Quello che segue è il testo della relazione di Daniele Scalea al convegno “1965-2015: Cinquant’anni di Québec in Italia“, tenutosi lo scorso 11 dicembre presso la Sala dela Mercede di Palazzo Marini, Camera dei deputati, a Roma.
Taluni potrebbero accostarsi al Québec con un senso di sufficienza. L’Italia ha tremila anni di storia, il Québec cinquecento. L’Italia è uno Stato, il Québec una provincia di un altro Stato. L’Italia ha 60 milioni di abitanti, il Québec 8. Immagino che quasi tutti i cittadini quebecchesi sappiano dove si trova l’Italia, mentre molti italiani sarebbero incapaci di collocare il Québec su una carta. Si potrebbe essere insomma indotti a guardare e discutere di Québec in tono minore.
La mia proposta, quest’oggi, è invece di guardare al Québec come modello. Quella quebecchese è una vicenda affascinante che può fornire ispirazioni pratiche e ideali anche a noi. È la storia di un popolo che ha lottato da sempre con difficoltà di ogni genere, riscuotendo importanti successi.
Innanzi tutto, i Quebecchesi hanno dovuto affrontare la sfida della natura. Il Québec è un territorio immenso: se fosse uno Stato indipendente, sarebbe tra i primi 20 al mondo per superficie (cinque volte quella italiana). Tuttavia, buona parte del suo territorio è al limite della vivibilità perché occupato da tundra e taiga di clima artico o subartico: la popolazione si concentra in una porzione ristretta, lungo la Valle del San Lorenzo. Anche qui gli inverni sono molto rigidi e nevosi, con temperatura media di -10 gradi. È in questo clima difficile che i coloni quebecchesi hanno dovuto impiantarsi, moltiplicarsi e prosperare. Oggi la crescita demografica del Québec è più che doppia rispetto a quella dell’Italia e l’ambizioso Plan Nord si propone di sviluppare anche la porzione più aspra della regione.
I primi coloni francesi che si stanziarono all’imboccatura del San Lorenzo (scoperta anche grazie a un navigatore italiano, Verrazzano), erano poche centinaia in un continente inesplorato e popolato da genti sconosciute. La vera minaccia non erano però quest’ultime, bensì i molto più familiari inglesi che stavano colonizzando la costa atlantica più a sud. Regioni quelle dal clima più felice e dalla natura più favorevole, in cui – grazie anche alla maggiore spinta demografica dalle isole britanniche – la popolazione anglo-americana cominciò a decuplicare con impressionante rapidità. Una rapidità impossibile da emulare per i Quebecchesi. Nel corso di un secolo scarso, tra il 1688 e il 1763, coloni francesi e coloni inglesi combatterono, parallelamente alle madrepatrie, quattro lunghe guerre in Nordamerica. Quando scoppiò l’ultimo conflitto, nel 1756, i coloni francesi erano 60.000. Quelli inglesi 2 milioni. Un rapporto di 1:33, cui andavano ad aggiungersi il superiore appoggio navale della madrepatria agli Inglesi e il supporto militare offertogli dagli Irochesi. Ciò malgrado, i coloni francesi seppero resistere tenacemente per ben 7 anni. Il merito fu anche delle numerosissime nazioni indiane che li appoggiarono, perché considerati ospiti ben più graditi degli aggressivi coloni inglesi. A differenza di quest’ultimi, i coloni francesi non avevano disdegnato rapporti positivi con gl’indiani, dai matrimoni misti al proselitismo religioso. Un’intera confederazione di popoli, i Wabanaki, era stata convertita al cristianesimo cattolico.
La convivenza coi coloni inglesi, fieramente anti-cattolici, durò per loro fortuna poco. Ma anche nel Canada separato, i francofoni dovevano confrontarsi con un potere e una crescente popolazione stranieri. Nel giro di alcuni decenni, i francofoni si trovarono a essere minoranza nel paese. Essi seppero però battersi sia per la tutela della loro specificità, sia per il progresso civile del Canada intero. L’Assemblea del Québec fu la prima a chiedere a Londra un governo responsabile, e in Québec scoppiò la rivolta che convinse la madrepatria a concederlo. La tutela della cultura quebecchese ha invece richiesto numerosi decenni di lotta democratica, culminata nel 2006 nel riconoscimento da parte dell’Assemblea del Canada di una “nazione quebecchese”. È del resto grazie all’autonomia conquistata pacificamente dal Québec se oggi siamo qui a celebrarne i rapporti che autonomamente intrattiene con l’Italia.
Non sorprende che i Quebecchesi abbiano un’attenzione particolare, forse unica al mondo, per tutto ciò che concerne i temi dell’identità e della cultura. Da secoli sono abituati a lottare per difenderle in quella goccia francese nel mare anglosassone e ispanico del Nordamerica. Questa sensibilità sviluppata nel corso della storia fa sì che il Québec dedichi sforzi e risorse ingenti nella promozione della cultura, dell’arte, delle lettere e della scienza. In Canada il Québec ha il maggior numero di ricercatori in rapporto agli abitanti complessivi e investe più d’ogni altra provincia nella ricerca. La spesa per l’istruzione in Québec è pari al 7% del Pil (in Italia superiamo a stento il 4%). Se fosse in Europa, il Québec sarebbe tra i leader continentali in questa particolare statistica. Le rette universitarie sono più basse che nel resto del Canada, per non parlare dei vicini Usa, e Montréal è una delle capitali universitarie mondiali, dietro solo a Boston in Nordamerica. I Quebecchesi sono lo 0,1% della popolazione mondiale ma producono l’1% degli articoli scientifici.
La scienza s’intreccia con l’economia. Lo sviluppo del Québec deve moltissimo allo Stato provinciale, non solo per le sagge politiche in materia di ricerca e cultura, ma anche per il ruolo attivo della mano pubblica tramite grandi compagnie come Hydro-Québec. Gli investimenti sono oggi saggiamente concentrati in alcuni comparti strategici per la salute presente e lo sviluppo futuro del Québec: aerospazio, biotecnologia, tecnologia informatica, energia rinnovabile e altro ancora. Oggi il reddito pro capite del Québec supera di 10.000 dollari quello italiano.
Riassumendo, il Québec si mostra come modello da ammirare e imitare in Italia. I Quebecchesi hanno saputo vincere difficoltà poste dalla natura e dalla storia. E oggi prosperano grazie a scelte strategiche spesso diametralmente opposte a quelle prese dall’Italia: noi ritiriamo lo Stato dall’economia, il loro la anima; noi disprezziamo cultura, ricerca e istruzione, loro le finanziano generosamente; noi abbassiamo continuamente il livello tecnologico dell’attività produttiva, loro investono nei settori più innovativi.
Mi pare siano tutti ottimi motivi per interpretare questo Quaderno di Geopolitica e il convegno odierno non come mere e sterili celebrazioni, ma come atto di un fecondo scambio tra Québec e Italia.