Dal mio rifugio a Città del Messico noto che i principali notiziari messicani e quelli di mezzo mondo annunciano l’arrivo di un momento storico per il Venezuela, il momento di una possibile svolta con un alto impatto anche a livello regionale e geopolitico. Dopo 14 anni al potere e due mandati consecutivi, per la prima volta il cinquantottenne presidente Hugo Chávez, non avrebbe la vittoria garantita al 100% alle elezioni presidenziali di domenica 7 ottobre. Almeno questo dicono alcune tra le più affidabili imprese dedicate ai sondaggi d’opinione. Non sempre possiamo fidarci di loro, a dire il vero, ma l’incertezza elettorale, insieme ai dubbi sul vero stato di salute del presidente, che dal 2010 è in lotta contro il cancro, e dei partiti che lo sostengono, indeboliti da faide interne, contribuiscono a riattivare il dibattito sul Venezuela e spingono a fare il punto della situazione. Avremo maggiori dettagli stanotte o domani, ma si possono comunque fare alcune considerazioni, indipendenti dall’andamento del voto, sulla campagna elettorale, sulla situazione economica e politica e sul processo di cambiamento che il paese ha vissuto in questi anni e che, recentemente, ha visto un ricompattamento dell’opposizione e l’ipotesi di un progressivo declino del “chavismo”, del suo progetto bolivariano e del “socialismo del secolo XXI”.
Cioè a quel corpus di visioni politiche, progetti sociali ed economici e retoriche ufficiali, ispirati alle idee integrazioniste e patriotiche del libertador Bolivar. Idee che, nel secolo XXI, corteggiano il militarismo e spesso assumono connotati messianici, propongono piani egualitari e popolari, sicuramente necessari, ma che tendono a districarsi tra proposte quasi autarchiche, o promotrici della sovranità nazionale, e ideali internazionalisti. Sono proiettati a favorire un accelerato sviluppo economico interno ma con una progressiva polarizzazione del discorso e dell’azione politica. Sono i tratti di una delle possibili definizioni del populismo, e so benissimo quanto l’uso e abuso di questa parola sulla stampa europea abbia creato facili confusioni, stigmatizzazioni e mistificazioni non ponderate, spesso prive di una vera analisi sull’America Latina, quindi non la utilizzerò qui né sarà il mio pass par tout esplicativo. Torno a Simón Bolivar. Fu l’eroe indipendentista che nel 1810 cominciò l’impresa di liberazione dei paesi andini del Sudamerica dal dominio dei colonizzatori spagnoli e creò la Gran Colombia, una “patria grande” che ebbe poca fortuna e si frammentò nel 1831 dando origine all’attuale Venezuela, alla Colombia, all’Ecuador, a parte del Perù e a Panama.
Ad oggi la galassia anti-Chávez è formata da poco meno di una trentina di partiti e formazioni politiche, epurate (pare) degli elementi più reazionari e golpisti che nel 2002 cercarono di defenestrare il presidente con il sostegno degli USA. Un’opposizione che sembra avere migliorato la sua “compatibilità democratica” e che ha svecchiato il suo linguaggio e le sue pratiche, avvicinandosi alla socialdemocrazia europea o al modello brasiliano, per non suscitare troppi timori nelle classi popolari e nella massa degli indecisi. Dieci anni fa, con quel colpo di Stato ai danni di un mandatario eletto dal popolo democraticamente, l’unico risultato che alcuni settori dell’opposizione ottennero fu elevare Chávez ai massimi livelli di popolarità, facendone un’icona e un paladino del popolo e della democrazia.
Lo smacco per l’élite tradizionale e la perdita di legittimità furono gravissimi, e concorsero a confermare tanto le accuse complottiste del presidente contro le destre e “l’impero americano”, quanto le sue invettive contro “i palazzi”, la corruzione e i partiti tradizionali (AD-Acción Democrática, d’ispirazione socialdemocratica, e COPEI-Comité de Organización Política Electoral Independiente, di tendenza democristiana) che per quarant’anni avevano dominato la scena politica venezuelana, conducendola a una degenerazione senza precedenti. Nel 1992, infatti, in pochi minuti di apparizione televisiva il comandante insurretto Hugo Chávez, arrestato in seguito a un tentativo di golpe ai danni del presidente Carlos Andrés Pérez, aveva saputo cogliere nel segno e aveva cominciato la sua ascesa mediatica e popolare con un discorso basato sull’anti-politica che fece molta presa sui suoi concittadini e contribuì non poco al suo successo elettorale come candidato alla presidenza nel 1998, anno d’inizio della “rivoluzione bolivariana” in Venezuela.
Oggi 19 milioni di venezuelani sono chiamati alle urne per decidere chi li governerà per i prossimi sei anni e si preannuncia un finale al fotofinish. Inoltre più di centomila venezuelani all’estero potranno recarsi ai consolati per esprimere la loro preferenza. In dicembre ci saranno, invece, le elezioni dei parlamenti locali o regionali e dei governatori dei singoli stati. Invece il parlamento rimarrà quello attuale fino al 2016, anno previsto per il suo rinnovo. La maggioranza del potere legislativo resta quindi in mano alla coalizione chavista che ha 95 seggi contro i 70 delle opposizioni. Ad ogni modo il principale rivale di Chávez, il centrista-liberale Henrique Capriles, potrebbe vincere a sorpresa secondo gli ultimi sondaggi dell’impresa Consultores 21. Altre due agenzie, Datanalisis e Datos, danno un leggero vantaggio al presidente, mentre IVAD gli dà un comodo margine di 12 punti. Capriles, avvocato quarantenne con una lunga carriera politica alle spalle, è stato il governatore di Miranda, secondo stato più popoloso del paese, e ha il sostegno della Piattaforma d’Unione Democratica (Mud) che promette di mantenere i programmi governativi di sostegno per la fasce più povere e stimolare la crescita dell’economia con “giustizia sociale”. La Mud è una coalizione di partiti socialdemocratici, democristiani e liberali che s’oppongono al progetto del socialismo del ventunesimo secolo di Chávez che punta su slogan come “Cuore della mia patria” e “indipendenza e patria socialista”.
Il presidente è candidato del Partito Socialista Unito del Venezuela (Psuv), sua creazione del 2007, e di un’ampia alleanza di movimenti sociali, organizzazioni e partiti riuniti nel Gran Polo Patriotico (Gpp) che rappresenta diverse anime della sinistra. Capriles, che è meno popolare mediaticamente e politicamente, ha optato per una campagna elettorale itinerante, quasi “porta a porta”, in cui ha visitato più volte tutte le regioni del paese e ha tenuto oltre trecento comizi. “Una strada c’è: che tutti andiamo avanti e nessuno resti indietro, che le condizioni alla nascita non determinino il tuo destino”, recita il programma della Mud, tra cristianesimo sociale e sinistra moderata. Chávez, debilitato dal cancro che lo ha parzialmente fatto uscire di scena negli ultimi due anni e su cui c’è quasi un “segreto di Stato”, s’è limitato a una decina di apparizioni in pubblico in soli sei stati. Ma la sua popolarità resta comunque alta, soprattutto tra i ceti meno abbienti, effettivamente beneficiati dai generosi programmi sociali del Governo, e tra i dipendenti pubblici.
Lo zoccolo duro del “chavismo” è stimato in circa sei milioni e mezzo di voti ed è difficile sconfiggere l’apparato costruito nell’ultimo decennio di “rafforzamento statalista”. La potenza comunicativa dello Stato, o meglio del governo, s’è ampliata notevolmente nell’ultimo decennio: i mass media pubblici sono aumentati, è stata lanciata la catena TeleSur, non è stata rinnovata la concessione alla Tv privata RCTV, è stato messo in orbita un nuovo satellite, sono state promulgate nuove leggi che disciplinano i contenuti nei media e la pubblicità ufficiale (che ora è gratuita e a trasmissione obbligatoria per i mass media), è cresciuta la promozione di pagine web pro governative e la gran quantità di trasmissione a reti unificate del presidente, anche in campagna elettorale.
D’altro canto, spiega Carlos Vecchio, uno dei coordinatori della campagna di Capriles, “il presidente fa uso delle risorse statali, cioè gli spazi nelle radio e in televisione, a suo vantaggio, per cui la sua presenza mediatica s’è quadruplicata rispetto alle elezioni del 2006″. Infatti, il capo dell’esecutivo ha sempre la possibilità di inviare messaggi in TV a reti unificate senza che questi contino ufficialmente come atti della campagna elettorale. In caso di vittoria, Chávez arriverebbe a compiere due decenni consecutivi alla guida del Venezuela, un caso anomalo nei sistemi presidenziali attuali dell’America Latina che, nella gran parte dei casi, non prevedono la rielezione del capo di Stato per più di uno o due mandati.
La modifica costituzionale che consente la rielezione indefinita del presidente e di altre cariche pubbliche è stata fortemente voluta da Chávez e dal Polo Patriotico ed è stata approvata con un referendum nel 2009. L’opposizione denuncia da anni una forma accelerata di “involuzione” democratica e l’occupazione politica da parte dei chavisti di ruoli chiave nelle istituzioni, come la Corte Suprema di giustizia, e nelle imprese parastatali come la petrolifera PDVSA. Con l’astensionismo previsto intorno al 25%, secondo molti osservatori il voto degli indecisi, pari a circa il 17% del totale secondo le principali agenzie di sondaggi, potrebbe essere determinante per i risultati finali, anche se per Capriles sarà comunque difficile conquistare il consenso dei barrios (o quartieri popolari), soprattutto nei bastioni storici del movimento bolivariano nella capitale. Vedremo anche se saranno sufficientemente convincenti agli occhi degli elettori i discorsi rinnovati e conciliatori, uniti all’immagine “pulita” e allo spostamento a “sinistra”, del candidato Capriles e della MUD che, comunque, mantiene al suo interno i partiti del vecchio regime “dell’alternanza” prevista dal patto del punto fisso (punto fijo), cioè AD e COPEI. Tra il 1958 e il 1998 questi due partiti si sono alternati al potere secondo un patto per il mantenimento della democrazia che escluse il Partito Comunista e, nel tempo, si trasformò in un regime funzionale alla riproduzione di una classe politica parassitaria.
L’incertezza e la faziosità di una parte dei pronostici diffusi nelle ultime settimane non aiutano a chiarire il quadro della situazione. “La guerra dei sondaggi ha la sua massima espressione in queste elezioni”, ha spiegato il politologo venezuelano Piero Trepiccione. “Vedo che le compagnie dedicate a rilevare tendenze elettorali sono troppo mediatiche, perdono la loro funzione e agiscono come manipolatrici delle opinioni”, ha aggiunto. Un discorso molto simile e sensato era stato fatto in Messico questa primavera, durante la campagna per le presidenziali vinte da Enrique Peña Nieto (dell’ex partito di regime PRI, Partido Revolucionario Institucional) tra mille polemiche e denunce di frodi e compravendita del voto, e poi anche dopo il voto: il ruolo delle televisioni e dei sondaggi è stato, infatti, determinante nell’influenzare l’opinione pubblica.
Giovedì scorso centinaia di migliaia di cittadini si sono riversati nelle piazze per assistere alla chiusura delle campagne di Capriles, nell’occidentale Barquisimeto, e di Chávez, nella capitale Caracas. Ciononostante brillano per la loro assenza i dibattiti pubblici e diretti tra i candidati che rendono più opaco tutto il processo e lo studio delle proposte. Il presidente può vantarsi di aver ridotto gli indici di povertà, dimezzati in 10 anni e portati su ottimi standard internazionali (nel 2011 il tasso di povertà era del 27% sul totale della popolazione, nel 1998 era del 47%), e le disuguaglianze, per cui oggi il Venezuela è il paese latino-americano che presenta le minori differenze tra ricchi e poveri. D’altro canto sono difficili da difendere i “risultati” in termini d’inflazione, dato che la crescita dei prezzi viaggia a ritmi di poco inferiori al 30% annuo, penalizzando le classi meno abbienti. La crescita venezuelana, attestata su una media del 2,25% nel periodo 1999-2011, ha alternato periodi di recessione profonda a veri e propri exploit da “miracolo economico”, spesso determinati dall’andamento dei prezzi del petrolio più che da una vera e propria politica di sviluppo. Nel frattempo, però, il debito pubblico è cresciuto di quasi cinque volte, da 34 miliardi di dollari a 150 nel 2011.
Capriles promette di seguire il modello pragmatico e sociale dell’ex presidente brasiliano Lula, che però sostiene esplicitamente Chávez, e accusa “el comandante” di aver aggravato il problema dell’insicurezza, visto il forte aumento del già alto tasso di omicidi da 48 a 67 ogni centomila abitanti, una media quasi centroamericana. Gli esperti di criminalità attribuiscono l’aumento della violenza alla corruzione, all’impunità e alla scarsa presenza di istituzioni credibili, dalla polizia alla giustizia, più che alla povertà, alla disuguaglianza e altri fattori socio-economici che, in generale, si sono mantenuti su standard positivi. L’opposizione ha denunciato l’uso clientelare dei proventi del petrolio, di cui il Venezuela è settimo produttore mondiale, e gli aiuti “troppo generosi” a paesi come Cuba, il Nicaragua e altri membri dell’ALBA, l’Alleanza Bolivariana per l’America Latina creata da Chávez nel 2004 come strumento di politica estera e per l’integrazione regionale. A parte le critiche e i programmi, in caso di vittoria da parte di Capriles, resterebbe comunque da risolvere il problema della coabitazione di un parlamento dominato dal PSUV con un presidente dal diverso colore politico.
La situazione geopolitica latino americana potrebbe cambiare se Chávez venisse sconfitto, dato che Capriles ha già annunciato la riduzione dei contributi in petrolio e delle convenzioni di scambio tra i paesi dell’ALBA che prevedono prezzi preferenziali per gli associati, anche se non s’è espresso per una cancellazione dell’ALBA e degli altri accordi d’integrazione regionale sottoscritti dal Venezuela: in primis, c’è il Mercosur con il Brasile, l’Uruguay, il Paraguay e l’Argentina che continuerà a restare in vigore e, probabilmente, verrà riattivata la partecipazione del Venezuela alla Comunità Andina con la Colombia, l’Ecuador, il Perù e la Bolivia. Probabilmente sia Cuba che l’Ecuador, la Bolivia e il Nicaragua, i principali alleati del progetto bolivariano nella regione, vedranno profondamente colpiti i loro interessi economici, soprattutto legati alle forniture di gas e petrolio, e strategici. L’attenzione ai risultati del voto di oggi è alta non solo in Sudamerica, ma anche negli USA, primo socio commerciale del paese andino ma allo stesso tempo “rivale” e nemico imperiale del governo, e in altri paesi che da anni intrattengono strette relazioni economiche, strategiche e politiche con il Venezuela di Chávez come la Russia, la Cina, la Bielorussia e l’Iran. Di Fabrizio Lorusso Twitter @FabrizioLorusso