La sensazione che si prova in aeroporto nel momento in cui focalizzi che stai per lasciare di nuovo il tuo paese è qualcosa che ti dilania lo stomaco. È un punteruolo che ti ci si ficca dentro, si spalanca in mille spuntoni e gira, lasciandoti lì a tentare di governare il groppo in gola.
Bastarda come solo lei sa esserlo, ogni volta che ti prepari a dirle addio l’Italia ti saluta con uno splendido sole, aria tiepida e un cielo cobalto come solo da lei in inverno si può trovare. Passi i tuoi ultimi minuti in attesa del taxi a respirare gli odori (la brezza fresca che si muove nel calore dei raggi solari e risveglia quel misto leggero di asfalto e terra ed erba), memorizzare i dettagli (le crepe nel muretto del parcheggio e i mattoncini del vialetto tutti sfasati e i segnali stradali sempre troppo vecchi, troppo stanchi, troppo arrugginiti), registrarne i rumori (il rombare aggressivo del traffico che riparte al semaforo, il battere del filtro del caffè per staccare i fondi, due colleghi che si salutano per la pausa pranzo).
L’aria puzza di smog, in una città come Milano, eppure quello smog è parte del quadro, del casino. Perché senza la puzza di smog ciò che hai intorno non sembrerebbe vero. Perché essa lo caratterizza tanto quanto il dang-dang del tram in transito e l’arrancare dell’anziana col carrellino sulle strisce pedonali.
La sensazione che sale, pur circondati dal casino, è di pace. Di tranquillità interiore. Nel casino del centro di Milano nessuno mi ha dato una spallata. Nessuno mi ha spinta. Non ho avvertito quel costante nervosismo isterico che serpeggia per Market Street ogni santo giorno che ha creato il Signore. Ogni ora. C’è, ma il nervosismo degli italiani è diverso. In Italia non si ha quella sensazione che qualcuno abbia spalancato le porte di uno zoo abbandonato da un mese all’inedia. Non si vedono quelle facce che a Manchester centro caratterizzano il 90% dei presenti.
Mentre mi preparo a lasciare la mia postazione al sole per raggiungere gli altri schiavi in coda al checkin della nave volante che ci riporterà in Inghilterra in catene, mi prendo ogni raggio di sole che posso, a occhi chiusi, e ricordo il profumo tutto suo che ha l’aria del mio Paese fuori dalle mura di Malpensa. Ne godo fino all’ultimo secondo, perché non so quando rivedrò il sole e se durerà e se non ci sarà vento a novanta all’ora e se avrò modo di godermelo in qualche meraviglioso villaggio degli Yorkshire Dales e non da dietro le finestre di casa mia a Manchester, chiusa li’ per scappare da un weekend sovrappieno come al solito, intrappolata come una tigre in gabbia per colpa di previsioni sempre inaffidabili che avevano dato pioggia per l’ennesimo weekend di fila.
Vivo nella città più piovosa d’Inghilterra – e tra le più piovose di tutto lo UK. Dovrei ormai averlo capito. Dovrei ormai averlo accettato. Forse ci sarei riuscita se invece che una fogna fosse stata una Dublino o una Liverpool o una Edimburgo, la città in cui la crisi mi ha fatta finire. Forse ci sarei riuscita se fossi nata e cresciuta in una realtà in cui il sole è un miracolo di Dio ancor più che in Italia. Tuttavia, io non sono nata in un Paese della pioggia. Io sono nata nella Terra del Sole. Sono cresciuta con un appuntamento fisso di tre mesi di mare ogni estate. Chiedermi di accettare una città come Manchester sarebbe un’offesa contro il mio Paese e un rinnegare le qualità che di esso più ci mancano, a noi expats. Perché si’, ci manca talmente che di nostalgia in certi giorni c’è da creparci. Ci manca. Pur con tutti i suoi problemi. Un genitore imperfetto resta pur sempre un genitore. Ci si può arrabbiare davanti alle sue imperfezioni, ma non si cesserà mai
di amarlo.
O di sentire un pugnale nel petto ogni volta in cui lo si saluta e gli si dice: ci vedremo tra sei mesi. Od otto. O un anno. A seconda dei voli che si riescono a trovare. L’evoluta Manchester, infatti, ha collegamenti con l’Italia che fanno venire un attacco intestinale. Chi ci vive sa di cosa parlo.
Mentre si aspetta che annuncino il gate al quale partirà questo o quel volo si è tutti lì, seduti su poltrone diverse nella stessa sala d’attesa, con pensieri diversi e mete diverse nella mente, gran parte di noi diretti in qualche posto lontano da casa. E alla fine ti rendi conto che la sala d’attesa di un aeroporto non è che una metafora della nostra vita. Abbiamo i mezzi per spostarci, siamo noi a dover scegliere dove andare. O se restare.
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