Guerra, sost. f.
Ecco un’altra parola che arriva alla nostra lingua dall’antico germanico. Infatti quei popoli barbari chiamavano wërra quello che i Romani definivano bellum e i Greci antichi polemos, e – visto che la lingua, come la storia, è fatta da chi vince – noi adesso usiamo la parola guerra, come gli inglesi usano war, mentre la radice del termine latino è rimasta soltanto nell’aggettivo bellico e nei suoi derivati. Solo alla metà del Novecento – un secolo tragicamente segnato dalle guerre – il sociologo francese Gaston Bouthoul ha coniato il termine polemologia, per indicare lo studio, dal punto di vista militare, della guerra e dei fenomeni sociali e politici ad essa legati.
Il Pianigiani spiega che è prevalso il termine di origine tedesca in quanto descriveva con più efficacia la mischia, la “zuffa alla mescolata”, come dice Francesco Guicciardini quando parla della battaglia di Fornovo del 1495, ossia il combattimento disordinato proprio dei Germani, contrapposto alla guerra ordinata, legione contro legione, squadrone contro squadrone, propria dei Romani. E infatti la parola duello deriva da bellum. Non so se sia andata effettivamente così, anche perché la guerra è sempre terribile, anche quando viene combattuta in maniera ordinata, secondo le regole. Ammesso e non concesso che queste regole poi esistano davvero.
Quando io ero bambino, i vecchi della mia famiglia – e in generale quelli che conoscevo – usavano ancora l’espressione “l’ultima guerra” per riferirsi alla seconda Guerra mondiale. Ovviamente questo aggettivo aveva prima di tutto un valore strettamente cronologico: quella era l’ultima delle guerre che loro e le loro famiglie avevano conosciuto. Per chi era giovane durante la seconda Guerra mondiale, il ricordo della Grande guerra era ancora qualcosa di vivo, anche se ovviamente non avevano preso parte a quel conflitto; e in mezzo c’erano state altre guerre: in Africa e in Spagna. Immagino però che quell’aggettivo avesse una sorta di inconscio valore apotropaico, fosse in sostanza un auspicio, un augurio, una speranza: volevano che quella fosse davvero l’ultima guerra che erano stati costretti a vedere, a vivere. Non è andata così naturalmente: dopo l’ultima guerra ce ne sono state molte altre, una terribile anche nel cuore dell’Europa, a pochi chilomentri dai nostri confini. E forse un’altra, mentre io scrivo e voi leggete, sta per scoppiare ai confini del nostro continente, in Ucraina.
La seconda Guerra mondiale è stata probabilmente anche l’ultima guerra in cui è stato facile decidere da che parte stare, visto che dall’altra parte c’erano i regimi nazista e fascista, visto che dall’altra parte c’era il male assoluto di Auschwitz; in quel caso è stato tutto sommato facile tracciare la linea tra il bene e il male. E abbiamo accettato le atrocità della guerra – perché la guerra lo è sempre, anche quando è combattuta per la ragione migliore del mondo – proprio perché bisognava sconfiggere quei regimi. Dopo è sempre stato più difficile tracciare quella linea, è stato certamente meno unanime. Adesso è diventato quasi impossibile, lo è in Siria, lo è in Ucraina.
Ad esempio, due anni fa abbiamo ricordato i cinquant’anni della crisi dei missili di Cuba; in quei giorni è stato ripetuto spesso che si apriva allora un periodo di speranza di pace, di cui erano protagonisti, insieme al papa della Pacem in terris, il presidente degli Stati Uniti Kennedy e il segretario del Pcus Krusciov. Effettivamente questa tesi è un tema ricorrente nelle storiografia e è condiviso nella memoria storica diffusa: però è anche un mito che ci siamo costruiti in questi cinquant’anni. Certo Kennedy e Krusciov ebbero la capacità e la forza di fermare la guerra che stava per scoppiare, ma – per onestà intellettuale – bisogna dire che furono proprio quei due leader a spingere i loro paesi a un passo dalla guerra nucleare. Perché la storia è sempre molto più complessa di come siamo tentati a volte di semplificarla. Il merito storico di Krusciov di aver condotto l’Unione Sovietica fuori dagli anni della dittatura di Stalin non può cancellare il fatto che fu lo stesso Krusciov a volere la costruzione del Muro di Berlino e che, appunto, portò il suo paese e il mondo a un passo dalla guerra, a causa della decisione di installare batterie di missili a Cuba. Allo stesso modo, il mito di Kennedy e la tragedia della sua morte non possono farci dimenticare la sua durezza in questa vicenda e il fatto che fu quell’amato presidente a cominciare la guerra in Vietnam. Sarebbe stato necessario “Tricky Dick” Nixon a chiudere quel conflitto. Forse ci sarebbe piaciuto di più che Nixon l’avesse cominciata e Kennedy finita, ma non è così.
Forse c’è stato un tempo, anche recente, in cui era più facile scegliere da che parte stare. Io sono uno di quelli che si è praticamente sempre schierato contro l’intervento degli Stati Uniti, anche se troppe volte i governi che nascevano da quelle sacrosante spinte indipendentiste e anticolonialiste hanno preso il peggio dei regimi che avevano sostituito. Adesso è diventato semplicemente impossibile farlo.
In Siria non sto dalla parte degli Assad e anzi voglio stare con chi vuole rovesciare quella famiglia: purtroppo non sono riusciti a farlo perché quel regime non solo è armato dalla Russia di Putin, ma anche perché Israele (e quindi gli Stati Uniti) preferisce avere ai suoi confini dei nemici che si combattono tra di loro. In Siria e, di conseguenza in Libano, si gioca una partita molto complicata tra Arabia Saudita, Iran e Turchia. Naturalmente non sto neppure dalla parte di chi vuole sostituire quel regime con uno nuovo, islamico e fanatico – i due termini non sono sinonimi naturalmente, se non per i profeti di crociata, dell’una e dell’altra parte – ben armato, anche con armi chimiche, gentilimente offerte dai governi occidentali. Per antica abitudine e per inveterata posizione politica, sto dalla parte delle siriane e dei siriani che non vogliono un regime e che vorrebbero poter immaginare un futuro diverso per i propri figli.
In Ucraina si contendono il potere due bande di ladri, una capeggiata da Viktor Janukovyč e una da Julija Tymošenko, che sovvenziati da oligarchi locali e sostenuti rispettivamente da aziende russe il primo e multinazionali occidentali la seconda, cercano di avere il controllo sulle risorse – a partire da quelle basilari: terra e acqua – di quel paese e sui suoi gasdotti. Non c’entra nulla la democrazia, non c’entrano nulla i diritti umani; chi qui da noi crede alle dimostrazioni di piazza Maiden o è in malafede o è di ingenuità imbarazzante. Però in Ucraina si combatterà e ci troveremo ancora una volta di fronte ad una guerra civile in Europa. Perché l’Ucraina, la patria di Gogol’ e di Bulgakov, è Europa. Curioso paradosso semantico della nostra lingua: la guerra civile, ossia dei cittadini, gli uni contro gli altri armati, è sempre di inaudita brutalità, è tutt’altro che civile.Non so quale banda di lacri vincerà la guerra in Ucraina, se la “nostra” o quella di Putin, anche se credo che alla fine troveranno un accordo – i ladri in genere si “fiutano” e sanno quando è il tempo di fermarsi – e comunque gli oligarchi e le multinazionali che li finanziano troveranno sempre una via d’uscita, cadranno in piedi. In tutti i modi, qualunque sarà la soluzione che i nostri volonterosi governi sapranno trovare, saranno sconfitti i cittadini di quel paese. Anche in questo caso, una politica estera diversa dovrebbe partire dal dolore delle donne e degli uomini dell’Ucraina.
Immagino non sarà così.