Pubblicato da matteotelara su ottobre 26, 2011
Shaun Tan è autore di alcune delle storie per immagini più intense e narrativamente meglio riuscite degli ultimi decenni.
Illustratore australiano di origine malese, famoso nel mondo già da oltre un decennio, è stato ‘scoperto’ in Italia relativamente da poco, soprattutto grazie a uno dei suoi ultimi lavori, “The arrival” (pubblicato da Elliotedizioni nel 2008 col titolo “L’approdo”), una graphic novel d’impressionante efficacia visionaria, nella quale le parole scompaiono e sono le immagini, avvolte in un’atmosfera dorata di sogno e memoria (una sorta di luce calda che ricorda le stampe fotografiche d’inizio novecento), a prendersi la briga di portare avanti la narrazione.
Figlio d’immigrato (il padre giunse in Australia dalla Malesia nel 1960) Shaun Tan ha costruito questa storia sulla base di aneddoti e resoconti di migranti di varie nazionalità (ivi compreso il padre) fondendoli in un’opera dove l’assenza di parole significa da una parte celebrazione del potere visivo della memoria (e del sogno, appunto, che accompagna chiunque si sposti da un luogo a un altro in cerca di condizioni migliori di vita) e dall’altra amplificazione del valore universale del viaggio e del racconto che se ne fa.
Un “racconto silenzioso” nelle parole dell’autore, che però riesce in questa maniera a parlare anche a tutto il resto del mondo e in tutte le lingue del mondo.
Ma “The arrival” non è che una delle opere di questo storyteller (non saprei come altro definirlo) poliedrico e pluripremiato (il film vincitore del Premio Miglior Cortometraggio Animato 2011 è stato tratto da un’altro dei suoi lavori, “The lost thing”, in italiano “Oggetti smarriti”), dove al disegno si accompagna la tecnica cinematografica, la padronanza narrativa, la forza dell’immaginazione e la carica etica esignificante del raccontare.
John Gardner, nel controverso (e altresì studiatissimo) “On writers and writing”, insisteva sul carattere ‘morale’ della letteratura (volta a raggiungere valori umani universalmente riconosciuti) e sul potere di redenzione dell’arte, ovvero sull’onestà intellettuale di chi scrive, sottolineando come, al di la di tutto, la tecnica conti poco rispetto alla forza delle invenzioni, alla carica creativa, all’emozione, e al piacere del narrare.
Nelle opere di Shaun Tan, ecco, mi pare che questi elementi trovino terreno d’espressione e riuscita, mostrando non solo una forte unità e continuità di temi e stile, ma anche una rara capacità di rinnovarsi, nel rispetto dei nuclei tematici (per dirla come Gardner, ‘morali’) di ciò che si scrive, del come lo si fa, ma soprattutto del perché.
“The rabbits” è la lunga illustrazione di un racconto di John Marsden, incentrato sulla perdita d’identità e di futuro di una cultura che viene violentemente conquistata da un’altra (il riferimento agli aborigeni australiani è qui evidente).
“The lost thing” è la storia di un ‘oggetto’ in cerca del proprio posto, e del ragazzino che lo aiuta a trovarlo.
“The red tree” ripercorre la solitudine di una bambina che nel finale riacquista il sorriso grazie a un albero rosso che le sta crescendo in camera.
Nelle parole dell’autore:
“I realise that I have a recurring interest in notions of ‘belonging’, particularly the finding or losing of it.(…) I think that the ‘problem’ of belonging is perhaps more of a basic existential question that everybody deals with from time to time, if not on a regular basis. It especially rises to the surface when things ‘go wrong’ with our usual lives, when something challenges our comfortable reality or defies our expectations – which is typically the moment when a good story begins, so good fuel for fiction. We often find ourselves in new realities – a new school, job, relationship or country, any of which demand some reinvention of ‘belonging’.(…) I was reminded that migration is a fundamental part of human history, both in the distant and recent past. On gathering further anecdotes of overseas-born friends – and my partner who comes from Finland – as well as looking at old photographs and documents, I became aware of the many common problems faced by all migrants, regardless of nationality and destination: grappling with language difficulties, home-sickness, poverty, a loss of social status and recognisable qualifications, not to mention the separation from family.(…) I would hope that beyond its immediate subject, any illustrated narrative might encourage its readers take a moment to look beyond the ‘ordinariness’ of their own circumstances, and consider it from a slightly different perspective. One of the great powers of storytelling is that invites us to walk in other people’s shoes for a while, but perhaps even more importantly, it invites us to contemplate our own shoes also. We might do well to think of ourselves as possible strangers in our own strange land. What conclusions we draw from this are unlikely to be easily summarised, all the more reason to think further on the connections between people and places, and what we might mean when we talk about ‘belonging’.”
Malgrado Shaun Tan faccia qui riferimento in particolare a “The arrival”, trovo che si possano considerare queste parole come gli estremi di una vera e propria dichiarazione di poetica, nella quale più il tempo passa e più mi scopro a mia volta immerso.
Il concetto e il senso d’appartenenza, il nostro continuo perderla e ritrovarla, non sono soltanto domande a cui tutti in una maniera o nell’altra ci troviamo a dover rispondere in determinati momenti della nostra vita, ma anche principi fondanti e ineliminabili del nostro essere nella realtà, nel pianeta e nell’esistenza in toto.
Uno dei grandi poteri del raccontare storie, dice Shaun, è che ci invita a camminare per un po’ nelle scarpe altrui e allo stesso tempo (cosa questa, forse ancora più importante) ci invita a prendere in considerazione e contemplare le nostre.
In fondo, possiamo pensare anche a noi stessi come ‘stranieri’ nella nostra stessa terra.
Oggi come ieri, domani come nei secoli a venire.
Ecco, al di là di quanto si possa davvero credere in proposito, mi pare stia tutta qui la ragione per cui valga la pena continuare a raccontare.