Il 30 Ottobre i Wild Beasts saranno in Italia (Tunnel, Milano) per presentare Smother, il loro ultimo lavoro.
‘To smother’ sta per soffocare, reprimere. Bene, ora provate ad immaginare Hayden Thorpe e tutto quello che avete sempre saputo dei Wild Beasts, letteralmente asfissiato. Provate a immaginare un pezzo come The Devil’s Crayon o Vigil for a Fuddy Duddy, si è letteralmente annegati in acque calme di bassa marea. Avrete Smother.
Sono passati quattro anni dal primo singolo, Brave Bulging Buoyant Clairvoyants e da Limbo Panto, e neanche per scherzo, si sarebbe potuto prevedere che una band come i Wild Beasts avrebbero avuto fortuna. Perché si differenziano? Perché la leading voice è un semi-tenore? Perché hanno un sound intelligente e mai casuale? Perché, pur avendo quel timbro estremamente riconoscibile, non sono mai prevedibili?
Sarebbe stato prevedibile un album quale Smother? Si e no. Per prima cosa, dimenticatevi i timbri bassi delle batterie. Affievolite le schitarrate, e fateci un’arpa. Aggiungete un po’ di elettronico, che non guasta mai. Se prendessimo All The King’s Men (pezzo con cui ho iniziato a drogarmi della voce di Hayden) e gli facessimo fare mezzo minuto di apnea avremmo Reach A Little Bit Further.
Al primo ascolto, Smother sembra infinito – e non perché annoi. Anzi, non annoia per nulla, ma ipnotizza. L’atmosfera è quella annoiata di un giorno estivo da acquazzone.
Ma i giorni uggiosi di luglio annoiano, invece End Come Too Soon scorre armoniosa come acqua. Il ritmo si allunga, la musica si stira, sotto ci sono tocchi di glockenspiel. È un’atmosfera avvolgente, e Thorpe guida il tutto con la sua voce: se di solito tende a sopraelevarsi, e si lancia in vocalizzi alla Kate Bush, qui si fonde col tutto. Segue l’andamento delle note un po’ come Morrisey si trascinava su Please Please Please (scemando in mellifluità). Non ci sono timbri aggressivi. È come se al quarto album fosse arrivata l’era della maturità, la pausa metafisica, la crisi di mezz’età che porta alla riflessione.
È un album maturo, meditativo. Non discerni la singola track, l’ascolti è fluido. Del resto, quando soffochi la vita ti passa davanti in un continuum senza fine, dove i singoli episodi si accavallano secondo una loro particolarissima logica. Un album pensato per la pace dei pensieri: tant’è vero che viene da chiedersi come potrebbe essere una resa live. Tutto inizia con Lion’s Share, bassa graffiata e intima per poi sfociare in un giochi di piano ( ricordando un po’ Scary World Theory dei Lali Puna, e l’immagine è quella di Toni Servillo che arriva in primo piano sulle strisce mobili dell’aeroporto ne Le Conseguenze Dell’Amore). Più attiva e movimentata Bed of Nails, a seguire. Riprende i mood intimi e romantici con Deeper e Loop The Loop, fino ad Albatross che è un poema lirico delicato come un cielo cinereo da pioggia. Recupera il ritmo Reach A Little Bit Further, implode nello zen da glokespiel con Burning.
End Come Too Soon chiude il tutto con un po’ di chiara malinconia. Panta rei, tutto scorre con estrema grazia e dolcezza, evitando la catarsi dei Radiohead, ma senza accenni di forza. Soffocare non è mai stato così piacevole.
Marzia Picciano
Voto Marzia: 8Voto Nico: 7,5
- Lion's Share
- Bed Of Nails
- Deeper
- Loop The Loop
- Plaything
- Invisible
- Albatross
- Reach A Bit Further
- Burning
- End Come Too Soon