A cura della Dottoressa Anna Chiara Venturini, psicologa psicoterapeuta a Roma
Allora M. mi racconti un po’ quale era il problema che si è trovata a fronteggiare?
Dopo varie e tristi vicissitudini, in un giorno normale mi trovavo in macchina sull’autostrada e improvvisamente il panico mi ha letteralmente paralizzata, non sapevo dove fossi, E’ stato terribile, ricordo ancora quella sensazione come se fosse ora
Quando l’ha scoperto come si è sentita?
Avevo solo sentito parlare degli attacchi di panico, ma non conoscevo i particolari né i risvolti di questo terribile problema. Mi sentivo in costante pericolo, smarrita, sola. Non sapevo che fare, ero tanto spaventata e disperata. Mi chiedevo come sarebbe stata la mia vita da quel momento in avanti e le risposte che mi davo non erano per nulla rassicuranti.
Come era diventata la sua vita?
Mi sentivo in prigione, in uno di quei carceri di massima sicurezza da cui evadere è praticamente impossibile e soprattutto dove la vita quotidiana è un vero e proprio inferno. Non riuscivo più a fre nulla a sola, avevo bisogno sempre che qualcuno mi stesse vicino così da soccorrermi se mi fossi sentita male. Non andavo più al cinema nè al ristorante, tutti i luoghi chiusi in cui l’uscita di sicurezza non era immediatamente disponibile per me erano tabù. Non prendevo nè ascensore nè treno, ma soprattutto guidare in autostrada da sola per me era divenutato proibitivo ( anche perchè il primo attacco di panico si era manifestato proprio mentre guidavo in autostrada sa sola e di conseguenza, dovendo fare quella strada quasi ogni giorno, per me era diventata una vera e propria un’agonia)
E la vita di quanti che le stavano accanto come è cambiata?
Per mia fortuna, nessuno della mia famiglia o degli amici, delle persone con cui lavoro mi ha abbandonata in quei momenti davvero tristissimi e problematici, ma io so di aver reso la loro vita impossibile. Non riuscivo a fare un passo se non mi accompagnava qualcuno; anche cose semplicissime o intime, come fare la doccia, mi risultavano problematiche. Dapprima la loro preoccupazione mi ha oppressa, facendomi sentire ulteriormente in prigione, poi ho spiegato loro che le loro manifestazioni di affetto e apprensione mi faceva sentire “malata” e soprattutto manteneva vivo il disturbo. In poche parole non potevo sperimentare la possibilità di farcela da sola se loro erano i primi a volermi accompagnare ovunque per paura che mi sentissi male. Così, dopo aver trovato il giusto equilibrio tra cosa sentivano di fare e cosa era invece bene fare, la situazione pian piano si è sgonfiata, nel senso che loro anno ripreso la loro vita e io ho avuto la possibilità di non sentirmi più un “peso” per la mia famiglia.
Cosa ha deciso di fare quando il disturbo di panico l’ha paralizzata?
Con l’unico briciolo di forza rimasta o forse con quella voglia di sopravvivere alle catastrofi che ognuno di noi ha dentro, ho cercato informazioni su internet e francamente quasi tutto il materiale reperito non faceva che spaventarmi ancora di più; le testimonianze non erano affatto rassicuranti e c’era pericolo di imbattersi nelle persone sbagliate. Io invece sono stata fortunatissima; devo ringraziare il mio istinto che mi ha condotto sulla strada giusta. Ho chiamato immediatamente una psicoterapeuta che cordialmente ed in modo molto determinato, mi ha invitata ad incontrarci. Avevo letto che affrontare tempestivamente il problema avrebbe influito positivamente sulla soluzione. Abbiamo iniziato a lavorare seriamente al problema con la terapia cognitivo-comportamentale e in breve tempo ho ottenuto dei risultati molto significativi.
Come avete affrontato il panico?
Anzitutto abbiamo lavorato su due fronti, quello comportamentale ( con esposizioni in vivo alle situazioni ansiogene) e quello cognitivo ( ricostruendo insieme il circolo vizioso del panico, individuando i fattori scatenanti, precipitanti e di mantenimento, con particolare attenzione alle manifestazioni somatiche dell’ ansia e della paura e ai pensieri che le innescavano e alimentavano). Così, una volta stilata una lista delle paure , le abbiamo prese di petto, dalla più facile ( paura di salire in ascensore da sola) alla più difficile da superare ( guidare in autostrada da sola) , cercando di risalire anche alle problematiche che le avevano generate ma soprattutto di verificare che ce la potevo fare perché erano cose che avevo sempre fatto (“ lei non è sola ma è in compagnia della M. che ha sempre fatto tutto questo”). Abbiamo infatti cercato di capire il meccanismo dell’evitamento che mi portava ogni volta a non affrontare determinate situazioni per paura di avere un attacco di panico ( es. evitare di entrare in luoghi chiusi da cui non potevo uscire subito se mi fossi sentita male, come per esempio Ikea). Compreso come e perché evitavo, mano a mano che mi esponevo alle situazioni ansiogene, le sentivo più familiari e imparavo a riconoscere come in realtà fossero i miei pensieri a far scattare la paura e quindi l’evitamento; capito questo di volta in volta monitoravo i miei pensieri e le mie emozioni, riuscendo a modificare il mio dialogo interno. Da “M. sei sola e se ti sentirai male non ci sarà nessuno” i miei pensieri si erano modificati in “M. non sei sola, se ti sentirai male potrai chiedere aiuto e soprattutto non è detto che ti sentirai necessariamente male”. La probabilità di un attacco di panico che prima sovrastimavo, pian piano ritornava ad essere più realistica e ogni volta che mi esponevo e “vincevo la paura” capivo che era sempre meno probabile che il panico tornasse perché stavo cambiando io e soprattutto, se si fosse presentato, avrei avuto gli strumenti per riconoscerlo ed affrontarlo.
Come l’ha aiutata la psicoterapeuta?
Mi ha aiutata a riacquisire la fiducia in me stessa, mi ha confortata nei momenti in cui mi mancava addirittura la lucidità mentale perché la paura è davvero terrificante, mi ha supportata anche fisicamente durante le sedute ,accompagnandomi dove il panico si era presentato e dove, ogni volta, cercava di tornare.
Quando e come si è sentita maggiormente supportata?
Dal primo istante, durante la telefonata di contatto, ho sentito che quella era la persona giusta. E successivamente, ogni volta che il panico cercava di riaffacciarsi, bastava che la chiamassi e il solo sapere che lei c’era, perché c’era sempre, mi aiutava. Quando hai questo tipo di problema che non sai se o quando si presenta, è importante sapere che chi ti sta aiutando c’è in qualsiasi momento tu ne abbia bisogno, oserei dire che è fondamentale.
Cosa è successo poi?
Man mano che raggiungevamo dei risultati era altrettanto importante che io me ne rendessi conto; spesso si tende a dare più spazio ai regressi che ai successi, che invece sono fondamentali, perché capisci che puoi farcela, che la tua vita si può riprendere. In questo l’elenco dei successi mi ha aiutato molto. Per tutta la terapia ho infatti tenuto, oltre ad un diario in cui registravo i pensieri disfunzionali e la loro ristrutturazione, anche una sorta di “pagina dei successi” su cui annotavo ogni progresso: il fatto di poter vedere ogni giorno come quella lista si allungava mi faceva acquisire sempre maggiore fiducia nelle mie capacità e mi permetteva di vincere la mia battaglia quotidiana col panico: ce la potevo fare e quella pagina era li a ricordarmelo
E la sua vita come è ripresa?
Ho ricominciato a camminare da sola, a dormire da sola, a salire nuovamente in macchina, ma soprattutto a sentir montare l’ansia e a riconoscerla senza fare si che l’attacco di panico sopraggiungesse a distruggermi. Ho imparato pian pian o a riconoscere i miei pensieri catastrofici e la cascata negatività e ansia che si portavano dietro. In definitiva, progressivamente ho riacquisito la mia autonomia sia mentale che fisica.
Oggi come sta?
Sento di stare molto molto meglio; non posso ancora dire di essere totalmente guarita, per prudenza e per un po’ di scaramanzia. Ma sono molto più ottimista che la fine del disturbo sia vicina e soprattutto che posso affrontarlo.
Da quanto non ha più un attacco di panico?
A fine aprile è iniziato tutto; il 2 giugno ho chiesto aiuto alla dottoressa. A luglio già guidavo con qualcuno a fianco. Oggi sono totalmente indipendente
Cosa ha imparato su di sé e sugli altri da questa esperienza?
Non bisogna mai darsi per vinti né mai disperare: il famoso ‘giacimento’ che ognuno di noi ha dentro di sé esiste ed è davvero ricco, basta saperlo trovare.Ci vuole forza, tanta, ma ce la si può fare. Ovviamente si deve volere. Bisogna saper chiedere aiuto, coraggio, amore. Abbiamo tante persone intorno capaci e desiderose di darcene.
Chi è oggi M.?
Oggi sono probabilmente la stessa persona ma con un’altra consapevolezza e un’altra forza
Rifarebbe quello che ha fatto?
Rifarei tutto quello che ho fatto, compreso l’aiuto farmacologico
Cosa non rifarebbe?
Le troppe visite mediche
Se potesse dire qualcosa oggi al disturbo di panico cosa gli direbbe?
“ Ora so chi sei e perché hai voluto incontrarmi: per quanto mi riguarda puoi andartene, non mi serve più il tuo aiuto per avere amore, attenzione né per distruggermi.”
Cosa può suggerire a chi affronta oggi le difficoltà che invece lei ha combattuto?
Determinazione è la parola d’ordine. Far passare il tempo è la cosa peggiore che si possa fare: cronicizzare il panico , è quello il vero squilibrio psicologico!
Ringrazio M. per aver messo a disposizione la sua testimonianza e per aver accolto con entusiasmo la mia proposta di poter scrivere un articolo che fosse un messaggio per quanto soffrono di un disturbo di panico e non vedono vie di uscita. M. ci ha portato un grande esempio di forza di volontà e determinazione, ma anche di onestà e sincerità soprattutto verso se stessa, riconoscendo i suoi punti deboli che insieme avremmo poi scoperto essere il “suo giacimento” di energia e benessere per affrontare la vita. M. oggi ci ha mostrato come il panico si può riconoscere e vincere e come sia importante chiedere aiuto tempestivamente, ma soprattutto di quanto sia fondante il rapporto terapeutico. Come dice M., “sapere che c’è qualcuno”, che non si è soli e che questo qualcuno ci spinge a “fare” perché crede in noi e nelle nostre capacità, è importantissimo perché ci fa scoprire che in fondo il sentirsi “malati” serve a coprire altro, che è un modo per comunicare un bisogno, un desiderio o una difficoltà. Si apprende ad ascoltare il disturbo di panico, che nel caso di M. serviva per attirare attenzione e non essere abbandonata: si impara a leggere tra le righe dell’ansia e della paura, per scoprire che ognuno di noi ha una percezione della realtà ed una modalità di comunicare le emozioni che rispecchia il proprio passato ed influenza il proprio futuro.
Vincere il panico e tornare a vivere è possibile ed è importante farlo perché siamo i primi a essere responsabili della nostra vita e del nostro benessere.
(Ultimo articolo pubblicato “Perché non c’è più?” Come spiegare la morte ad un bambino: quando come e soprattutto perché va fatto” )
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