Ciao. Io sono qui, nell'ostello più alto del mondo.
La situazione è questa. Dopo Aix-en-Provence, Arles, Tossa de Mar, Roses e Cap de Creus, arrivo nella mia nuova città in cui passerò i prossimi sei mesi. Tarragona, una splendida spiaggia, un antico insediamento romano. E come dice mio padre “Se c’erano i romani allora è proprio un bel posto” riferendosi al loro approccio colonizzatore. Il dramma era trovare casa. Un dramma che si è rivelato più semplice del previsto grazie alla mia capacità interattiva e al mio inestimabile potere di seduzione. Quegli interminabili pomeriggi di inizio agosto passati sul divano a cercare annunci cercando di padroneggiare una lingua a me sconosciuta, sono valsi a qualche cosa.In realtà non è vero in quanto il ragazzo che cercava un coinquilino l’ho contattato a maggio-giugno. L’ho anche soprannominato “il pazzo”, l’avevo inserito nella mia lunga lista nera e rimosso dagli amici su Facebook. Sono una persona cattiva ma in futuro vi scriverò un post a riguardo e giudicherete. Giudicherete me, sicuro. Effettivamente ho etichettato in modo sbagliato una persona che per il momento non si è rivelato un narco-trafficante colombiano ma un ragazzo gentile e molto disponibile.E ora dove sono? Un passo alla volta.“Ora che abbiamo trovato casa, che ne dite di andare a Barcellona?” dico ai miei genitori + sorella in crisi adolescenziale, lei che ha bisogno del wifi per sentire la sua amica che rimorchia il figlio del proprietario dell’albergo in cui alloggia a Cattolica. I 16 anni passano in fretta mi auguro.Detto fatto. Dove dormire? “Ghe pensi mi”.
Ecco dove sono. Un palazzo splendido, quasi un grattacielo americano, dodici piani di ostello. Sì, un ostello della gioventù perché io sono per il risparmio e per la vita comunitaria. Mia madre un po’ meno. Un posto splendido, terrazza sulla Torre Agbar, una sala comune dove si organizzano feste a tema, centro sportivo e la possibilità di sentirsi da Abercrombie sull’ascensore. E’ tutto un “Hi, what’s going on?” “Hi, how are u?” “Hola guapa”. Sono sintonizzato su quattro lingue diverse.Il francese alla reception, l’inglese sulla sovra citata ascensore, lo spagnolo in città e l’italiano per le parolacce quando dimentico qualcosa in camera e devo tornare su. All’undicesimo piano.
Barcelona è una città che amo. Solare, allegra, viva, grande. Ci si perde nelle strade e nei milioni di volti sempre differenti che la popolano. Si sente il respiro della modernità e non ci sono pregiudizi per nessuno. E’ una di quelle poche città in cui ho sospirato un “Io qui ci vivrei”. Ho salutato mamma, papà e sorella adolescente. E’ stato un momento delicato, non perché io sia un mammone viziato, al contrario hanno sempre cercato di inculcarmi un gran senso di responsabilità e di indipendenza, ma perché mi mancheranno, a modo loro.Era da tanto che non facevamo una vacanza così lunga insieme ed è stato davvero divertente.
Ma sono sempre quel bambino che a otto anni diceva “Voglio essere indipendente”, prendeva il Valigiotto (una valigia di plastica per i pennarelli), metteva dentro i fazzolettini e usciva di casa rimanendo fermo nell’androne del suo palazzo per dimostrare di sentirsi grande abbastanza per cavarsela da solo. Rimango in questo ostello per qualche altro giorno fino a quando potrò entrare a Tarragona nella mia nuova casa. Alla recption chiedo se c’è posto, in francese ovvio.“E’ rimasto un posto letto per due notti nella camera insieme ad altri 5” dove i cinque sono sconosciuti, sempre per quel senso di internazionalizzazione da ostello che ci piace tanto. “E’ la soluzione che costa meno?” perché si è pezzenti sempre, mai dimenticarselo.“Sì, e se vuoi l’ultima notte puoi farla in una camera da 8”, perché sono pezzente ma potrei esserlo ancora di più e quindi vado a risparmio pur dovendo cambiare la camera.“Dai va bene”. Tic, trac, truc. Guardo lo scontrino. Ho risparmiato tre euro ma ne ho spesi due di commissione per pagare con la carta da credito. Lollo sia sempre il benvenuto a Barcellona.