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Una vita difficile. Quando il cinema italiano camminava "a testa alta"...

Creato il 01 febbraio 2013 da Valentina Orsini @Valent1naOrs1n1

"Una vita difficile", un titolo che ancora oggi ha la forza rappresentatrice di un'epoca destinata a non finire. Forse ha la cattiva abitudine di ripresentarsi con delle vesti nuove, e questo sospetto che porta a innumerevoli riflessioni, si alimenta dinnanzi a quelle meravigliose imprese che hanno contraddistinto il cinema nostrano, negli anni d'oro della commedia italiana. Perdonate le premesse talvolta un pochino contorte, ma la cosa più straordinaria che capita a me, non appena finito di vedere un vecchio film, è tutta quella serie di scombussolamenti mentali e morali cui vado incontro. Usare la parola "capolavoro" è sempre poco conveniente, si corre il rischio di venir condannati per troppa "faciloneria critica", dunque la evito (se posso). Ecco, questo è uno dei rari casi in cui io,  davvero, "non posso". 
Dino Risi dirige nel 1961 Una vita difficile, raggiungendo con esso le vette più alte mai eguagliate (a mio avviso) da pòsteri, italiani e non. Raccontare con la macchina da presa vent'anni di storia italiana, non è cosa da poco. A incarnare gli animi e le vicende di un intero paese è la figura di Silvio Magnozzi (una delle più riuscite e memorabili interpretazioni di Alberto Sordi), giornalista ex partigiano e soprattutto uomo di solidi ideali. Il film ripercorre i fatti che vanno dalla Resistenza al Boom Economico, spostandosi dalle sequenze iniziali nei pressi del Lago di Como, passando per Viareggio in un paio d'occasioni, fino a Roma. La capitale era in quegli anni centro propulsore di rivoluzioni culturali, politiche e artistiche e lo stesso protagonista del film sottolinea più volte la sua ferma decisione di non voler assolutamente "emigrare". Accanto a questi però compaiono ideali che vedono un uomo felice e convinto di poter condividere la vita con una donna, creare una famiglia e crescere un figlio al quale poter insegnare che, a volte, dire "no" può significare vivere di solo pane e acqua, ma a testa alta. 
Elena (una splendida Lea Massari) è la figlia della proprietaria borghese di un albergo, la stessa che salverà Silvio dal fucile di un soldato tedesco. La donna porterà il partigiano nel vecchio mulino del nonno, offrendo tutte le amorevoli cure e le attenzioni del caso. L'amore dei giovani vivrà al passo della fine della guerra e di un'Italia desiderosa di ricostruirsi. L'armistizio dell'8 settembre, la nascita della Repubblica e l'attentato a Togliatti. Tutte tappe alle quali Silvio non mancherà di prestare appoggio, sacrificando la propria libertà e la propria persona. Nonostante la fermezza di Silvio, questi ideali a un certo punto avranno la peggio, perché Elena inizia a non comprendere seriamente quanto valga una vita fatta di rinunce e sacrifici. Il tutto poi si complica con l'arrivo di un figlio. Saranno queste diversità e la figura forte della madre di Elena a far allontanare più di una volta i due. Sottopagato e frustrato dalle condizioni in cui è costretto a vivere un uomo che non vuole scendere a compromessi, Silvio si ritrova da solo, incompreso dalla moglie e dal mondo che lo circonda. Andrà in carcere dopo le rivolte del '48 e lì, inizierà a scrivere il suo romanzo, dal titolo, Una vita difficile.
Sordi si cimenta qui, nel ruolo credo più complesso e significativo nel panorama del cinema italiano. Non è più il mascalzone, il vigliacco scansafatiche, o la macchietta dell'italiano medio. Silvio è un eroe semplice, che ha scelto di vivere a pane e acqua pur di non tradire se stesso e i propri principi. La poesia e la verità racchiuse in sequenze che resteranno marchiate nella memoria collettiva (in primis degli italiani), come la cena in casa Rustichelli durante la proclamazione della vittoria della Repubblica. Oppure la memorabile scena all'alba, davanti al locale di Viareggio (in realtà era Marina di Massa), quando Silvio ubriaco inizia a sputare per strada alle automobili e ai pullman di tedeschi, gridando loro di ritornare al proprio paese perché l'Italia fa schifo. Un gesto che racchiude in sé l'essenza di un uomo e la terribile difficoltà del non volersi "accontentare" all'idea di chinare il capo e servire il padrone. L'esame di Silvio all'università e le parole del professore: "le lotte contadine e la resistenza non contano in questa sede" rimbombano nella testa di chi sta li a guardare e di quanti hanno sacrificato la propria vita per quelle lotte schifate dagli accademici. Il discorso di Silvio, ubriaco, ad Elena poco prima di abbandonarlo per tornare a Viareggio. Quelle parole sincere e piene di rabbia di un uomo che non viene compreso e la domanda al pastore: "tu sei felice?", di una poesia "tanta", da poter bastare per gridare al "capolavoro".
E direi che basta tutto questo, consapevole del fatto che stiamo parlando di un qualcosa che ha dato tutto ciò che poteva. La sceneggiatura di Sonego (uno dei più grandi autori del cinema italiano che ha scritto una sostanziale fetta della filmografia di Sordi), straordinaria e dettata poi dall'esperienza personale dello scrittore, che fu partigiano e giornalista, proprio come Silvio. La bravura straordinaria di un attore il cui nome risuonerà in eterno e la regia maestra dello stesso padre di capolavori "altri", come Il Sorpasso, I complessi, In nome del popolo italiano, I Mostri, Pane amore e...
Tutto questo fa di Una vita difficile il Capolavoro necessario a comprendere la forza e la magia di un cinema dimenticato, lasciato lì. Quello che ancora oggi però, a distanza di anni riesce a smuovere qualcosa dentro, qualcosa che ci porta a credere che domani, magari, qualcuno trovi il coraggio di ribellarsi a una società corrotta e priva di ideali, dandole un ceffone in pieno viso e gettarla in acqua. Per poi uscire di scena, malvisti  forse, ma orgogliosi e fieri, "a testa alta"...

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