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“Valperga”– Mary Shelley XI

Creato il 13 dicembre 2011 da Marvigar4

montecatini alto

Mary Shelley (1797-1851)

VALPERGA

o

La vita e le avventure di Castruccio, Principe di Lucca

Traduzione integrale di Marco Vignolo Gargini dall’originale in inglese Valperga; or the Life and Adventures of Castruccio, Prince of Lucca

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Capitolo 11

Presa di Montecatini. Castruccio fatto prigioniero a tradimento da Ranieri, Governatore di Lucca. Rilasciato e proclamato console.

   L’inverno trascorse e con l’estate ebbe inizio il duro lavoro del soldato. Castruccio lasciò Lucca e si unì all’esercito di Uguccione contro i fiorentini. Prese congedo dalla sua donna, che comunque non lo legò a sé, né gli augurò il successo. Firenze era la città natale d’Eutanasia e l’amore per il proprio paese era una caratteristica di tutti i fiorentini. In quella città c’era un’energia di spirito che s’affannava ad espandersi alla ricerca di nuove emozioni o esaltando quelle precedenti, finché ogni sentimento non fosse diventato una passione. I fiorentini erano patrioti, nessuno di loro non avrebbe sacrificato il benessere, la vita e la felicità per il bene della sua città. Eutanasia si trovò in mezzo alle discussioni pubbliche e all’espressione del sentire comune, l’esercito fiorentino contava nelle sue fila i suoi migliori amici, i compagni di gioventù, tutti gli uomini che lei aveva stimato e a cui voleva bene. Come avrebbe potuto allora augurare il successo al suo amato quando lui stava per annientarli? Sarebbe stata ancora più infelice se avesse potuto prevedere l’esito della guerra.

   Uguccione prese parte all’assedio del castello di Montecatini e i fiorentini, dopo aver fatto ogni sforzo per unire e disciplinare le proprie truppe, avanzarono contro di lui con un esercito di proporzioni mai viste prima. Ma i preparativi di Uguccione non erano da meno in quanto a forza: riunì tutti i suoi alleati e attese con fiducia l’arrivo del nemico. Tuttavia in quest’intervallo il capitano s’ammalò e fu obbligato a ritirarsi: il comando formale dell’esercito passò al figlio maggiore Francesco, però tutti consideravano Castruccio come il vero capo. I fiorentini avanzavano pieni di speranza e il lucchese li attendeva con saldezza. La battaglia fu lunga e cruenta. All’inizio Francesco fu ucciso e Castruccio capì che i soldati si sarebbero arresi a veder morire il loro comandante: in un attimo, sentendo che il comando dipendeva da lui, si mise davanti alle linee, togliendosi il casco che l’avrebbe fatto riconoscere e, ordinando alle trombe di squillare, portò le sue truppe a rinnovare l’assalto. La sua armata si dispose sul pianoro e tutti gli occhi erano rivolti al castello che, posto in cima ad un ripido colle, era l’obbiettivo che dovevano raggiungere. Castruccio aveva visto come si combatteva in Francia, ma adesso prese parte alla battaglia con spirito diverso. Era attorniato dai suoi amici, li vide avanzare con sguardo fisso al pericolo contro cui li aveva condotti; guardò in alto e osservò il castello che doveva conquistare, osservò anche i ranghi compatti del nemico. Con una sola occhiata scrutò tutto, una sensibilità più rapida di uno sguardo, e le trombe squillarono mentre lui sguainava la spada. Era esaltato, il suo cuore gonfio, lacrime e lacrime d’emozione forte e incontrollabile gli riempirono gli occhi non appena irruppe tra le file nemiche al grido di ‘Vittoria o morte!’. Nessuno osava disobbedire alla sua voce. I suoi capelli castani, su cui il sole splendeva, lo avrebbero fatto distinguere in un nugolo di giavellotti ostili. Fu ferito ma si rifiutò di mollare e fissando le mura del castello gridò: ‘Ecco la nostra casa!.’ Tutti cedettero dinanzi alla sua furia, quella parte dell’esercito fiorentino disposto sul pianoro si disperse e batté in ritirata, il resto ripiegò sul castello. Quando Castruccio se n’accorse e comprese per primo che gli stavano cedendo il terreno, il suo trionfo e l’estasi divennero quasi frenesia. Il colle era ripido, lui smontò da cavallo e la sua truppa seguì il suo esempio. Chiamò tutti con il nome del padre e del fratello perché seguissero i suoi passi. ‘Avanti!’ urlarono, ‘Avanti!’. Eliminarono tutti gli ostacoli posti per impedire la loro ascesa e si videro compatti serrare il sentiero ripido che portava al castello.

   La vittoria fu solo merito di Castruccio. Lui, primo fra tutti, scalò la cima e sventolò l’insegna ghibellina dalle mura del castello di Montecatini, anche se, con le gote pallide per il dolore e gli arti deboli per la perdita di sangue, sembrò quasi che la sua morte avesse sigillato la conquista macchiata di sangue. I fiorentini subirono perdite irreparabili, il loro comandante, il figlio del re di Napoli, parecchi suoi parenti e molti membri delle famiglie più nobili di Firenze, perirono. La sconfitta è paragonata dagli storici fiorentini alla disfatta di Canne, e passarono molti anni prima che Firenze potesse colmare il vuoto tra i suoi cittadini provocato dallo sconvolgimento di quel giorno.

   Queste furono le notizie che impallidirono le guance della povera Eutanasia. Aveva trascorso il periodo dalla partenza di Castruccio in totale solitudine. La sua ansia e il conflitto sentimentale che provava distrusse tutta la sua pace: non osava rivolgere le preghiere all’altra parte, o se osava, seguendo le sue normali inclinazioni, sperava in un successo dei suoi concittadini e l’idea di Castruccio sconfitto, forse ucciso, avvolgeva tutti i suoi pensieri in un doppio sconforto. Eppure, quando i fiorentini furono di fatto battuti, quando messaggero dopo messaggero fu portata la notizia dei suoi amici sconvolti dalle perdite subite, quando il nome di Castruccio, l’assassino, fu ripetuto con rabbia e imprecazione da coloro che lei amava teneramente, allora sì che il corso dei suoi sentimenti rientrò con violenza nei suoi solchi consueti e, rimproverandosi con amarezza per aver osato esitare in una causa dove il suo paese era coinvolto, si inginocchiò e in modo solenne e deciso fece un voto, santificandolo con un richiamo a tutto ciò che per lei era sacro in cielo e in terra. Fece un voto alto e terribile di non allearsi mai con il nemico di Firenze: e allora, placatasi un po’, pur sempre soffrendo, aspettò il ritorno di Castruccio a Lucca per capire se lui fosse in grado di spiegarsi, o se fosse davvero il nemico di Firenze contro il quale aveva fatto voto.

   Se il rovescio e il massacro dei fiorentini l’avevano scossa profondamente, il suo orrore fu attenuato dall’affetto, quando sentì che Castruccio era stato portato via ferito a Lucca. La gloria di questa vittoria fu attribuita solo a lui e questa gloria, che per Eutanasia rappresentava una vergogna, scatenò in lei sensi di confusione e dolore. Adesso per la prima volta sentì dentro di sé il conflitto della volontà con il dovere. Per la prima volta ebbe paura di non dover più amare Castruccio e pensò di ritirarsi a Firenze, di scacciarlo via dalla sua vista e, se possibile, dai pensieri. Ma, mentre meditava questo, le parve di sentire i dolci toni della sua voce melodiosa risuonare nelle sue orecchie, e cadde nel dolore e nelle lacrime.

   Questo conflitto doloroso non cessò finché lei non lo vide di nuovo e allora, come prima, ogni sofferenza e ogni dubbio svanirono. Castruccio era pallido per i postumi della sua ferita e la sua persona aveva sì perso la sua abituale aria di decisione, però era più interessante e gli occhi brillavano e irradiavano un amore indescrivibile su di lei. Lui apparve veramente un eroe per l’autorità dipinta sulla sua fronte e la vittoria sembrava aver sposato i sorrisi delle sue labbra. «Trionfo, mia cara ragazza», lui disse, «tutti i miei allori sono i benefici che ho per te. No, non rifiutarli, non disprezzarli, sono le garanzie della pace che tu desideri. Non dubitare di me, non permettere nemmeno per un momento che una nube di sospetto oscuri il tuo volto pieno di vita. Questa spada mi ha reso padrone della pace e della guerra, e c’è bisogno che dica che la mia saggia e gentile Eutanasia dirigerà i miei consigli, essendo il suo amore e il suo onore lo scopo della mia vita?»

   Queste parole, così com’erano, non potevano presentarsi come un perdono e una conciliazione?

   La ferita di Castruccio era leggera e guarì presto. Ma adesso lui era più che mai immerso nei suoi progetti politici: gettando la maschera, si rivelò come capo del partito avverso ad Uguccione; il suo palazzo era sempre aperto e affollato d’amici e seguaci e, quando cavalcava per le strade, veniva accompagnato da un gruppo dei più importanti nobili di Lucca. Agli altri talenti Castruccio aggiunse una vena di scherno e un’ironia amara che, quando sceglieva di esercitarla, pareva entrare nell’intimo del suo scopo e inaridirlo. Le sue canzonature della famiglia Faggiuola furono prese a modello a Lucca, e la persona contro cui erano particolarmente dirette, il governatore che Uguccione aveva nominato, era un uomo che sentiva in ogni nervo il tormento della derisione.

   Essendo stato ucciso Francesco nella battaglia di Montecatini, Uguccione mise suo figlio Ranieri a capo dei lucchesi. Ranieri aveva soltanto ventidue anni, eppure i suoi lisci capelli neri ricadevano su una fronte prematuramente rugosa. Privo del coraggio del padre, di lui possedeva tutta l’astuzia e l’ambizione, ma una crudeltà maggiore e una disonestà ancora più grande. A lungo era stato pretendente della mano della contessa di Valperga, senza speranza se non quella che la sua vanità gli ispirava: eppure, quando intuì che Castruccio era il suo rivale preferito, si sentì derubato della sua eredità e la bellezza, le doti e la gloria del suo avversario gli fecero bere fino alla feccia il calice dell’invidia. La consapevolezza del potere per un po’ frenò da sola la visione dei suoi sentimenti. Si consolava con l’idea che la vita di Castruccio era nelle sue mani, nonostante un dubbio persistente gli impedisse di far vedere la sua forza; fulminava con gli occhi il suo nemico, come una tigre che si accuccia avvicinandosi alla preda, ma non osava balzargli addosso. Si sarebbe volentieri sbarazzato del suo rivale uccidendolo personalmente, ma Castruccio era troppo cauto e non si esponeva mai oltremisura per offrire un’opportunità del genere. La rivalità in amore non era comunque una piccola parte del motivo dell’odio che riempiva Ranieri. D’altronde Castruccio non dissimulava più il suo raccapriccio per la crudeltà d’Uguccione, o il suo disprezzo per la politica scaltra e codarda del figlio, e anche un uomo assai meno astuto di Ranieri avrebbe potuto capire che si stava lavorando giorno e notte per scalzare la famiglia Faggiuola.

   Un tafferuglio accidentale portò questi sentimenti ad agire. Sarebbe inutile cercare di scoprire la causa di un contrasto, nel periodo in cui gli scontri civili erano così comuni, non solo tra gli italiani, specie quando i capitali dei monarchi francesi e inglesi erano spesso macchiati di sangue per i casi più triviali. Questa lite sorse tra i sottoposti di Ranieri e quelli del conte Fondi. Castruccio e i suoi compagni vi si unirono e tutto finì con la sconfitta e la fuga degli uomini di Faggiuola, uno dei quali fu ucciso. Ranieri colse l’occasione per mandare a suo padre con la più grande enfasi un resoconto della condotta arrogante e delle macchinazioni di Castruccio. La verità era stata sufficiente per destare i sospetti di un uomo la cui regola era quella di non permettere mai ad un nemico di vivere, ma il tono che Ranieri dette all’affare fece sì che questo emergesse come se una guerra aperta fosse stata dichiarata tra le fazioni a Lucca. Uguccione proprio quell’inverno aveva lavato le sue mani con il sangue nobile di Pisa, e considerava una vita in più come un piccolo sacrificio per il perfezionamento della sua sicurezza. Il suo consiglio fu quindi di agire con cautela ma rapidamente, in modo che il prossimo messaggero potesse portare la notizia della morte del suo avversario.

   Queste direttive riempirono Ranieri di una gioia insolita, appianarono le rughe della fronte e accesero i suoi occhi di ferocia: avrebbe volentieri fatto avanzare le sue truppe e catturato Castruccio in mezzo ai suoi sostenitori, ma la sua indole disonesta gli suggerì un modo più nascosto e, come immaginò, più sicuro di procedere. I nemici s’incrociarono in chiesa, disposti sui lati opposti della navata. I seguaci di Castruccio guardavano gli avversari con un sorriso incurante di disprezzo, cui rispondeva uno sguardo astioso, mentre Ranieri mostrava un’alternanza d’allegria e inquietudine, cosa che la sua arte non poteva nascondere del tutto. Sul finire della messa solenne Castruccio stava per ritirarsi e fu allora che Ranieri, lasciando i suoi attendenti, attraversò la navata. Nel vedere il suo movimento, i seguaci dell’Antelminelli si affollarono su di lui, ma Ranieri ordinò loro di indietreggiare e, con passo sprezzante e un sorriso di superiorità consapevole, anche lui avanzò verso il suo nemico. Si incontrarono a mezza strada e le due fazioni, con le mani sulle spade, osservavano ogni mossa dei loro capi durante questo inatteso incontro. Il carattere di Ranieri non colpiva tutti per la sua astuzia e l’aspetto attuale avrebbe potuto fugare i sospetti. Sorrideva, parlava a voce alta, sciatta, e ciò che si nascondeva dietro questa facciata amichevole dava piuttosto un’idea di timidezza che non d’inimicizia. Castruccio fissò i suoi occhi d’aquila rivolti a lui, ma sembrava che la paura fosse l’unico sentimento costante dietro la franchezza che Ranieri voleva assumere: e questa paura non sfuggiva all’osservazione. Ranieri parlò:

   «Messer Castruccio, mi pare che voi non conosciate i miei consigli e decisioni. Credete che mio padre si dimentichi dei vostri servigi per la sua causa, o che non desideri un’occasione per mostrarvi la sua gratitudine? Voci maligne, lo ammetto, corrono a vostro svantaggio e la vostra assenza dal mio palazzo potrebbe in qualche modo avvalorarle. Ma io non sono un uomo sospettoso e mi fido delle azioni dei miei amici che parlano a ragion veduta più facilmente che della diceria dei calunniatori. Se tra noi c’è cattivo sangue, ed io ne sono la causa, vi chiedo apertamente perdono per qualsiasi offesa possa avervi arrecato e domando, a suggello della nostra riconciliazione, che voi vogliate onorare con la vostra presenza un semplice banchetto che stanotte offro alla nobiltà di Lucca.»

   Castruccio fu piuttosto stupito da questo discorso, concluso con l’offerta della mano da parte del suo interlocutore. Castruccio si scostò e rispose: «I miei umili servigi, mio signore, furono offerti al mio paese. Io spero di ricevere gratitudine dal mio paese, da parte di vostro padre non merito né mi aspetto questa ricompensa, fosse anche e forse per tentare di non mischiare elementi incompatibili. Ma, finché voi offrite ospitalità, la accetterò volentieri, poiché, qualunque causa di dissenso possa esistere tra noi, voi siete un cavaliere e un soldato e non temo slealtà.»

   Castruccio s’allontanò e solo la certezza della vendetta riuscì a soffocare l’ira mortale di Ranieri per il trattamento altezzoso e arrogante che aveva ricevuto.

   Prima dell’ora del banchetto, Castruccio si recò al castello di Valperga e riferì l’accaduto a Eutanasia. Lei ascoltò con attenzione, e poi disse: «C’è sotto una trama sicura. Conosco Neri della Faggiuola: lui è allo stesso tempo codardo, furbo e crudele. Sta’ in guardia. T’inviterei a non andare al banchetto, ma se ci vai con i tuoi seguaci non vedo in quale pericolo puoi incorrere. Però non dubitare che questo, o qualsiasi altra apertura amichevole successiva, sia solo un tranello in cui si aspetta che tu possa cadere.»

   «Non temere, mia cara. Io sono leale con i miei amici, ma sono stato un soldato di ventura e con una scuola del genere credo d’aver imparato a riconoscere inganni più gravi e politici più astuti di Ranieri. Che stia attento lui. Questa luna, che ha appena piegato il suo arco tra le nubi del tramonto, non durerà due settimane, quando tu potrai vedere questo cospiratore andarsene da solo a Pisa, felice di scampare alla vendetta che merita fino in fondo.»

   Castruccio partecipò al festino di Ranieri, accompagnato dal conte Fondi e da Arrigo Guinigi. Si aspettava di trovare il resto dei suoi amici e sostenitori riuniti là, dal momento che tutti avevano ricevuto l’invito. Ma Ranieri aveva agito con la massima prudenza e, pochissimo tempo prima dell’ora fissata per il banchetto, aveva inviato dei messaggi agli amici di Castruccio e con vari pretesti li aveva, all’insaputa l’uno dell’altro, impegnati in diverse mansioni che lui faceva credere della massima urgenza. Quando poi Castruccio entrò nella sala del banchetto, trovò soltanto gli ufficiali della truppa tedesca congiunti alla fazione dei Faggiuola, qualche anziano che si era ritirato dalla politica e poche famiglie guelfe che Ranieri riteneva restassero neutre in quest’occasione. Castruccio osservò e capì che la cosa non andava per il verso giusto, eppure nemmeno per un momento l’espressione del suo volto cambiò, o il suo limpido contegno tradì alcun segno di sospetto. Allora non era costume, come nelle più barbare società di Francia e Inghilterra, partecipare ad un incontro pacifico armati come se si dovesse combattere a morte, e Castruccio era disarmato, a parte un piccolo pugnale nascosto per cautela.

   Il pasto fu sontuoso, le portate si sprecavano e le carni più delicate e tenere e i vini più pregiati invitavano gli ospiti a prolungare il loro piacere. Castruccio era, per abitudine e principio, astemio e la quiete del banchetto fu all’inizio interrotta da una battuta sarcastica di Ranieri, che indicava la quantità d’acqua che il suo ospite mischiava al vino. Castruccio replicò e la sua ironia fu più ficcante sulla nomea di vigliaccheria e lussuria che il suo nemico aveva. Ranieri impallidì e, riempiendo la sua coppa di vino puro, la porse a Castruccio dicendo; «No, Messere, prima che voi partiate, non disonorate la mia promessa, ma bevete questa coppa di generoso vino di Cipro per la fine dei nemici dei Faggiuola.»

   Queste parole furono il segnale convenuto con i suoi soldati, che subito irruppero circondando gli altri ospiti e, gettandosi su Castruccio, tentarono di catturarlo. Per due volte li respinse e riuscì quasi a estrarre il suo stiletto, ma fu sopraffatto e ammanettato con pesanti catene. Pur essendo così impotente, il suo sguardo d’aquila sembrò smontare Ranieri che, incapace di dar voce all’ironia con cui aveva voluto fiaccare la sua vittima, diede ordine che fosse condotto in carcere.

   Ranieri allora si rivolse agli ospiti dicendo loro che l’atteggiamento ribelle di Castruccio la settimana precedente, e l’uccisione di uno dei suoi servi, erano i giusti motivi per la sua carcerazione. E li assicurò di non temere alcun pericolo per le loro persone, a meno che non avessero imprudentemente provato a turbare il corso previsto della giustizia. Arrigo, con tutto l’ardore della gioventù, avrebbe espresso le più vivaci proteste, ma il conte Fondi, facendogli segno di star zitto e degnandosi solo di rivolgere a Ranieri un sorriso di disprezzo, si allontanò con il giovane dalla tavola profanata. Ranieri invitò gli ospiti a continuare il festino, ma invano: erano silenziosi e confusi; uno ad uno gli italiani si allontanarono e Ranieri rimase solo con i suoi ufficiali, che erano soprattutto tedeschi, e il resto della sera trascorse all’insegna di bevute sfrenate, che gli italiani guardavano con stupore e disprezzo. Ranieri non voleva affogare la voce della sua coscienza, perché era la sua schiava e non il suo censore, però lo spirito vigliacco venne meno quando rifletté sulla sua situazione critica e sul numero e la risolutezza degli amici di Castruccio: il vino gli inspirò l’audacia, e una notte tormentata seguì e coronò un giorno sprecato.

   Non c’erano sentimenti più in contrasto tra loro di quelli con cui il carceriere e il prigioniero salutarono il mattino del giorno seguente. Castruccio aveva dormito profondamente sul pavimento della sua segreta e, pur con le membra inchiodate dalle catene, il suo spirito era leggero e tranquillo. Confidava nei suoi amici e nell’intima convinzione che aveva: la sua stella non sarebbe caduta prima di quella del codardo e traditore Ranieri. Guardando le nuvole che passavano rapide sul sole appena sorto spinte da un vento irresistibile, recitò un canto di vittoria di un trovatore.

   Ranieri si svegliò con quei sintomi di depressione apatica che seguivano la sbornia; l’idea che Castruccio fosse suo prigioniero lo spaventò e ora, pentendosi d’aver preso una misura così drastica, mandò in avanscoperta il suo attendente preferito, gli ordinò di andare, perlustrare la città e cercare di scoprire le opinioni e l’umore dei cittadini. Durante l’assenza dell’attendente più volte fu sul punto di inviare un ordine di uccidere immediatamente il suo prigioniero, ma gli mancò il coraggio: comprese che poteva essere disobbedito e che il mandato di morte poteva essere il segnale per la liberazione di Castruccio. Così attese, incerto ma impaziente, che fossero le circostanze stesse a decidere il corso da seguire.

   Il rapporto del suo messaggero fu appena misurato per attenuare le sue apprensioni. Gruppi di cittadini per le strade e nella piazza del mercato, con sguardo serio e foga rabbiosa, parlavano degli avvenimenti della sera precedente. Qualche amico di Castruccio capeggiava i gruppi e incitava la gente ad agire e, ridicolizzando la viltà e biasimando il tradimento e la crudeltà di Ranieri, destavano in ogni cuore l’affetto e il rispetto per Castruccio e per le lodi meritate sul suo conto. La parola libertà parve infilarsi tra loro e agitare ogni animo, mentre sui sensi di Ranieri fu come un flagello: non osò agire, ma mandò un messaggero a suo padre a Pisa, che riferisse quello che aveva fatto, chiedendo il suo aiuto per terminare la sua vendetta.

   Poche settimane prima Uguccione aveva condannato a morte Bonconti e suo figlio, due nobili pisani molto amati e stimati in città. In precedenza Bonconti aveva commesso a Pisa evidenti ingiustizie e omicidi conformi alla legge e la gente li accettò: ma Bonconti era un uomo di buon senso e coraggio, i pisani lo avevano considerato come lo strumento della loro liberazione dal tiranno. Con la sua morte questo compito parve passare nelle loro mani, e gli sguardi sdegnati e il malcontento mormorato mostrarono chiaramente che i pisani erano sul punto di farsi giustizia da soli. Uguccione sedeva instabile sul suo seggio di potere e questa precarietà, come spesso accade nelle menti non domate dall’umanità, generò in lui un coraggio affrettato e un’imprudenza feroce, che lo spinse a non arrendersi di fronte a nessun ostacolo. Era come un cervo con i cani alle costole, i pisani gli stavano alle calcagna cercando un punto debole su cui avviare il loro attacco.

   In quel momento arrivò il messaggero di Ranieri, riferendo la cattura di Castruccio e i timori del governatore. «Pazzo!» urlò Uguccione, «non sa che le membra non camminano senza la testa?»

   Così, senza pensarci due volte, radunò in fretta la sua truppa scelta di circa quattrocento uomini e, lasciando Pisa, si precipitò al galoppo verso Lucca. I pisani non osavano confidare nella loro buona sorte quando videro il nemico e i suoi fedeli abbandonare spontaneamente il loro posto e consegnare una vittoria senza spargimento di sangue nelle loro mani; in precedenza Uguccione aveva raggiunto la cima del Monte San Giuliano, che è, come dice Dante, il “Perchè i Pisan veder Lucca non ponno”[1], il grido di “libertà e morte al tiranno” si levò in città; la folla assaltò la casa di Uguccione; qualche suo familiare cadde, il resto fuggì, e il popolo, adesso piuttosto rabbonito, si riunì per eleggere come loro capo un uomo di intelligenza e valore, che potesse disciplinare le passioni furiose dei pisani offesi.

   Uguccione trovò Lucca in aperta rivolta: entrò in città e a capo della sua truppa tentò di caricare la folla ribelle. Ma invano. Le barricate in mezzo alle strade ostacolavano i cavalli, ed il tiranno fu obbligato a parlamentare con i capi dei rivoltosi. Chiesero di Castruccio. Fu fatto uscire in catene e liberato di fronte a loro, i ceppi a cui era legato sciolti e, montando un cavallo portato da uno dei suoi amici, le manette esibite davanti a lui come trofeo, fu condotto trionfalmente al suo palazzo. La gente quasi si mise a adorarlo mentre passava e l’aria risuonava di acclamazioni a suo favore. Una folla di fedeli, ben armata, fece gruppo intorno a lui, fiera della propria vittoria e del capo che avevano liberato. Le sue catene furono fissate alla torre del suo palazzo, a ricordo di questo improvviso cambio di fortuna. Uguccione fuggì. Non aspettò d’essere cacciato dal popolo inferocito. Le notizie della rivolta di Pisa lo raggiunsero e fu colto dal panico. Era accompagnato da Ranieri e, lasciando Lucca dalla porta del lato nord, attraversò in tutta fretta le montagne per andare in Lombardia. In un giorno persero il grado di capi potenti per diventare soldati di ventura al soldo del primo principe che poteva richiedere i loro servigi.

   Castruccio e i suoi fedeli si riunirono a palazzo per deliberare sul tipo di governo da scegliere. Il popolo si riunì attorno all’edificio e chiedeva di vedere il loro amato capo. Castruccio si mostrò al balcone e con un grido fu salutato Signore di Lucca e comandante della guerra contro i fiorentini: gli amici si unirono all’acclamazione, ma Castruccio, che non aveva mai permesso che un entusiasmo momentaneo cancellasse il disegno che aveva tracciato per sé, fece un cenno per ottenere silenzio e fu obbedito. Allora si rivolse alla gente, ringraziandola per l’affetto e i favori mostrati, dichiarò di non poter sostenere da solo il governo della sua città e, dopo molte umili osservazioni, richiese di poter avere un compagno ad aiutarlo in questo compito gravoso. Il popolo acconsentì ai suoi desideri e il Cavaliere Pagano Quartezzano fu chiamato a condividere la carica e il potere con il titolo di console.



[1] Dante, Inferno, Canto XXXIII, in italiano nel testo.



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