Qualcuno sostiene che viaggiare non gli interessa, ma noi tendiamo a dubitarne. Naturalmente il fascino dell’esplorazione, anticamente intesa, è svanito da un pezzo: orde di turisti si aggirano per il mondo, noi ne facciamo parte e non ci ammanteremo di albagia.Nondimeno la nostra mente ci spinge a muoverci, se non fisicamente, quantomeno con il pensiero: un desiderio è già un viaggio, ci porta verso il destino che aneliamo, che poi si riesca a raggiungerlo o meno.
Ebbene, vorrei parlare della mia prima esperienza: una banalità inaudita, il viaggio di nozze! Gli amici, o quelli che da allora ancora resistono, ne rammentano sorridendo il resoconto che fu pari a un incubo, poiché non ci stancavamo di effonderci su quello che avevamo visto: parliamo di circa trent’anni fa.
Non ci eravamo mai mossi dall’Italia e ci buttavamo addirittura sugli States. Tutto era organizzato da uno di quegli ottimi tour operators di grande reputazione, che provvedono a riempirti ogni minuto della vacanza, anche se poi la pianificazione si rivelò difettosa e si dovette rivedere il programma, ma…non è questo che conta. Ciò che davvero colpì, e che ancora personalmente non riesco a scacciare, è la sensazione primaria, l’impatto all’arrivo a New York City. Se parafrasare Conrad non è blasfemo, capii dunque che viaggiare è cercarsi.
Allora le parole non sembravano consumarsi in fretta come oggi. I media esistevano, ma erano meno invasivi e non esisteva il web. Dirsi cinefilo significava aver assaporato i fotogrammi di “Serpico” o “Taxi Driver” come se quella fosse stata la nostra vera vita; e chi ha oltrepassato gli “anta” ricorderà il batticuore dei lunedì sera, quando la RAI ci regalava il filmone settimanale.
Dirsi cinefilo significava aver assaporato i fotogrammi di “Serpico” o “Taxi Driver” come se quella fosse stata la nostra vera vita.
Io, la ragazza naif e pronta a tuffarsi nell’ignoto, trascinavo un neomarito meno compreso ed entusiasta, cui dovettero apparire un po’ folli le mie esternazioni: ma erano sincere e, se l’unione poi non è durata, egli ancora sicuramente le ricorda. Aver viaggiato insieme unisce, in un certo senso, per sempre.
Così avvenne che, all’approdo notturno, l’avvicinarsi di Manhattan mi apparve come il profilo di un fumetto, di una Paperopoli dove tutto era irreale e non esistevano umani, ma personaggi pronti a soddisfare le mie fantasie: era lì, aspettava solo me.
A ogni isolato, cantone, prospettiva, citavo una pellicola. Tutto mi stupiva, anche se non avevo mancato di documentarmi; spiavo i segni del malessere nei tanti ipernutriti che circolavano o nei visi degli afroamericani la cui sorte mi aveva commosso in “Radici”, ma lì nulla era come sembrava e il disagio era sopraffatto dai bagliori dei grattacieli, prime fra tutti le Twin Towers: belle da morire da vicino, schegge di palazzi veneziani o minareti dell’arroganza a stelle e strisce, e il mondo ai tuoi piedi, nell’aura rosata del tramonto, quando vi salii.
Nè da meno risultò il passaggio nella sognata in California, in altri termini la realizzazione di quella già vecchia cover dei Dik Dik: le strade di San Francisco battuta dal vento, le “Seventeen Miles”, Carmel e Monterey scenari di tanti film di Clint Eastwood; più a sud, a Los Angeles, Studios e ville di Beverly Hills non potevano deludere, soprattutto quando di sera ne uscivano i liftati occupanti vestiti a festa o le graziose “girls”, oggi protagoniste di reality satellitari, col cagnolino e il moroso di turno.
E ancora, turbò non poco verificare che Las Vegas, non ancora stravolta dalla riproduzione di castelli e piramidi, era rimasta la stessa di Bugsy Siegel, da lui voluta nel dopoguerra, tomba sua e di tanti gangsters, che, si sussurrava, erano seppelliti nel deserto circostante, che tendeva a mangiarsi le strade; e ancora, casinò pieni di anziane, ruderi in minigonna che tiravano a campare servendo ai tavoli con l’artrite, il Ceasar’s Palace e l’impressione che Sinatra e Dean Martin potessero far capolino da un momento all’altro, resero ancora più duro staccarsi da quel set immaginario, più malinconico il ritorno.
La malattia che mi contagiò, forse per sempre, si potrebbe definire nostalgia strutturale
Ecco, la malattia che mi contagiò, forse per sempre, si potrebbe definire nostalgia strutturale: dopo, non feci che tentare di riafferrare le sensazioni di quella prima volta, impresa destinata al fallimento e replicata, casomai, quando ormai disperavo di coglierne ancora uno sprazzo, molto tempo dopo, all’atterraggio nell’Africa nera: ma ero già molto, molto cresciuta e fu come il breve sogno di un febbricitante.
Però, non tutto è perduto. Finite le illusioni; fatta, volente o nolente, la cernita di ciò che non serviva o non contava più, è rimasta l’essenza della ricerca: il sogno. Finché ne hai uno, anche uno solo, ogni viaggio, pur corto, sarà una scoperta, la svolta che ti aspettavi, fino al prossimo smacco: ma io no, non mollo.