- Il vostro Nautilus è proprio un battello magnifico.
- Sì, professore – replicò egli commosso – e l’amo come la carne della mia carne.(Jules Verne, Ventimila leghe sotto i mari)
La nave e il suo capitano. La bicicletta e il suo ciclista. E’ l’amore che ci lega a tutte le cose che, pur essendo inerti, hanno il potere di portarci lontano, di renderci liberi. Il viaggio. Per terra o per mare. A piedi, in macchina, in treno, in aereo, in bicicletta. E’ la sintesi di quello che siamo: fogli bianchi da riempire. In troppi hanno cercato di dire cosa sia il viaggio. E’ tutto, è niente. Dipende dai nostri punti di vista. Siamo noi a decidere cosa guardare e come farlo. Qualcuno sceglie la bicicletta per vedere il mondo che, a dire il vero, è una strana prospettiva: in bilico, su due ruote, con la fatica del dover pedalare sempre. Eppure dicono che sia questo uno dei pochi modi di sentire davvero tutto. I suoni, i colori, gli odori. I brividi delle emozioni a fior di pelle, come se l’aria potesse materializzarle e trasformarle in carezze.
Paola Gianotti abita in Piemonte, a Ivrea, e ha sempre viaggiato fin da piccola, con il camper, assieme ai suoi genitori. Poi, compiuti diciotto anni, ha cominciato a mettersi lo zaino in spalla e viaggiare in tutto il mondo, assieme alla sorella. Niente vacanze programmate, niente alberghi, niente comodità. Puro stile Beat.
Gli sport sono la sua passione ma il suo sogno è sempre stato quello di fare il giro del mondo in bicicletta.
“Era un sogno” racconta lei. “E forse non pensi mai di poterlo realizzare fino a quando ci sei dentro. E’ successo che, per colpa della crisi, ho dovuto chiudere la mia società di organizzazione eventi e allora mi sono detta che forse era il momento buono per farlo. O ora o mai più. Ho visto che un’altra ragazza stava tentando il record e ho pensato che potevo provare anche io. Per dare un senso al viaggio e legarlo ad un’impresa sportiva. Una sfida. Io ho sempre amato le sfide.”
All’inizio del 2013 Paola comincia a contattare tantissime aziende per cercare sponsorizzazioni. E’ forse la parte più difficile, assieme a quella logistica per calcolare esattamente tutti gli spostamenti e i chilometri per restare nei parametri dettati dai regolamenti. E poi, naturalmente, l’allenamento, fisico e mentale. “Il quaranta per cento” spiega, “è una questione di fisico. Tutto il resto è testa. Ho passato mesi a ripetermi le motivazioni e anche quando ero sulla strada mi dicevo in continuazione che quello era il mio sogno, era quello che volevo fare. Stavo realizzando un desiderio grande. Così grande che era capace di motivarmi al punto di farmi andare avanti in qualsiasi situazione.”
Già, perché la storia di Paola e del suo giro del mondo non è tutta qui. Non è solo nei numeri. Il suo è un tentativo bello, affascinante eppure sofferto, interrotto, spezzato. E poi ancora ripreso. Più autentico, quasi nuovo.
Paola parte da Ivrea l’otto marzo 2014, una data simbolica, che sceglie di proposito, un omaggio e un modo per rimarcare la femminilità di questa impresa. “Secondo una delle regole” spiega, “bisogna pedalare in una sola direzione per tutto il viaggio. Ho scelto di viaggiare verso ovest. Come Cristoforo Colombo. Controvento.“
La Costa della Francia, poi la Spagna, il Portogallo e a Lisbona un volo verso il Sudamerica. Buenos Aires, la Patagonia, l’Argentina e le Ande. I suoi chilometri controvento, ogni giorno, sulle strade del mondo. Lo splendore della costa cilena e la solitudine di Atacama, il deserto più grande del mondo. E poi di nuovo in volo per il Nord America per pedalare nel sole di Miami fino a San Francisco. Le strade polverose e i tramonti infiniti. E’ qui, durante il coast to coast, che il viaggio ha uno stop improvviso, incredibile, che fa paura. Mentre Paola sta attraversando il deserto che collega la California con l’Arizona, una macchina la travolge. “Era il 16 marzo” racconta. “Ed ero esattamente a metà percorso. Mi sono rotta la quinta vertebra cervicale. Non ci volevo credere. Ho tentato di aspettare due mesi e curarmi in America ma la vertebra era troppo aperta. Allora sono tornata a casa.”
Questo non significava, però, che il viaggio era finito. “Non ho mai pensato di lasciar perdere” dice schiettamente Paola. “All’inizio mi sembrava un’ingiustizia folle. Poi, con il passare dei giorni, ho capito che quello era un valore aggiunto alla mia impresa. Sono convinta che sia stato un vero e proprio segno del destino. Quattro mesi dopo sono ripartita esattamente dal punto dell’incidente come, fortunatamente, i giudici del World Record mi hanno permesso, e ho capito che non ero più la stessa Paola. Ripartivo ed ero nuova. Ero più consapevole. Su tutto: sulla vita, sull’importanza della salute e anche su quello che stavo facendo. Non ho mai pensato di mollare. Mai. Avevo anche creduto all’eventualità di pedalare con il collare.”
Sulla strada. Di nuovo. La stessa bicicletta, lo stesso programma, la stessa rotta. Prima vola in Australia e poi in Asia. Singapore, Malesia, Bankok, i templi e i suoni di una religione dal misticismo esotico ed affascinante.
Istanbul e poi la Grecia, l’Albania, la costa mediterranea con le costruzioni bianche come gesso e il mare azzurro che sapeva già un po’ di casa. “Dopo essere arrivata a Trieste” spiega, “ho tenuto per ultimo tutto il giro dell’Italia, fino a Ivrea. Ho voluto così perché il mondo è bellissimo ma la terra dove nasci ha un significato diverso. E poi il nostro è un Paese stupendo, ricco di bellezze, naturali ed artistiche.”
Il 30 novembre 2014 Paola torna a casa. Dopo aver pedalato per più di ventinovemila chilometri controvento e aver passato venticinque confini di stato. Un viaggio senza sosta nel cuore delle mille e mille culture. Una strada che attraversa il mondo e una bicicletta per percorrerla. Il sogno.
“Detto così sembra semplice” racconta, “ma, anche se avevo sempre il morale alle stelle, e non riuscivo a smettere di pedalare perché ero troppo felice di quello che stavo facendo, ci sono stati momenti critici: i cambiamenti climatici, i fusi orari, il meteo, le stagioni, la salute.
Il momento più bello ma anche quello più difficile è stato quando ho attraversato il deserto di Atacama. Le temperature erano molto elevate quindi pedalavo poco di giorno e moltissimo di notte. E’ stato meraviglioso. Ero da sola, sotto un cielo immenso che pullulava di stelle. E niente altro: rocce, sabbia e poi ancora sabbia. Talvolta qualche lucina di piccoli villaggi lontani. La stessa emozione l’ho vissuta sulle Ande, assieme ai gauchi che sono questi pastori a cavallo che portano le mucche al pascolo. Quando li incontravo, pedalavo con loro. A dire il vero, anche in Asia è stato difficile. Non avevo il camper che mi seguiva quindi dovevo seguire ritmi complicati e non potevo nutrirmi del mio cibo. Però ho incontrato tantissimi bambini per la strada che mi correvano a fianco e mi davano il cinque. E’ stato commovente e mi ha dato tanta forza. Un viaggio anche nel cuore dell’umanità.”
La bicicletta è sempre stata un mezzo per raggiungere quello che cerchiamo da sempre: la libertà. Un piccolo e sottile Nautilus per avventurarsi nelle profondità di noi stessi. È un modo per crescere anche se detto così assomiglia troppo a una di quelle massime che siamo costretti a sopportare. Il senso del viaggio è profondo e a volte segreto. Riempie fogli bianchi, borracce vuote.
Questo è il giro del Mondo su un Nautilus a due ruote verso ovest, controvento. Questo è un sogno di 144 giorni spezzato a metà da una vertebra rotta e ricostruito con il solo ingrediente che non può mancare per raggiungere gli obiettivi veri: la tenacia senza discussioni. Non siamo più ai tempi di Colombo da un pezzo. Ma ci sono ancora troppe cose da scoprire per pensare di doverci fermare.