La parola “sacrifici” ci insegue con ripetizioni ossessive che suonano beffarde: non solo perché il suffisso Ici evoca il ritorno di una tassa laica, dalla quale il clero continua a essere immune (o Imu-ne, vista la nuova denominazione dell’imposta), ma soprattutto perché le parti sociali destinate a esser “fatte sacre” sono troppo simili a quelle predilette dal governo precedente per non dare un’impressione amara di continuità nella disuguaglianza.
Le lacrime della ministra del Welfare erano forse autoreferenziali? Il dubbio è legittimo, se si considera che tra le pieghe – o tra le piaghe – del decreto salva-Italia si cela (anche) l’ennesima norma ostile a professori e ricercatori universitari. Dall’ateneo di Bologna è subito partita, su iniziativa del Conpass (Coordinamento nazionale professori associati), una lettera aperta a Profumo e Monti perché rivedano le misure previste per il mondo accademico, e in particolare il blocco di tre anni della progressione di carriera di professori e ricercatori imposto dal duo Tremonti-Gelmini nel 2010. Il blocco è ora definitivo sia ai fini della maturazione delle classi e degli scatti di stipendio, sia a quelli pensionistici: cosa che, col varo del sistema contributivo caro alla professoressa Fornero, si tradurrà nel tempo in un pregiudizio economico senza precedenti, specie per i docenti più giovani. Tre anni di stipendio inadeguato al costo della vita e irrilevanti per la pensione si sommano alla paralisi degli scatti automatici cospirata dalla legge Gelmini, alla fine dei posti di ricercatore a tempo indeterminato e a una carriera i cui passaggi sono i più lenti d’Europa. Diventare docenti universitari in Italia rischia di essere un lusso riservato a chi può offrire i propri servigi a clienti facoltosi, come banche e consigli di amministrazione (e molti degli attuali ministri lo sanno): un modo particolarmente insidioso di creare autentiche baronie dietro l’egida della lotta ai baroni sbandierata dal precedente governo.
Infruttuoso sperare in un dietro-front: Mario Monti, in un articolo apparso il 2 gennaio 2011 sull’edizione online del Corriere della Sera, lamentava la mancanza tutta italiana “di rivendicazione pragmatica, fondata su ciò che può essere ottenuto, anche con durezza ma in modo sostenibile, cioè nel vincolo della competitività”. Un “arcaico stile di rivendicazione” di impronta marxista, fondato su istanze etiche, sarebbe infatti – secondo l’attuale premier – “un grosso ostacolo alle riforme. Ma può venire superato. L’abbiamo visto di recente con le due importanti riforme dovute a Mariastella Gelmini e a Sergio Marchionne. Grazie alla loro determinazione, verrà un po’ ridotto l’handicap dell’Italia nel formare studenti, nel fare ricerca, nel fabbricare automobili.” Parole raggelanti sotto una serie di punti di vista, a cominciare dal parallelismo tra le sorti dell’università italiana e quelle della fabbrica torinese: la fuga dei cervelli andrà di pari passo con la chiusura degli stabilimenti Fiat sul territorio nazionale? E come non preoccuparsi, sulla base della distruzione dell’istruzione universitaria, dell’imminente riforma del mercato del lavoro?
Tra operai e accademici scopriamo affinità sempre maggiori: siamo un paese ad anzianità congelata, dove il congelamento non include solo gli scatti di anzianità ma gli stessi anziani sfruttati impoveriti indaffarati. Ci chiediamo però, insieme al Conpass, perché il risanamento dei conti debba ricadere su categorie che in nessun modo hanno contribuito a deteriorarli, risparmiando i privilegiati per infierire sui sacrificati. Di sempre.