accordo tra lettore e scrittore. Quest’ultimo deve prendere a pugni il buonsenso di chi legge, svelare il mistero, la follia, quello che c’è al di là delle apparenze: è il suo fine.

Per riuscirci deve avere le mani libere e non infilarsi in descrizioni o spiegazioni a proposito di questa o quella cosa. Se lo facesse diventerebbe un manuale di meccanica, non un racconto o un romanzo.

La lettura è anche lasciare spazio all’immaginazione del lettore, non bisogna agire come un esercito di occupazione. Lo scrittore non deve “esportare” il suo mondo, e ficcarlo a martellate nella testa del lettore. Ma “evocare” e ritirarsi dietro le quinte.
Sembra magia, vero? Forse lo è.


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