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Verba volant / Burrone

Creato il 28 maggio 2014 da Margheritapugliese

Burrone, sost. m.

Il 22 agosto 2012, in un articolo intitolato Suicidi in Fiat, l’operaia Maria Baratto scriveva

Non si può continuare a vivere per anni sul ciglio del burrone dei licenziamenti.

In quell’articolo Maria raccontava la storia di due operai della Fiat di Nola: uno aveva tentato il suicidio e l’altro purtroppo era arrivato fino in fondo, dopo aver ucciso la moglie e ferito la figlia. Maria aveva voluto raccontare quelle due storie di disperazione perché le conosceva bene, erano suoi colleghi di lavoro e lei pensava fosse importante quella testimonianza. Forse aveva deciso di raccontare quella disperazione per esorcizzarla. Gli ultimi sei anni li aveva passati in cassa integrazione; il suo periodo di cassa sarebbe finito a luglio, ma lei evidentemente non aveva fiducia che sarebbe tornata al lavoro.

Raccontare quella storia però non le è bastato per allontanare quell’angoscia. Martedì 20 maggio Maria si è uccisa, in un modo terribile, piantandosi un coltello nello stomaco. Maria aveva 47 anni e non è riuscita a fermarsi sul ciglio del burrone.

Faccio fatica a parlare di questo argomento, perché in un passato recente ho conosciuto le difficoltà che si provano ad avere un lavoro precario, con la tensione che spesso ti tiene sveglio la notte e ti fa vedere nero il futuro. Maria è una nostra sorella che non ha avuto la forza di resistere, una vittima del lavoro che non c’è. Quando ricordiamo le vittime del lavoro dovremmo ricordarci anche di lei.

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Naturalmente so che ogni suicidio è una storia a sé, un evento drammatico e privato, che coinvolge quella singola persona, le sue paure, le sue debolezze, le sue disillusioni; un suicidio è l’apice di una storia personale, di un dissidio insanabile con la propria coscienza, qualcosa di strettamente privato, che naturalmente ricade e coinvolge le persone vicine, le famiglie. E per questo ritengo anche che sia un errore leggere in questi fatti una causa comune, un unico elemento scatenante, anche perché sono naturalmente ben di più i lavoratori senza lavoro che decidono di andare avanti, di non rinunciare alla vita. Eppure tutti questi suicidi, che coinvolgono persone diverse, in paesi diversi, con culture diverse, ci raccontano qualcosa di quello che sta succedendo nel nostro mondo. Ed è qualcosa che dovrebbe preoccuparci tutti.

I lavoratori sono sempre meno tutelati, sono sempre più in balia di decisioni che vengono prese in luoghi che non conoscono e su cui loro non possono incidere. I lavoratori sono e si sentono soli. Di fronte alla perdita del lavoro o anche solo alla minaccia – reale o immaginata – di perderlo, non hanno strumenti per reagire, si sentono impotenti. E in qualche modo – come ha scritto e raccontato anche Maria – si sentono traditi dalle imprese per cui hanno lavorato, hanno investito tempo, risorse, intelligenza e si sentono traditi dallo stato.

Ha scritto Maria:

A 22 anni montavo il tergilunotto sull’Alfa 33 da sola, oggi prendo psicofarmaci.

In questi giorni abbiamo parlato d’altro, di elezioni europee, di equilibri politici, e la notizia della morte di Maria è stata relegata nelle pagine interne dei giornali o in fondo alle home pages dei siti. Anche quando alcuni di noi hanno parlato del pericolo che le manovre speculative mettano in grave difficoltà le nostre economie, forse lo abbiamo fatto in maniera asettica, parlando di numeri, di percentuali, delle ripercussioni sulle monete e sulle banche. Certo c’è anche questo, ma la crisi è soprattutto crisi del lavoro, che ricade immediatamente su chi è più povero. E soprattutto ci sono le storie delle persone, la storia di Maria come la storia delle persone senza nome che in Cina si suicidano nelle grandi fabbriche dove si producono i telefonini e i computer che usiamo tutti i giorni e che ci danno l’illusione della libertà.

Maria aveva lottato, insieme ai suoi colleghi e al sindacato per difendere il proprio posto di lavoro, aveva raccontato la sua storia, era in qualche modo riuscita ad uscire dal novero degli invisibili, eppure è stata comunque travolta. Le organizzazioni sindacali, i partiti, le amministrazioni locali dovrebbero cominciare a pensare a forme di aiuto e di sostegno che non siano generiche, ma rispondano ai bisogni di ciascuno: a Maria non sono bastate le consuete forme di sostegno al reddito – che pure per la maggioranza dei suoi colleghi sono state sufficienti a non lasciarsi vincere dalla disperazione – sarebbe servito un sostegno psicologico, per salvarla dal male che alla fine ha vinto e l’ha fatta cadere.

Ricordiamoci che questa crisi è una crisi delle persone e che queste persone non sono numeri, ma sono storie, vite, amori. Questo esercizio della memoria e della consapevolezza potrebbe farci sentire più vicini, farci vedere negli occhi degli altri la sofferenza che è anche nostra, farci essere meno soli, meno indifesi. Naturalmente non è detto che questo possa bastare, magari a qualcuno comunque non basterà. Io credo però che se sul ciglio del burrone non ci arriviamo da soli e soprattutto non ci stiamo da soli, sia molto più difficile che compiamo quell’ultimo, fatale, passo.


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