Gli utenti dei servizi pubblici cittadini lo sanno: prendere l’autobus, almeno a Palermo, non significa semplicemente pagare un biglietto, obliterarlo e spostarsi da un punto all’altro della città. Significa immergersi in una padellata di facce, corpi, odori, contatti, discussioni, mezze frasi, smorfie, e gesti. Significa guardare, ma soprattutto ascoltare la città. La città, Palermo, ti parla, attraverso i finestrini sporchi di un 101 sovraffollato, nella forma di uno scorrere più o meno veloce di immagini al di là del vetro, negozi, case, giardini, muri graffitati, cassonetti che trasbordano immondizia, automobilisti che credendosi non visti si infilano le dita nel naso, ciclisti coraggiosi, bambini sul passeggino, mamme e papà sudati, cani. La città può penetrare in quella dimensione in movimento in forma di vento caldo, all’apertura delle portine, o da qualche finestrino aperto, portando con sé un odore di fiori appena sbocciati, o di umidità, o di foglie marcescenti, o di cibo, di soffritto di cipolla, di carne arrosto, di curry, di qualche frittura di verdure. Un vento tiepido che ti parla di vite che scorrono accanto alla tua, e a volte le incontri, altre volte ne sospetti l’esistenza, e basterebbe un soffio (di vento, appunto) a conoscerle. La città sale sul 101 con i suoi piedi e le sue gambe, fasciata di vestiti che cambiano in base alla stagione, e degli odori personali e privati, che però sul 101 diventano pubblici. Siamo tutti lì, quindi, accalcati, pressati gli uni contro gli altri nei giorni peggiori, o semplicemente molto vicini, seduti su sedili contigui, spesso in silenzio.
Ma succede, per fortuna, che la città ti parli, seduta accanto a te nella forma di una donna anziana e forse analfabeta, ma con la voce più dolce e morbida che tu abbia mai sentito. Lei parla, tu ascolti e le rispondi senza aver paura che non capisca, lei capisce tutto. Coltiva piante abbandonate, dice quasi con vergogna, perché è vergognoso prendere quello che il resto del mondo ha rifiutato. Tu la rassicuri e le dici che è una cosa molto bella, e che anche nella tua famiglia ci si prende cura di queste esistenze abbandonate accanto ai cassonetti, che siano vasi con piante apparentemente defunte, da rianimare con riti vegetali magici, o cani aggressivi e bruttini condannati al canile.
Parli con la città condensata e frammentata negli occhi acquosi di questa donna che è così lontana da te eppure vicinissima. Se il traffico rallenta il tuo ritorno a casa, non importa. L’incontro è gradevole, ti restituisce la dimensione umana, il piacere della storia, del racconto, del contatto.
Ma non è sempre così. Succede che si aprano le portine davanti ad un gruppo di ragazzi di colore circondati da borsoni e sacchi verdi. Sono dei venditori ambulanti, o forse hanno una bancarella da qualche parte. L’autobus è pieno, e loro non ci provano neanche a salire. Aspettano la prossima corsa, o si dividono e si salutano, dandosi appuntamento altrove. Li guardo e penso che potremmo stringerci, e mettere i sacchi uno sopra l’altro. Lo spazio si trova. Ma sto zitta. Le portine si chiudono, che sto ancora guardandomi nello sguardo bianchissimo e profondo di uno di loro, e una signora inizia a lamentarsi. Il discorso è immotivato, dato che i ragazzi non hanno neppure messo piede sul veicolo, ed è condito dalla premessa “io non sono razzista, eh”. Ecco, diffidate sempre da questa premessa, perché di solito arriva un “ma”. E subito dopo un “loro”. E subito dopo, come minimo, un luogo comune insopportabilmente banale su questi “loro”. Ma chi sono loro? Sono tutti uguali questi “loro”? Vorrei fare mille domande alla signora imperlata di turno, ma taccio. La discussione prosegue, la mia fermata arriva, e sono fuori da quella parentesi spiacevole.
Succede anche che accanto a me ci sia una donna con un bambino sul passeggino. Il bambino ha una brioscina in una mano, e un gelato nell’altra. È un bambino molto bello, pelle ambrata, occhi e capelli neri. Sul naso ha del gelato, e anche sul mento, e sulla mano. È un bambino, e come tutti i bambini, si sta sporcando di brutto con quello che mangia, ma ha un sorriso che è impagabile. Lo guardo, mi guarda, sorrido, sorride. La madre ogni tanto prende il gelato e ne lecca via un po’, per evitare il disastro totale. Si sporca un po’ anche lei, la mano, e gli angoli della bocca. Ha capelli lunghi attaccati con una pinza dorata, una felpa di ciniglia verde, una gonna grigia, calzini viola, e scarpe rosse. Un’altra donna alla fermata li guarda con evidente fastidio. Il bambino mi sorride e mi porge la brioscina, come ad offrirmela. Sono sicura che la signora infastidita non mi avrebbe mai offerto la sua merenda.
Su un altro autobus mi succede una cosa ancora più violenta. Siamo moltissimi, tutti schiacciati, gli uni contro gli altri. In queste situazioni lamentarsi coi vicini di posto, o di aria, non ha senso, perché sono tutti nella tua stessa situazione. Non so bene come inizia, ma ad una fermata salgono su un uomo e una donna. Sono alti, imponenti, belli. Sono di colore, e lei ha dei capelli divisi da una riga al centro e attorcigliati in una chiocciola molto elegante. I due salgono, e spostandosi da una zona all’altra del veicolo, sfiorano un uomo di mezza età, bassino, bianco, con la pancia tonda come un melone, e un inizio di stempiatura. L’uomo si gira e vede che i due non sono del suo stesso colore e inizia a gridare. Senza preavviso, senza motivo, senza curarsi della situazione di costrizione dei corpi. Urla a mezzo centimetro dalla faccia dei due giovani, urla a mezzo metro da noi, urla che devono andare via, che non devono toccarlo, che sono schifosi, che puzzano, che sono stranieri e non possono fare quello che vogliono. Urla che “questa è casa mia, e mi dovete portare rispetto”. Io penso che è solo fuori di testa, ma attorno a noi, al di fuori delle urla del signore pazzo, c’è un silenzio che fa paura. È tutto molto veloce, loro che salgono e lo sfiorano, lui che si gira e urla, noi che guardiamo e capiamo quello che sta succedendo. Sul viso della donna vedo un’espressione di vergogna cosmica, occhi lucidi, e imbarazzo mentre cerca di far calmare il tipo che le urla addosso. Gentilmente i due chiedono scusa, e spiegano al signore urlante che lo spazio è poco. Lui non si calma, continua a gridare, varie lamentele si alzano dalla folla attorno, il silenzio viene spezzato, ma le sue urla sovrastano tutto il resto. Scendo alla prima fermata, e cerco di raggiungere l’autista, al quale spiego la situazione. Lo prego di far scendere il signore che grida, ma lui si gira, comprende la situazione e mi dice che non ha tempo. Rimango impotente e incazzata alla fermata sbagliata, mentre le portine si chiudono sulle solite urla.
Ecco, succede anche questo. La città ti regala la molteplicità, la differenza. Ti parla in una lingua diversa, ma dolce. Ti invita ad accogliere, ti fa sentire accolto. E ti schiaffa in faccia la violenza della resistenza a questa molteplicità. Ti picchia col suo non voler accogliere. Con quella normatività del “io non sono razzista, ma loro…”. Succede che sul 101 tu non ti senta più tanto a casa, tu non ti senta più tanto dolce, tanto accolto, o tanto accogliente, perché non ti riconosci in quel “noi”, ma sei parte di “loro”. Loro che vengono da lontano, che sono diversi, che fanno un odore diverso, e hanno facce diverse. Loro coi loro vestiti, i loro cibi, le movenze, le consonanti aspirate, le vocali aperte, o chiuse, o assenti. Loro che non sono di questo mondo, loro che vengono dalla luna.
Ecco, a volte, sul 101 mi è chiaro: come loro, anche io vengo dalla luna.
*Vengo dalla luna è una canzone di Caparezza, qui il video.