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Veltroni, il lungo addio

Creato il 15 ottobre 2012 da Albertocapece

Veltroni, il lungo addioAnna Lombroso per il Simplicissimus

Voleva darci due notizie, una buona e una cattiva: quella buona, non si ricandida, quella cattiva, continua a “far politica”. Se per lui far politica significa sedere alla presidenza di qualche aureo sodalizio di potenti, di qualche fondazione per un capitalismo umanitario, di qualche think tank  nutrito di finanziamenti pubblica, beh poco male, non potrà fare peggio di quello che ha già fatto quando era in prima linea. Se rivendica di occupare lo spazio dovuto a un intellettuale, allora qualche problema c’è: vorrebbe trovarsi a fianco di Gramsci o di Foa, ampiamente citato nelle sue interviste, invece bene che vada sarà nella stessa vetrina insieme a Volo. Ma anche in questo caso l’importante è non farsi regalare per Natale da qualche parente serpente, il suo ultimo prodotto narrativo. Peggio se pensa di fare il burattinaio di questo manipolo di sbandati del neoliberismo confuso e cialtrone guidato dagli irriducibili montiani del Pd, ma cui fanno capo anche altri affetti da disordini della personalità, democristiani senza casa e senza Casini, lavoristi che odiano il lavoro per sé ma anche per gli altri, giovanilisti col chiodo, qualche ruga, i capelli tinti e una bella attrezzatura di cinismo.

E infatti il testimone, Veltroni l’aveva già consegnato al sindaco di Firenze, che pensava di guadagnare consensi ripescando un po’ di paccottiglia dell’Isola di Wight o di Woodstock passata per Ichino e Zingales. Ricorda quel Jerry Rubin che invitò nel ’68 a non fidarsi di chi aveva più di trent’anni, salvo aggiornare il suo appello tre anni dopo in “Non fidarti di chi abbia più di 34 anni” per poi accettare fiaccamente il “sistema” facendo un po’ di quattrini coi libri-invettiva e mettendo su pancia. Si, volenti o nolenti, tra i due c’è continuità. La Capitale di Veltroni è l’allegoria di quelle politica, esaltata anche dalla destra come una combinazione vincente: immagine, commercio, turismo, circenses, periferie in trasferta in centro, costruttori appagati e rom epurati, mentre si lasciavano insoluti i grandi problemi, traffico, immondizia, residenza, scuole, strade, smog, delicatamente e pudicamente rimossi dal Messaggero di Caltagirone, grato ed entusiasta supporter del nipotino di Nando Moriconi, l’americano a Roma.

Ma ben oltre l’affinità sulle rivendicazioni “generazionali” degne di Marione ‘o sfasciacarrozze, la tacita accettazione dell’eredità, dal Lingotto alla Leopolda, segna la continuità della “linea” politica, quella ispirata da un beato e beota moderatismo, che aborrisce le implicazioni coi lavoratori, meglio invece portarsi a casa il consenso più solido frutto di deregolazione e detassazione, meno spesa e più mercato, meno vincoli e più cemento.

Bisognerebbe proprio vietare a er Coca Cola, come lo chiamavano a Roma, di continuare a fare malanni, pensando al danno che ha commesso e all’oltraggio perpetrato contro la sinistra e la memoria storica di un partito che sia pure con limiti e incertezze aveva rappresentato interessi popolari e testimoniato delle istanze di riscatto dallo sfruttamento.

La nascita del Pd non è stata solo un operazione algebrica: quella di mettere insieme due elettorati e due ceti politici, resa più semplice dalla mancanza di valori, principi e idee. È stata una fusione artificiale che si è rivelata infame, disuguale ed aberrante perché ha prodotto l’annientamento del Dna di una forza politica e la negazione di alcune stelle polari irrinunciabili cui riferirsi e sulle quali orientare il cammino della sinistra, a partire dalla centralità del conflitto capitale- lavoro, reso più attuale in un mondo nel quale il capitale entra ancora più potentemente dentro le forme della nostra vita, trasforma noi, le nostre convinzioni, i nostri linguaggi, le nostre aspirazioni e le nostre relazioni in mezzi di produzione,  il nostro salario, le nostre pensioni, le nostre garanzie, le nostre vecchiaie in derivati e i nostri desideri in condizionamenti funzionali all’assoggettamento.

È un peccato forse che non si ricandidi Veltroni. Un insuccesso, una sonora batosta sarebbero stati la sia pur tardiva reazione allo scandalo e una pena peraltro esigua per il delitto commesso ai nostri danni: quel gesto sbrigativo e arrogante che ha cancellato l’intero ventaglio delle culture politiche di una sinistra plurale, quelle gracili che ancora c’erano e quelle lontane e nobili, espulse dalla memoria collettiva e dalle coscienze, preferendo un presente inconsistente e “liquido” come si volle fosse il nuovo partito, assemblaggio artificiale e affrettato di vicende politiche divergenti, dichiaratamente ostile a creare una propria identità politica e impegnato nella cancellazione della propria diversità per essere “come gli altri”.

Non gli è bastato che l’auto-fondazione divenisse un auto-affondamento, non gli è bastato a aver contribuito a scucire il rapporto fiduciario con la politica e a mettere le basi per il vicariato iniquo e anti-democratico del governo tecnocratico.  No, l’irriducibile resta attaccato alla poltrona, fosse anche solo quella di un talkshow, alla rendita di posizione, fosse anche solo quella delle serate alla Versiliana, al consenso, fosse anche solo quella di qualche intrattenitore zelante o opinionista grato per qualche favore. O forse in cuor suo spera che nel vuoto di candidature per il Campidoglio gli venga riconosciuta una insostituibilità, maturata per destino biologico o per mancanza d’altro, a fare il sindaco di Roma. Anche in quel caso, basterà applicare la massima che valeva anche per Berlusconi e che vale per tutti i candidati indesiderabili: basterà non votarlo.

 


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