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Via i sacchetti di plastica, leggi confuse e imprese a rischio

Creato il 22 gennaio 2011 da Lalternativa

L’unica certezza per il momento sembra essere l’incertezza. Un mare di vecchia plastica non biodegradabile sta soffocando le aziende produttrici di imballaggi, che dal 1° gennaio scorso devono fare i conti con la definitiva entrata in vigore della norma che mette al bando gli imballaggi inquinanti per sostituirli con quelli biodegradabili.

Un percorso cominciato in Italia con la Legge Finanziaria del 2007, ma che era già stato avviato in sede europea con la direttiva 94/62 del 1994 e la successiva normativa EN 13432 del 2002, che la completava: i commi 1129 e 1130 della Finanziaria prevedevano l’avvio di un programma sperimentale per la riduzione progressiva della produzione di buste di vecchia generazione finanziato con un milione di euro, per arrivare alla completa messa al bando a partire dal 1° gennaio 2010. Un milione di euro che, stando a quanto affermato dalla Federazione Gomma Plastica (facente capo a Confindustria), mai sarebbe arrivato nelle tasche delle imprese, le quali anzi sarebbero costrette a spendere circa 20mila euro a macchinario per avviare la riconversione della produzione: “Una spesa – dicono dalla Federazione – che le aziende più grandi possono sostenere per il momento, mentre quelle piccole (e sono la maggioranza) sono a rischio di cassa integrazione per gli operai o addirittura di chiusura”.

Mancherebbero inoltre i decreti attuativi, nonostante l’entrata in vigore della norma abbia già subito la proroga di un anno (al 1° gennaio di quest’anno). In Italia le aziende produttrici di imballaggi sono un centinaio (dati della Federazione Gomma Plastica, che non includono quelle eventualmente iscritte solo a Confapi o non iscritte ad alcuna associazione di categoria), per un totale di circa 5mila dipendenti: “Stiamo aspettando risposte dai Ministeri dell’Ambiente e dello Sviluppo Economico (rimasto vacante per 5 mesi nel 2010, dopo le dimissioni di Claudio Scajola) – fanno sapere dalla Federazione – per il momento non ci hanno ancora detto come muoverci. Le aziende vogliono solo che sia fatta chiarezza”.

Ma il problema, a quanto emerge dalla protesta dell’associazione di categoria, non riguarda soltanto i costi della riconversione dei macchinari. Le aziende, infatti, non sarebbero in condizioni di lavorare perché non possono usare le giacenze di materiale già acquistato in quanto ormai considerato fuorilegge, ma nello stesso tempo non riescono a procurarsi il biopolimero, la materia prima biodegradabile necessaria per fabbricare i nuovi sacchetti: “Nonostante la situazione sia ancora nebulosa per la mancanza di una normativa chiara – afferma la Federazione – gli imprenditori hanno paura di usare il vecchio materiale e si stanno affannando per comprare il biopolimero, che però in Italia viene venduto da una sola azienda: il resto viene comprato all’estero, ma è diventato quasi introvabile, oltre ad essere circa 3 – 4 volte più costoso della materia prima tradizionale. Per questo le aziende rischiano di fermarsi e anche i produttori stranieri di biopolimero sono preoccupati di perdere i clienti italiani”. I sacchetti biodegradabili, invece, costano tra i 15 e i 20 centesimi.

Secondo quanto ci ha detto la Federazione Gomma Plastica, non esisterebbe alcuna norma europea che imponga il divieto di commercializzazione dei sacchetti tradizionali, anzi la direttiva 94/62 vieterebbe di mettere fuorilegge gli imballaggi riciclabili, riutilizzabili e recuperabili. Questa però appare come una contraddizione: se un sacchetto è riciclabile perché dovrebbe essere dichiarato fuorilegge? Inoltre non si vede la necessità di una norma specifica che vieti la commercializzazione dei sacchetti tradizionali, visto che le direttive europee indicano i parametri di biodegradabilità obbligatori per i sacchetti.

Ma come si stanno comportando, di fatto, i rivenditori? A Bari la situazione è variegata: grandi catene nazionali come l’Ipercoop hanno già da tempo avviato un percorso di progressiva eliminazione dei sacchetti tradizionali, per sostituirli con grosse borse in tela plastificata, riutilizzabili molte volte; i piccoli supermercati a conduzione familiare, invece, stanno ancora smaltendo le scorte di vecchi sacchetti.

Da un lato, dunque, le ragioni della tutela dell’ambiente. Dall’altro quelle dei produttori e della tutela dei posti di lavoro. Entrambe valide. Che serva una vera chiarezza legislativa è fuori discussione, ma c’è anche un altro aspetto. Siamo proprio certi che non sia economicamente più conveniente sostenere i costi della riconversione al biodegradabile adesso, nonostante il periodo di crisi, piuttosto che quelli della bonifica e dello smaltimento dei rifiuti con il passare del tempo, quando l’inquinamento e il prezzo ambientale da pagare in termini di qualità del territorio, della vita e della salute potrebbe non essere più sostenibile?

Antonella Paparella


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