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“Valperga”– Mary Shelley XIX

Creato il 21 gennaio 2012 da Marvigar4

duomo cremona

Mary Shelley (1797-1851)

VALPERGA

o

La vita e le avventure di Castruccio, Principe di Lucca

Traduzione integrale di Marco Vignolo Gargini dall’originale in inglese Valperga; or the Life and Adventures of Castruccio, Prince of Lucca

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Capitolo 19

Visita a Pepi a Cremona.

Era la sera del dieci settembre quando Castruccio arrivò al ponte indicato da Pepi. Non c’era nessuno, a parte una donna anziana intenta a filare con una rocca che dall’età e le rughe avrebbe potuto fare da modello delle eterne Parche, perché la sua pelle dura, scura e secca non sembrava fatta della stessa fragile materia della guancia di giglio di una dama raffinata. Guardò intensamente Castruccio, tanto che lui ridendo le chiese se poteva leggergli il futuro.

«Sì», rispose la megera, «Anche se non sono una strega, non ho difficoltà a dirti cosa stai per trovare. Dì la parola che devi ripetere qui ed io ti porterò dove vuoi andare.»

«Lucca.»

«Basta. Seguimi. L’uomo che tu sai sarà felice di vederti da solo.»

Lo condusse fuori dalla strada maestra, per innumerevoli viottoli dove il suo cavallo a malapena poteva essere domato tra i cespugli intricati delle siepi. La donna arrancava, sempre filando e strillando poche note di una canzone, ripetendole in continuazione con una specie d’urlo monotono, forte quanto dissonante. Alla fine arrivarono in uno squallido sobborgo di Cremona e, attraversando dei vicoli sporchi e strade buie, giunsero in un luogo delimitato da un lato dal muro alto, nero, in pietra di un palazzo. La vecchia bussò su questo muro ad una porticina bassa, irrobustita da serrature di ferro e che, aperta con cautela, appariva non meno spessa del muro dello stesso palazzo. Era la mano secca ma vigorosa di Pepi che girava la chiave massiccia e spingeva i catenacci di tre porte successive che sorvegliavano questo ingresso. Dopo aver ammesso Castruccio (la vecchia era rimasta fuori con il cavallo per portarlo all’entrata frontale del palazzo), chiuse le porte con cura e poi, essendo piuttosto buio dentro il passaggio, scoprì una piccola lampada e fece strada per la galleria, salendo una scala stretta che portava ad una porta segreta del grande e tetro salone del palazzo. Questa vasta stanza era poco illuminata, anche se in fondo una torcia appesa al muro brillava con una fiamma nera e fumosa.

«Benvenuto di nuovo, nobile Castruccio, al mio palazzo», disse Pepi: «Ho aspettato con ansia il vostro arrivo, perché tutte le mie speranze ora sembrano dipendere da voi. Adesso, vedendovi bagnato e infreddolito, venite nell’altra sala, dove c’è fuoco e cibo. Perdonate, vi prego, il mio semplice vitto, ma è con il risparmio e la privazione che sono diventato ciò che sono.»

I modi di Pepi erano insolitamente enfatici, trionfanti e Castruccio si chiese quale nuova scena intendesse recitare un essere che lui considerava per metà un buffone e per metà un pazzo. Un gran fuoco scoppiettava in mezzo alla seconda sala e sopra di esso una pentola conteneva la cena di casa. Pepi prese il mantello di Castruccio e lo mise con cura sullo schienale della sedia, spinse una panchetta vicino al fuoco, e i due amici (se si possono definire così) sedettero. Non c’erano torce né lampade nella stanza, ma la fiamma della legna che bruciava gettava un gran bagliore sul volto di Benedetto, che Castruccio osservò con curiosità. Le sopracciglia alte, gli occhi affilati lanciavano quasi scintille, la bocca rivolta in giù e serrata con una espressione mista di astuzia e orgoglio. Gettò un altro ciocco sul fuoco e iniziò a parlare:

«Mio signore Castruccio, credo sia bene cominciare subito ad affrontare i nostri affari poiché, una volta d’accordo sui termini, non bisogna perdere tempo nelle operazioni. La mia proposta lo scorso maggio era, come ricorderete, di restituire questa città ai ghibellini, e questo è in mio potere. Cane, il signore di Verona, per quanto ne so, sta per giungere con un esercito ad assediarla e rimane con me comunque. Se non aderisce alle mie condizioni fallirà, potendo ben dire che le chiavi di questa città restano a me. È vero che quando vi parlai a maggio non sapevo che Cangrande avrebbe attaccato la città, e in quel caso non avrei avuto bisogno di alcun aiuto da voi se non il vostro semplice intervento: ma negli affari importanti il compito di un mediatore non è poco e io spero che non rifiuterete di svolgere un ruolo amichevole nei miei riguardi.»

Pepi si fermò dando un’occhiata inquisitoria e Castruccio, assicurandolo delle sue intenzioni benevole, lo invitò a continuare nella spiegazione e a definire quelle che lui chiamava condizioni. Benedetto proseguì: «Le mie condizioni sono queste e possono essere realizzate davvero facilmente. Naturalmente Cane si augura soltanto di togliere la città dalle mani dei guelfi e consegnarla in amministrazione a qualche ghibellino di fiducia. Quindi, che mi faccia signore di Cremona ed io mi adopererò in primo luogo per consegnargli la città e poi per ricevere l’investitura, aiutandolo con uomini durante la guerra e pagando un tributo a pace avvenuta. Se è d’accordo con me, conduca da solo le sue truppe davanti alla porta della città e la conquisterà senza spargere nemmeno una goccia di sangue.»

Castruccio ascoltò con incontenibile stupore. Guardava la faccia grinzosa e quasi umana dell’uomo, la sua andatura e le maniere rozze, e a stento poté trattenere il disprezzo. Ricordava la mancanza di ogni principio di Pepi, la sua crudeltà vanagloriosa, e il disgusto vinse ogni sentimento. Però, considerando anche di dover capire tutti i propositi dell’uomo, dopo un momento di pausa replicò: «E dove sono le chiavi della città che voi dite di possedere?»

«Volete vederle?» gridò Pepi, alzandosi con una smorfia di trionfo, «Seguitemi e le vedrete.»

Chiamò la vecchia serva e, prendendo la lampada dalle sue mani, le ordinò di preparare la cena. Con passi veloci condusse Castruccio fuori dalla sala: dal cortile si portarono nella seconda sala e Pepi aprì la porta della scala segreta. Dopo averla chiusa bene, ne aprì un’altra, che Castruccio non aveva notato prima, e che era proprio del tutto nascosta nell’intonaco sudicio del muro. «Nemmeno lei», disse Pepi puntando il dito verso la sala, «nemmeno la mia vecchia strega conosce questa apertura.»

Dopo aver chiusa la porta, Pepi si diresse attraverso una galleria scura verso un’altra rampa stretta di scale, che sembrava portare alle volte sottostanti il castello. Castruccio si fermò prima d’iniziare a scendere, così tanto impensierito dalla malvagità del suo compagno, ma, ricordando che erano solo in due e lui era giovane e forte, il suo compagno invece vecchio e debole, e che era armato di spada, mentre Pepi non aveva nemmeno un coltello. Seguì la sua guida giù per le scale. Le rampe si susseguivano, a tal punto che pensò non finissero mai. Alla fine arrivarono ad un’altra lunga galleria, senza finestre e umida, che dall’aria viziata suggeriva che stava sotto la superficie del terreno, e poi in varie orribili e muffose volte in una delle quali c’erano due grandi casse.

«Là», esclamò Pepi, «ci sono le chiavi della città. »

«Dove?» chiese Castruccio con impazienza, «Io non le vedo.»

Pepi si rivolse a lui con un ghigno di gioia e, prendendo due chiavi da una tasca interna, s’inginocchiò, esercitò la sua forza girandole nelle loro serrature e scoperchiando le casse, la prima e poi la seconda: erano piene di pergamene.

«Non capisco questa pagliacciata. Come possono queste pergamene stantie essere le chiavi della città?»

Pepi si sfregò le mani con aria trionfante, quasi saltava dalla gioia, incapace di star fermo, camminando su e giù per la volta, gridando: «Non sono stantie! Sono pergamene attuali! Sono firmate, sigillate… leggetele! leggetele!»

Castruccio ne prese una e vide ch’era un’obbligazione per il firmatario a pagare la somma di ventimila corone in un certo giorno, in cambio di soldi prestati, o a dover pagare la somma di trentamila, garantita dalle terre di un nobile conte di Cremona.

«Sono obbligazioni da usuraio», disse Castruccio buttando per terra la pergamena con rabbia.

«Lo sono», rispose Pepi, prendendola e piegandola con cura, «Non ho forse detto di avere le chiavi della città? Ogni nobile mi deve una parte, molti la migliore, della sua proprietà. Molte obbligazioni sono forfetarie e la penale pende sulla testa del firmatario con un solo filo. C’è il conte Grimaldi, la cui obbligazione scadeva proprio il giorno dopo che il suo castello fu devastato e bruciato, e le sue terre rovinate dai tedeschi. Mi deve più di quanto può pagare, anche se l’ultimo suo acro con la sua patente di nobiltà se n’è andato e lui pure a mendicare con i suoi mocciosi alle porte dei guelfi, suoi amici. C’è il marchese Malvoglio che ha comprato dall’imperatore la vita del suo unico figlio, un traditore di rango, con la somma che gli ho prestato e che non ha mai restituito. Questa cassa è piena d’obbligazioni fatte prima dell’assedio di Cremona, è stata nascosta nella mia torre quando siete venuto da me l’ultima volta, e quest’altra è piena d’altre obbligazioni fatte da allora. Vedete il raccolto che il buon imperatore mi ha portato. Quando i tedeschi lasciarono la città, le mie sale erano stracolme della nobiltà stracciona dei guelfi… “Messer Benedetto, mia moglie non ha un vestito!” “Messer Benedetto, il mio palazzo è in rovina!” “Messer Benedetto, i miei letti sono distrutti, le mie stanze non hanno mobili!” “Oh! Messer Benedetto, senza il vostro aiuto i miei figli creperanno di fame!”

“Sì, amici miei”, dicevo, “Vi aiuterò molto volentieri; qui ci sono obbligazioni da firmare e soldi da spendere!” Perché nel frattempo ho richiesto il pagamento dei debiti da varie altre città e ho riempito due casse d’oro pronte per le fauci spalancate di questi cani. Alcuni leggono le obbligazioni e si lamentano delle condizioni, la maggior parte firma senza leggerle. Nessuna è stata pagata e adesso sono tutti in mio pugno, anima e corpo. Sì, con queste obbligazioni il diavolo stesso può comprarli.»

«E questo è il genere d’attività con cui siete diventato ricco e che avete sostenuto vendendo il vostro patrimonio paterno?»

«Ah! Messer Castruccio», rispose Pepi abbandonando il suo contegno, «non solo ho venduto ogni acro, ma ho fatto la fame e mi sono esposto con i miei cenci da mendicante agli scherni e alle derisioni d’ogni buffone e idiota svezzato da un anno dal latte materno: un cavaliere vestito di pelle di pecora era un argomento irresistibile per la presa in giro. Sono stato paziente e umile, e con il mio portamento sottomesso ho fatto sentire sicuri i miei debitori, finché il giorno del pagamento è passato. Allora sono andato da loro, non ho ricevuto alcun pagamento, ma nuove obbligazioni e poi con rinnovata ipocrisia li ho abbagliati ancora sino a strappare la loro anima via dal corpo… e sono miei. Perché Cane stesso è mio debitore è qui c’è la sua obbligazione per diecimila fiorini d’oro, che brucerò con le mie stesse mani quando grazie a lui diventerò signore di Cremona.»

Castruccio, trattenuto a lungo il disprezzo, ora, indignatissimo, esplose come un tuono: «Tu, ebreo infame », gridò, «non pronunciare più queste parole! Tu, signore di Cremona! Un usuraio, una sanguisuga! Tutto il sudore strizzato dalla tua miserabile carcassa non comprerebbe una goccia della marea dei nobili cuori dei tuoi debitori. E queste pergamene! Credi che gli uomini siano paglie da legare con catene di carta? Non hai armi? Non hai spade? Trema, pazzo farabutto! Sii quello che sei, un sicofante. No, tu non sei umano, ma in queste volte sudice tu ti fai grande, come un rospo vigliacco o un fungo velenoso, e allora, visto che puoi avvelenare gli uomini vorresti dominarli! Tu ora, ignobile figuro, guarda di rimettere a posto i tuoi pensieri presuntuosi, o io ti schiaccerò con i miei calcagni e ti farò mangiare la polvere!»

Pepi sbiancò di rabbia e con un sorriso maligno, stravolto, che le sue labbra tremanti potevano appena incorniciare, disse: «Belle parole, mio signore di Lucca. Rammenta che questo è il mio palazzo, queste volte sono mie e solo io ho la chiave di questi passaggi e ne conosco l’esistenza.»

«Schiavo! Tu minacci?»

Castruccio aveva finito di dire queste parole quando s’accorse che Pepi gli era scivolato dietro: con occhi infuocati si voltò di scatto e trafisse con lo sguardo lo squallido traditore. Quando alzò la sua arma con un gesto appassionato d’indignazione e comando, Pepi impallidì dal terrore. Gli sembrò di sentire già su di sé la vendetta minacciata dal suo giovane nemico; gli occhi aguzzi si spensero, le ginocchia tremarono, le membra si stesero, e il pugnale che aveva estratto cadde dalla sua mano insensibile. Tutto avvenne così silenziosamente che la caduta del pugnale sul pavimento sembrò un tuono che riecheggiava per le volte. Castruccio sorrise con un’impressione troppo nobile per ammettere persino il disprezzo; era solo il sorriso del potere. Avvedendosi subito che Castruccio distoglieva lo sguardo dalla lampada e lo puntava sulle pergamene, e poi di nuovo sulla lampada, Pepi cadde in ginocchio non appena la paura di perdere i suoi preziosi documenti travolse ogni sentimento e cercò, così prostrato, di scorrere davanti al suo avversario e spegnere la lampada; Castruccio agitò la mano per tenerlo lontano e il miserabile traditore scivolò di nuovo indietro, cadendo in terra sfinito da una rabbia e un terrore impotenti.

Castruccio ora parlava con un tono fermo e composto: «Non temere, sono venuto qui come un amico, e anche se tu con me sei venuto meno ai patti, io no: ho promesso di serbare il tuo segreto e lo serberò. Ma ricorda, se in un modo o in un altro tu cercherai di opprimere i tuoi cittadini, farò alzare in volo un tale nido di calabroni da farti implorare come adesso la mia pietà. Ora dammi le chiavi delle tue volte e dei tuoi passaggi, poi alzati e mostrami la strada per uscire da questo luogo infernale.»

Tremante ed atterrito, con le labbra serrate e bianche dalla paura, Pepi si rialzò e a malincuore cedette le chiavi della volta, diede una lunga occhiata al suo tesoro e poi, seguito da Castruccio, che aveva la lampada, lasciò la sua tana con passo esitante e irregolare, perché il terrore recente lo bloccava e anche il timore vigliacco che Castruccio lo pugnalasse alla schiena mentre salivano i gradini. Le porte furono aperte e spalancate, non c’era tempo, come all’andata, per togliere i catenacci e aprire le serrature nel loro ordine. Castruccio non vedeva l’ora d’abbandonare l’aria pestilenziale del posto e di salutare il suo infido e disgustoso ospite. Alla fine arrivarono in cima alle scale e Pepi stava per aprire la porta che portava al salone.

«Giù, villano!» gridò Castruccio, «fammi fare la strada più corta per uscire dalla tua casa del diavolo.»

«Ma il vostro mantello, avete lasciato il vostro mantello nell’ultima sala.»

«È il mio lascito per te, vecchia volpe. Ti servirà per avvolgere le tue membra ebbre e ricordarti delle mie promesse quando scenderai di nuovo nella tua tomba.»

Pepi scese le scale, aprì parecchie porte del palazzo e Castruccio gli tenne dietro, sentendosi rinascere appena respirò l’aria fresca della strada. Il suo nemico, vedendolo dall’altra parte della porta, perduto il terrore e raccogliendo tutta la malizia del cuore nella sua miserabile fisionomia, disse: «Mio signore Castruccio, posso dirvi una parola?»

«No, nemmeno una sillaba: ricordati questa notte, e addio.»

«Non ancora addio senza la mia maledizione, e poi vi sputerò addosso se non avete la velocità di un’aquila.»

Il povero inetto sorrise e pestò i piedi dalla rabbia quando vide il nemico passare con indifferenza e sparire subito. Comunque l’ira non era una passione che poteva occupare a lungo il cuore di Benedetto: ricordò che le sue amate casse erano al sicuro e, pur rabbrividendo per il pericolo appena passato, era soddisfatto del disprezzo provato dal suo avversario, che gli aveva permesso, pur avendolo in pugno, di restare illeso.

Salendo le scale guardò la lampada e con un sorriso orrendo disse: «Tu eri lo strumento che lui intendeva usare e io ti farò calpestare la polvere. Il suo tempo verrà, il sangue del suo cuore e l’agonia della sua anima mi ripagheranno dei miei errori, e così preparerò le mie trappole, che scatteranno quando mi proclamerà signore di Cremona.»

In un viaggio che fece in Lombardia qualche anno dopo, Castruccio chiese informazioni del suo vecchio nemico e, sentendo che era morto, ascoltò con curiosità il racconto degli ultimi istanti di vita di Benedetto. Dieci giorni dopo il loro incontro (nel settembre dell’anno 1317), Cane della Scala s’avvicinò a Cremona per assediarla, ma, dopo qualche settimana passata davanti alle mura della città, le piogge e le devastazioni nel territorio dei suoi alleati, il Modenese, lo costrinsero a ritirarsi. Non si sa se Pepi fosse terrorizzato dall’avvertimento di Castruccio, o temesse un’accoglienza simile alle sue proposte da parte di Cangrande, certo è che all’epoca non si adoperò per entrare in trattativa con lui.

Nel mese di marzo dell’anno seguente Cane ricevette una visita dell’ambizioso usuraio nel suo palazzo a Verona. Pepi s’era fatto più saggio e in quest’incontro condusse la sua trattativa con grande abilità. Per l’occasione portava una veste di seta scarlatta, stivali di pelliccia tartara con i suoi speroni d’oro sopra, il mantello dorato frangiato sulle spalle e sulla testa un cappello a cono all’ultima moda con una banda d’oro sopra, e montava un buon cavallo. Così bardato sembrò, agli occhi del signore e della sua vecchia signora, un cavaliere nobile e consumato da poter nominare con il tocco della spada; né, nel suo dialogo con Cane, egli fece menzione dei mezzi con cui intendeva tradire la sua città, ma vantò soltanto il potere che aveva di far entrare l’esercito del signore di Verona, se fosse apparso davanti alle porte di Cremona, ed essere nominato, come requisito del suo servizio, signore in vassallaggio di Cane, se i suoi cittadini ghibellini lo avessero accettato come capo. Il comandante tornò a Cremona per preparare il suo futuro governo.

La sua grand’abilità consisteva nell’attaccare contemporaneamente tutti i nobili per i loro debiti, e questi erano così numerosi e così insigni da creare tanta confusione in una città che era stata indebolita da guerre continue. I nobili, come aveva predetto Castruccio, pensarono d’avere le armi in loro possesso, d’essere tutti debitori di un solo uomo, e di potersi liberare facilmente con la sua morte d’un fardello pesante sulle loro spalle. Fu allora che Pepi iniziò a mostrare ad ognuno separatamente la sua disponibilità a cancellare le loro obbligazioni se con il loro aiuto fosse stato riconosciuto signore di Cremona. I ghibellini protestarono con forza per il fatto d’essere stati messi insieme ai guelfi, e Pepi confidò d’avere delle speranze d’aiuto da parte di Cane della Scala. I guelfi, adesso molto fiacchi, apparvero più malleabili, dato che lui cercava di convincerli che dipendeva interamente da lui impedire ai ghibellini d’esiliarli, e per questo promise di agire da moderatore tra le parti. Pepi fu ascoltato, molti gli assicurarono il loro appoggio, ognuno disprezzando in cuor suo l’usuraio, ma credendo con la propria singola promessa di non sostenerlo a raggiungere la sovranità, di liberarsi dai pesanti debiti con delle belle parole.

Pepi così era riuscito ad entrare in possesso delle chiavi d’ogni porta della città; ammise le truppe del signore di Verona, ma in fondo scoprì di non avere l’influenza sperata sulle menti dei suoi cittadini. Quando s’alzò il grido di guerra dei ghibellini tutti i guelfi della città, non fidandosi delle promesse o del potere del loro creditore, si radunarono armati e seguì un tumulto, che terminò con la sconfitta del partito popolare e l’ingresso trionfale in città di Cane.

Pepi perì in quel tumulto: non si può stabilire se cadde per caso o per la pugnalata di uno dei suoi debitori. Ma il suo corpo esanime fu ritrovato tra le vittime e l’avversione dei suoi concittadini fu così grande nei suoi confronti che, sebbene Cane e le sue truppe fossero già entrate in città, l’intera popolazione si precipitò furiosa verso il suo palazzo e in poche ore le mura massicce, l’alta torre, e tutte le proprietà vantate da Pepi diventarono, come lui, una ripugnante e inutile rovina. Le volte nascoste e sconosciute restarono inviolate e la ricchezza cartacea dell’usuraio restò sepolta laggiù, per marcire in pace tra la muffa e l’umidità di quei miserabili sotterranei.



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