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Così diceva Marcel Proust e sono proprio queste parole che sceglie Anthony Bailey per aprire il suo Il maestro di Delft, storia di Johannes Vermeer, il genio della pittura olandese. Proust, è noto, amava Veermer, al punto che fu solo per lui, per vedere quattro suoi quadri esposti a Parigi, che sortì fuori di casa per l'ultima volta. Eppure la sua citazione mi convince a metà. La vera arte ha bisogno anche di parole, almeno dopo, ovvero quando si può e si deve salvaguardare la memoria e conservare alcune emozioni.
E' un bel libro, questo di Anthony Bailey, un libro buono anche per i non addetti ai lavori. Buono per quanti almeno una volta nella vita si sono fatti incantare da un quadro di Vermeer, dalle sue stanze inondate di luce, dalle sue domestiche affaccendate, dai gesti fermati in un tempo fuori del tempo.
Un libro buono perfino per coloro che Vermeer non lo hanno visto: attraverso queste pagine possono entrare nella storia di quel paese assai singolare che è l'Olanda. Un paese inventato dal nulla, da terre strappate dall'acqua e da una guerra impossibile. Un paese che fece il suo ingresso nelle carte geografiche con il nome di Province Unite (anche se erano già separate dalle Province del Sud) e che nel giro di pochi anni, tra una giravolta della storia e l'altra, si scoprì grande potenza.
Da allora gli olandesi partitrono alla scoperta del mondo, accolsero nelle proprie città artigiani e mercanti in fuga da guerre e intolleranze varie, scoprirono i tulipani e ci specularono sopra fino a un incredibile crack. Soprattutto amarono e coltivarono la pittura, tanto che i quadri si trovavano ovunque, nelle case borghesi, come nelle taverne e nei bordelli.
E questo libro ci racconta tutto questo: Vermeer, il genio della pittura; il secolo d'oro dell'Olanda; e una storia che sembra un romanzo e forse lo è.
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