
Estás empachado? ¡Hay que sobarte!
Un giorno di marzo decidemmo, io e Maribel, di andare a Bayamo a far visita a sua sorella. Poco
prima di partire avevo accusato dei dolori di stomaco e un po’ di nausea. La cosa strana era che
ruttavo al gusto di uovo senza aver mangiato uova quel giorno. Ad essere precisi erano diverse
settimane che non mangiavamo uova, perché con la libreta ne davano solo due o tre a testa al mese,
se andava bene. Riso e zucchero, invece, venivano distribuiti più generosamente, anche se farli
durare per tutto il mese non era mai facile. Veramente non ho mai capito come facessero a svanire
tre chili di zucchero a persona ogni mese solo per addolcire il caffé. Il riso spariva velocemente per
diversi motivi: prima di tutto perché veniva preparato tutti i giorni sia a pranzo che a cena, come
d'abitudine in un paese dove la pasta si mangia solo occasionalmente e dove il pane, in pieno
periodo especial, è razionato; poi perché la qualità scadente di questo cereale costringeva a buttarne
quasi un decimo, costituito da grani frantumati e pietrisco; infine perché ne veniva cucinato sempre
molto di più di quello che era il nostro fabbisogno quotidiano e quindi una buona parte finiva nel
secchio degli avanzi destinati al maiale. A volte toccava anche a me dedicarmi alla pulizia del riso,
prima della cottura: un'operazione per niente facile, che richiedeva doti particolari come vista acuta,
manualità, velocità e pazienza. Una volta prelevata dal sacco e rovesciata sul tavolo la quantità di
riso che si voleva preparare si dovevano infatti passare ad una analisi manuale tutti i granelli,
separandoli dalle pietruzze sempre presenti e scartando quelli frantumati, troppo piccoli per essere
di qualche utilità.
Le donne di casa erano molto abili in questo lavoro e potevano pulire in pochi minuti anche due
libbre di cereale a testa, con l'uso di una sola mano, tenendo l'altra comodamente appoggiata al
tavolo e chiaccherando tranquillamente con l'amica, la cugina, la vicina di casa che era nel
frattempo sopraggiunta. Io, invece, ero decisamente inadatto a questo ruolo: se, da un lato, scartare
una pietruzza era semplicissimo, dall'altro lato non sapevo mai come comportarmi di fronte ad ogni
chicco di riso. Non sapevo mai valutare, con sufficiente abilità, se un chicco era piccolo o grande,
se era intero o spezzato, se era pulito o sporco: il risultato era che per pulire una libbra di riso ci
mettevo almeno un'ora, causando giustamente i rimproveri della massaia di turno:
“Ale, figlio mio, sei ancora lì? Di questo passo mangeremo domani!”
“Questo riso è quasi inutilizzabile. Guarda quanto scarto!” dicevo per giustificarmi.
“Sì, ma tu scarti anche le parti buone! Tutto questo si può mangiare” esclamava, riabilitando i
chicchi che io avevo messo da parte e vanificando il mio lavoro.
Il pane veniva distribuito esclusivamente con la libreta e avevamo diritto ad un panino a testa.
Le dimensioni del panino erano quanto di più vago e incerto si potesse immaginare: benché fossero
stabilite, quasi per legge, uguali per tutti in tutto il paese, la realtà era ben diversa. A parte il fatto
che i panini che davano a Niquero erano grandi la metà di quelli che davano a L'Avana, c'era anche
una notevole differenza tra i vari panini della stessa panetteria. Nella nostra panetteria (intendo dire
quella presso cui eravamo registrati) il pane veniva distribuito verso le quattro e mezza del
pomeriggio. Ora, uno potrebbe giustamente chiedersi cosa se ne faceva del pane a quell'ora della
sera e infatti me lo sono chiesto anch'io, dato che ne avrei fatto un uso migliore a colazione e a
pranzo; ma non era a me che dovevo chiederlo, bensì a qualche burocrate del partito che,
probabilmente in un momento di distrazione, aveva deciso che in quel piano quinquennale il pane
dovesse essere distribuito a quell'ora. Oltretutto, considerando che il pane veniva preparato e
sfornato al mattino presto, si può anche facilmente immaginare quale livello di freschezza avesse
raggiunto nel momento in cui mi recavo a ritirarlo. Alla bodega alle quattro e mezza del pomeriggio
non c'era mai molta confusione, quindi ci andavo volentieri e di buon umore. Peccato che l'umore
della commessa di solito fosse opposto al mio: io entrando salutavo e chiedevo il pane, lei invece
mi guardava molto seria per alcuni istanti senza dire niente, poi si chinava per prendeva tre panini
dal sacco e li buttava sul bancone, quasi con un gesto di disprezzo. Apriva bocca solo per dirmi
quanto dovevo pagare. Porgevo la libreta affinché venisse annotato l'acquisto e prendevo i tre
panini: uno era sempre più piccolo degli altri, deforme, sgorbio, bruciacchiato e insipido:
sicuramente era quello riservato a me e che la simpatica commessa aveva premurosamente messo
da parte sin dal mattino. Salutavo (ovviamente senza essere quasi mai ricambiato) e uscivo. Il
perché del comportamento antipatico della commessa della bodega è un mistero tuttora irrisolto, al
pari del big bang e della liquefazione del sangue di San Gennaro, anche se sembra che per questi
ultimi due si sia quasi giunti ad una spiegazione definitiva.
Ma torniamo alla mia nausea e al viaggio verso Bayamo. Il pullman che avevamo deciso di
prendere (anche se sarebbe più corretto dire che era il pullman che decideva eventualmente di
prendere noi se ne aveva voglia, dato che per noi non c'era molta possibilità di scelta) aveva
inaspettatamente cambiato orario, così dovemmo tornare a casa senza aver concluso nulla. Il giorno
dopo ci recammo nuovamente alla stazione dei pullman e riuscimmo a salire su un mezzo
abbastanza decente e funzionante che ci portò fino a Bayamo.
La mia nausea era ancora lì al suo posto: il sapore di uovo marcio continuava a salirmi in gola
dallo stomaco. Quando giungemmo a casa di Andy non stavo per niente bene, anzi ero peggiorato.
Non avevo fame e quel poco che mangiavo lo vomitavo. Tuttavia sembrava che non avessi febbre e
potevo tranquillamente stare in piedi e andare in giro. Così andammo in città a fare spese e comprai
due gomme nuove per la moto di Nestor, un nostro amico di Niquero, con il quale avevo fatto un
accordo: io gli regalavo le gomme, lui poteva usare di nuovo la moto che da tempo era ferma e
inutilizzabile e in cambio me l'avrebbe prestata quando ne avessi avuto bisogno.
Il giorno dopo mi recai anche all'Ufficio Immigrazione per consegnare finalmente i documenti
che mi ero faticosamente procurato negli ultimi mesi per ottenere la residenza permanente:
mancava solo il certificato penale e mi dissero gentilmente che si sarebbero informati, nei giorni
seguenti, per vedere se si poteva farne a meno.
Intanto, oltre alla nausea, mi era venuta anche la stitichezza: avevo la pancia così gonfia che
sembrava volesse scoppiare da un momento all'altro. Maribel e Andy iniziavano a preoccuparsi
seriamente, anche perché ormai non mangiavo più nulla e siccome non sono mai stato grasso (anzi,
non sono mai stato nemmeno normale, dato che è alquanto difficile considerare normale un fisico
maschile di 54 chili per 1 metro e 78 centimetri d'altezza) secondo loro sarei sicuramente dimagrito
così rapidamente fino a scomparire quasi del tutto nel giro di pochi giorni. Io invece ero tranquillo:
mi conoscevo bene e sapevo che, quasi certamente, ero semplicemente rimasto vittima di qualche
batterio o virus intestinale che per qualche giorno mi avrebbe dato questi problemi, dopodiché si
sarebbe risolto tutto per il meglio. Mi era già capitata una cosa simile qualche anno prima, nelle
montagne del Nicaragua, a casa di alcuni contadini che non avevano né luce né acqua corrente e
dove bevevamo tutti allegramente l'acqua di quella che loro chiamavano col nome celestiale di
“sorgente”, ma che per me era l'abbreviazione di “pozza di liquido stagnante, torbido e opalino,
senza sapore e di provenienza ignota”. Ricordo che, all'apice dell'infezione intestinale che
inevitabilmente mi procurai, rimasi stitico per sette giorni, poi la mia pancia deflagrò
improvvisamente in un cesso buio e asfittico di un'associazione di agricoltori nella città di
Matagalpa dove ci eravamo recati per partecipare ad una conferenza. Quando uscii mi sentii
rinascere e provai anche molto gusto a mangiare la Pizza con l'Ananas che l'associazione di
agricoltori si era premurata di farci preparare (ma perché quando noi italiani siamo ospiti di
qualcuno all'estero dobbiamo sempre sottoporci alla tortura della pizza o degli spaghetti locali?).
I vicini di Andy non erano del mio stesso parere.
“Ale” mi disse Andy “secondo loro sei rimasto empachado, quindi hay que sobarte!”
“Che?! Cosa vuol dire?” chiesi stupito.
“ Sei rimasto empachado, cioè hai fatto un'indigestione, quindi hay que sobarte.”
“Ovvero?”
“Stasera viene uno, qui del barrio, lui è pratico di queste cose. Ti tira giù la bolita.”
“Che bolita? Di cosa state parlando?” - domandai piuttosto scettico.
“La bolita che hai dietro il polpaccio” spiegò Andy sorridendo. “Quando fai un'indigestione ti
sale su la bolita fin quasi dietro il ginocchio; ora per guarirti bisogna farla scendere con il
massaggio giusto. E fa un male...!!”.
La voce che io dovessi essere sobado si era sparsa velocemente nel barrio: Pipo, un ragazzino
che viveva nella casa accanto, quando mi vide nel pomeriggio esclamò con occhi sorridenti:
“Ale! Te van a sobar?”
“Chi? Io? No... Credo proprio di no...” risposi con esitazione.
Non ho mai capito se anche Andy e Maribel credessero a queste cose: di sicuro, però, io non ci
credevo. Tuttavia mi era stato gentilmente fatto notare che non avrei potuto sottrarmi al massaggio
del tizio che quella sera si era presentato in casa: un anziano gentile che si accomodò su una sedia
di fronte a me. Si unse le dita con un po' d'olio, prese prima la mia gamba sinistra, tastò il
polpaccio, poi la lasciò; prese la destra e annuì avendo accertato la presenza della bolita. Intorno a
noi vigilavano gli sguardi di Andy, Maribel, Pipo e qualche altro curioso. Iniziò il massaggio per
tirare giù questa bolita e fortunatamente l'operazione non si rivelò per niente dolorosa. Anzi,
provavo una tale sensazione di piacevole benessere globale che quasi quasi gli avrei chiesto di
sobarmi anche l'altra gamba. Mentre assaporavo silenziosamente il massaggio rivitalizzante,
riflettevo per conto mio sulle credenze popolari, sulla fede religiosa e sull'effetto placebo: forse
unendo tra loro queste tre cose avrei potuto dare una spiegazione al successo indiscusso della
pratica del sobar. Preferivo comunque continuare a credere che si trattasse di una comune infezione
intestinale che si sarebbe risolta da sola con i miei anticorpi o, al limite, con l'aiuto di un buon
antibiotico e lasciai che l'anziano signore continuasse il suo lavoro: tutto sommato finora non mi
aveva causato nessun dolore, né imposto alcuna pratica che andasse contro le mie volontà. Anzi,
l'operazione terminò tirandomi leggermente ogni dito del piede e siccome quella zona è per me
molto sensibile non riuscii a trattenere una risata accompagnata da un istintivo scatto sulla sedia.
Probabilmente il tizio e gli spettatori si chiedevano per quale motivo io stessi reagendo in quel
modo ad un'operazione che normalmente dovrebbe causare dolori sovrumani...
Infine il tizio si rivolse ad Andy e le disse:
“Preparami un bicchiere di acqua e sale”.
“A cosa serve?” chiesi incuriosito.
“Devi berla”
Cos'è? Uno scherzo? pensai. Se mi fate bere acqua e sale, come minimo potrei vomitare. Dato
però che il mio stomaco era praticamente vuoto dal giorno prima era più probabile che gli effetti
della soluzione si sarebbero fatti sentire un po' più in basso, diciamo verso l'intestino.
Il tizio prese il bicchiere con una mano, ci fece sopra degli strani gesti con l'altra mano,
pronunciando a bassa voce qualcosa che non riuscii a capire, e me lo pose:
“Bevila tutta d'un sorso”.
Per un istante non sapevo cosa fare. Guardai il tizio, guardai il bicchiere, poi sentii addosso a me
gli sguardi di tutti gli altri in trepidante attesa: non mi potevo più tirare indietro e non potevo certo
mettermi a discutere in quel momento dell'efficacia o meno del sobar e degli effetti dell'acqua
salata nel mio apparato digerente. Ingoiai l'infelice intruglio, immaginando che mi avrebbe atteso
una notte per niente facile.
Il tizio se ne andò senza nulla volere in cambio e lo ringraziai: non so bene di cosa lo ringraziai,
ma era stato così gentile e convincente che non me la sentivo di dargli un dispiacere mandandolo
all'inferno.
A cena mi mantenni leggero ancora una volta, perché la nausea e il malessere generale non mi
diedero appetito.
La notte che arrivò fu alquanto movimentata. Credo che mi alzai almeno una decina di volte per
correre al cesso in preda ai dolori addominali. L'acqua e sale stavano forse facendo il loro effetto?
La guerra anticorpi-batteri era giunta al suo apice? Chi sarebbe stato il vincitore? Sarei riuscito ad
arrivare sano e salvo all'alba del giorno dopo? Quanti litri di liquame indefinito può espellere
l'organismo umano dal deretano in sei ore? C'è vita oltre la morte? Saranno sufficienti questi dieci
fogli di giornale?
Mentre cercavo risposta a tutte queste domande, nei momenti di tregua in cui potevo stare
sdraiato sul letto, riuscivo anche a dormire per alcuni minuti e a far riposare il mio corpo esausto.
Infine arrivò il giorno. Era una giornata radiosa, perché decisi di recarmi all'ospedale a farmi
visitare: ormai non potevo più aspettare oltre, col rischio di serie complicazioni. Là mi avrebbero
sciuramente rimesso a posto in pochi minuti con l'aiuto della scienza, pensai.
Maribel e Iberia, un'amica di Andy, mi accompagnarono all'ospedale di Bayamo. Dopo una coda
in sala d'attesa durata pochi minuti il medico del pronto soccorso mi chiamò: riceveva in un angolo
della stessa sala d'attesa, dove un paravento creava un minimo di riservatezza. Mi fece accomodare
su una sedia e mi chiese che sintomi avevo e da quanto tempo.
“Ha preso qualche medicina?”
“No” risposi. Poi, esitando, perché non sapevo se era il caso di confessarglielo, aggiunsi:
“Però ieri mi hanno sottoposto a quella pratica alternativa... mi hanno sobado.”
Sorrise con un pizzico di scherno, ma non riuscii ad intendere se era rivolto specificamente a me
o in generale ai sostenitori di quell'arte.
Poi mi chiese anche da che paese ero arrivato: all'apparenza poteva sembrare una domanda fuori
luogo, ma poi mi ricordai di aver letto sul giornale qualche giorno prima una notizia su un'infezione
di colera avvenuta in un paese sudamericano e probabilmente ipotizzava che fossi stato colpito
anch'io. Gli feci notare che ero a Cuba già da quattro mesi. Annuì, ma sul foglietto che diede alla
collega che doveva analizzare le mie feci c'era scritto: “Cercare vibrione c.”, dove la lettera “c.”
stava evidentemente per “colera”.
“Aspetti qui, vado a cercare un contenitore” mi disse la dottoressa.
Tornò poco dopo, con un flaconcino di vetro del diametro di circa un centimetro e me lo pose.
“Mi spiace, è tutto quello che abbiamo”.
Mi indicò dov'era il bagno ed entrai. La serratura era rotta e quindi la porta non si chiudeva bene.
C'erano solo una tazza e un lavabo e l'ambiente dava un'impressione alquanto tetra. Guardai il
flaconcino e mi venne un'infinita tristezza: praticamente avrei dovuto avere una mira così infallibile
da riuscire a centrare l'obiettivo senza possibilità d'errore, altrimenti mi sarei “imbrodato” le mani
con risultati poco piacevoli. Mi misi in posizione di “lancio” sopra la tazza e il liquame infame non
tardò ad arrivare, puntuale come era da due giorni: mentre tenevo d'occhio la porta per non farmi
cogliere di sorpresa da un eventuale intruso tentai l'impossibile impresa. Non sapevo, però, se era
meglio tenere fermo il sedere e spostare la mano con il flaconcino con movimenti micrometrici
oppure tenere ferma la mano e muovere il bacino. Il risultato fu comunque disastroso. Le mie dita
erano ricoperte di quel liquido orribile e non c'era carta igienica per pulirsi. Dal lavabo usciva solo
un filo d'acqua con il quale a malapena risucii a lavarmi. Nel flaconcino non c'erano che poche
gocce di liquido: uscii e lo consegnai alla dottoressa, la quale per fortuna si accontentò e scomparve
nel laboratorio analisi.
Poiché non c'erano sedie attesi in piedi in un corridoio lì vicino, chiaccherando con Maribel e
Iberia. Ero abbastanza debilitato da due giorni di digiuno e dissenteria e rimanere in piedi per molto
tempo inziava a stancarmi. Mi sentivo letteralmente svuotato e probabilmente sarebbe bastato un
altro piccolo turbamento fisico o psichico per farmi crollare letteralmente a terra. Mentre mi
guardavo intorno alla ricerca di un modo per far passare il tempo più velocemente il mio sguardo
cadde su una porta alle mie spalle, con una targa che diceva: “Sala autopsia”. Quindi lì dentro si
sezionavano i cadaveri, pensai. Proprio in quel momento si aprì la porta e usci un tale spingendo
una barella sulla quale giaceva un corpo umano coperto da un lenzuolo: solo la testa rimaneva
libera. Il tale parcheggiò la barella vicino a noi e se ne andò. Guardai il volto bianco e inespressivo
dell'uomo disteso sulla barella e non mi ci volle molto a capire che, anche se non era ancora stato
fatto a pezzi, stava peggio di me. Tuttavia questa magra consolazione non bastò a sollevarmi dalla
mia spossatezza: nonostante tutti gli sforzi che facevo per ignorarlo il mio sguardo finiva su di lui,
finché dovetti per forza uscire in cortile a prendere una boccata d'aria e a sedermi su un gradino o
avrei rischiato di stramazzare al suolo.
Finalmente la dottoressa tornò con l'esito dell'esame e lo consegnò al medico che mi chiamò per
dirmi che andava tutto bene e che si trattava di una comune infezione intestinale. Mi prescrisse una
terapia di quattro pastiglie di dimensioni esagerate per i miei gusti (si noti che i miei gusti non
prevedono di ingerire corpi estranei più grandi di un grano di riso se non sono stati prima
accuratamente sminuzzati dalla mia dentatura; inoltre in un'eventualità del genere ho sempre le
necessità di ingurgitare contemporaneamente alcuni ettolitri d'acqua).
“Ogni quanto tempo devo prenderle?” domandai.
“Deve prenderle tutte e quattro adesso” rispose il medico.
Non fu una grande notizia, ma mi feci forza e riuscii anche a far bastare il mezzo bicchiere
d'acqua che mi fu portato. Ci misi almeno dieci minuti, camminando su e giù per il corridoio tra una
pastiglia e l'altra, compiendo gesti strani con la testa e tutto il corpo e mostrando evidenti smorfie di
disgusto, tanto che la gente che mi osservava pensava probabilmente che fossi stato infettato da una
misteriosa malattia. Alla fine della tortura, però, venni premiato con il permesso di tornare a casa.
Furono sufficienti una giornata di riposo e una dieta leggera per rimettermi a posto: potevo
senz'altro ritenermi soddisfatto, dato che si era risolto tutto per il meglio. Mi rimasero solo tre
misteri, ai quali nessuno diede risposta: non seppi mai cosa contenevano quelle quattro pastiglie;
non seppi mai se la bolita che mi avevano sobado c'era veramente oppure no e non seppi mai quali
furono le misteriose parole pronunciate dall'anziano signore a casa di Andy.
ALESSANDRO PILOTTO
FINE....FORSE