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Veronica Franco

Da Farfalla Legger@ @annamariaa80

Su suggerimento dell’amica Fiorella, che la notte passata ha guardato il film “Padrona del suo destino” un film basato sulla vita di Veronica Franco, sono andata a cercare informazioni su quest’ultima.

«Io sono tanta vaga, e con tanto mio diletto converso con coloro che sanno per avere occasione ancora d’imparare, che, se la mia fortuna il comportasse, io farei tutta la mia vita e spenderei tutto ‘l mio tempo dolcemente nell’academie degli uomini virtuosi…».
(Lettere familiari a diversi, Venezia, 1580)

Poetessa, sì. Ma prima di tutto cortigiana. Veronica Franco viene quindi estromessa dalla storia ufficiale. Eppure a Venezia, nel 1509, secondo i Diarii del cronista dell’epoca Marin Sanudo, c’erano 11.654 prostitute su una popolazione di circa 150mila persone. Il 10% circa della popolazione. Anche a Roma, nella città dei Papi, erano circa il 10%: 6.800 nel 1490 e 4.900 nel 1526. Le prostitute non erano solo numerose: erano anche molto visibili. E su di loro si accaniva non solo il disprezzo pubblico, ma anche la legge: tra Quattrocento e Cinquecento, la Serenissima e il Papa (a cominciare dal feroce san Pio V) emisero un numero impressionante di norme per regolare, contenere, sfruttare, punire, utilizzare la prostituzione. Si diceva già all’epoca che, grazie alle tasse pagate dalle cortigiane, i Papi avessero messo a posto mezza Roma ed edificato quasi l’altra metà.
Benché le misure riguardassero tutte le prostitute, il loro mondo era molto variegato. Veronica Franco, in particolare, fu un’intellettuale completa: scrittrice, musicista, curatrice di raccolte poetiche, saggista. Non fu un caso isolato, anzi. Ma la sua è una storia esemplare.
Veronica nacque nella città lagunare, allora una potenza mondiale. Era l’unica figlia femmina di Paola e Francesco Franco e aveva tre fratelli, Jeronimo, Horatio e Serafino. Questo le permise di condividere la loro educazione e di partecipare alle loro lezioni private. All’epoca, non si usava andare a scuola: la frequentavano soltanto il 4% delle ragazze e il 26% dei ragazzi, secondo dati del 1587. L’educazione dei ragazzi, laddove era prevista, era affidata a insegnanti privati, e soltanto il 10-12% delle donne sapeva leggere e scrivere.
Veronica raggiunse un ottimo livello culturale: segno che dovette continuare a studiare per proprio conto e far tesoro di tutto quello che apprese nei circoli culturali veneziani nei quali fu ammessa. A cominciare da quello, importantissimo, di Domenico Venier, suo pigmalione e mecenate.
La famiglia di Veronica apparteneva alla classe dei “cittadini originari”, un livello sociale a metà strada tra i nobili e il popolo. Ma lei faceva la cortigiana: era il mestiere della madre ed era stata istruita da lei. Non era una prostituta qualsiasi: in teoria aveva una clientela selezionata. Eppure, nelle sue Lettere, nel rispondere a una madre che intendeva avviare la figlia alla prostituzione, scrisse: «S’ella diventasse femina del mondo, voi diventereste sua messaggiera col mondo e sareste da punir acerbamente, dove forse il fallo di lei sarebbe non del tutto incapace di scusa, fondata sopra le vostre colpe». Il che fa pensare che nutrisse rancore verso sua madre: si cominciava da bambine a prostituirsi e non doveva essere una bella esperienza.
Secondo la prassi, Veronica fu data in sposa, quasi adolescente, a un medico, Paolo Panizza. Si separò da lui a 18 anni, quando partorì il figlio avuto da Iacomo o Giacomo di Baballi, il più ricco mercante di Ragusa, oggi Dubrovnik. Sappiamo della separazione perché nel primo testamento, che le donne usavano fare prima del parto, chiese alla madre di riprendersi la dote. I clienti di Veronica erano nobili, prelati, intellettuali e artisti. Nel 1574 vi si aggiunse Enrico di Valois, che dalla Polonia, di cui era re, stava andando a Parigi, per salire sul trono di Francia con il nome di Enrico III. La Serenissima lo accolse con 11 giorni di festeggiamenti, organizzati da artisti come Andrea Palladio, Andrea Gabrieli, Paolo Veronese e il Tintoretto. La Franco non fu soltanto il “regalo” di una notte offerto dalla Repubblica a un prezioso alleato, ma anche, visto il suo acceso nazionalismo, una spia virtuale: le cortigiane potevano approfittare dell’intimità per carpire segreti di Stato a clienti e stranieri di passaggio.
Benché Veronica Franco non si sia quasi mai mossa dalla sua città, se non per un pellegrinaggio a Roma, in occasione del Giubileo del 1575, e per qualche viaggio di “affari” in Veneto, la sua vita è stata ricca di eventi e colpi di scena. In particolare: la sfida con Maffio Venier; il processo davanti all’Inquisizione e la proposta di aprire un istituto per le ex-prostitute.
La sfida con Venier è piuttosto singolare. Venier, poeta vernacolare di antica e potente famiglia, ma uomo inquieto e impulsivo, insultò Veronica in alcuni versi anonimi. La accusò di essere marcia di sifilide – in realtà fu lui a morirne nel 1586. In principio Veronica pensò che l’insulto venisse dal cugino di Maffio, Marco, il suo più celebre (e celebrato) amante che poi sarebbe diventato bailo, ossia ambasciatore, di Venezia a Costantinopoli. Scoperto il vero autore dei versi ingiuriosi Veronica lo sfidò prima a un duello d’armi e poi in una gara di versi. Maffio non accettò la sfida e quindi a noi rimane solo il ritratto di un uomo di sorprendente volgarità (Veronica attribuiva il suo odio per le donne all’omosessualità), che invece la critica letteraria continua a esaltare come grande poeta.
Nel processo davanti all’Inquisizione, che si aprì nell’ottobre del 1580, Veronica fu accusata dalla servitù, che forse cercava così di coprire alcuni furti, di praticare la stregoneria, di mangiare pollastri, uova e formaggi nei giorni di magro e di tenere una bisca in casa. Accuse così potevano condurre al patibolo. Veronica si difese da sola e fu assolta. Noi conserviamo gli atti del processo che oggi ci appaiono invece come un’accusa contro una società misogina e bigotta, che non considerava né peccato né reato, per esempio, che Maffio Venier si comprasse la carica di vescovo di Corfù e la sfruttasse per arricchirsi, o che Marco Venier fosse incaricato di uccidere un presunto traditore della Serenissima, senza sottoporlo a giudizio. Né che i nobili struprassero in gruppo le cortigiane. Ma trovava meritevole di morte una donna che mangiasse carne di venerdì.
Quanto alla fondazione di un Ospizio del soccorso per ex prostitute, Veronica avrebbe voluto utilizzare parte dei patrimoni delle cortigiane più ricche, morte senza fare testamento, soprattutto durante la grande peste del 1575-76. L’ospizio di Veronica non si fece. Se ne crearono altri in cui le ex cortigiane furono di fatto recluse: per “salvarle” occorreva punirle.
Ripescata dalla critica letteraria da oltre un secolo e apprezzata da Benedetto Croce, Veronica Franco sconta però ancora una condanna all’oblio che cancella non soltanto i suoi meriti artistici. Ma anche le sue moderne intuizioni: per esempio Veronica rivendicava la dignità di qualsiasi persona, perfino di chi vende il proprio corpo. «La vergogna – diceva – è nell’alterigia di chi compra».

http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/veronica-franco/


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