Dove c'è la strada lunga e asfaltata che conduce a Sesto, col seguito delle fabbriche e delle officine artigiane, alla strettoia di Castello, in una delle casette superstiti, l'una addossata all'altra, e sporche di secoli di polverone, spalleggiate dal verde e dall'argento dei lecci e degli ulivi, dai filari delle viti, dai rondò dei cipressi digradanti verso le colline, e imporrate di fuliggine, incrostate di borraccina, si trova come allora la trattoria di Cesarino. Sette anni fa, cinque, due, fino a ieri, era un'osteria di campagna, con nell'ingresso il banco di pizzicheria, il sale e i tabacchi e i generi coloniali. Differente, ma sul tipo di quella dove conobbi gli sminatori ed alla quale l'ho poi sempre associata. Oggi è diventata di moda.
[...] Il banco è rimasto, fa parte dell'originalità; e perché Cesare Bocchi non l'avrebbe mai mollato: in maniche di camicia e panciotto, il grembiule alla vita, egli ostenta d'ignorare la clientela del ristorante; e le donne di Castello gli fanno un piacere, vuole si creda, se vengono di sera tardi per un etto di prosciutto, un detersivo, un air-fresh, incrociando le signore invisonate.
Fuori c'è l'arco, dove prima c'era solo una lampadina; e la scritta a gesso sui vetri, con l'enne rovesciata di PASTE AL SUGO PRONTE, s'è tramutata in un'insegna al neon dalle lettere rosse e celesti: GIRARROSTO ALLA VOLPE, da Cesarino. Le tovaglie su tutti i tavoli; e su ciascuna la sciccheria d'una candela accesa. L'interno è lo stesso, solamente imbiancato, accentuando il tono rustico che un tempo, semmai, ci si sforzava di attenuare.
( Vasco Pratolini, La costanza della ragione, pag. 59/60 - Mondadori, 1963 )