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Viaggio in Maremma, di Marco Grassano

Creato il 13 agosto 2011 da Fabry2010

Viaggio in Maremma, di Marco Grassano

Reportage di Marco Grassano tratto dal sito di viaggi e cultura Alibi Online, dove, oltre a questa, sono presenti anche altre foto dell’autore.

Toccammo l’Ombrone: non è un trascurabile fiume,
bocca sicura per le navi trepidanti,
tanto accessibile è il suo alveo sempre prono
quando sul mare si abbattono tempeste.
Tracciammo un campo notturno sulla spiaggia,
un boschetto di mirti offre il fuoco alla sera.
Facciamo piccole tende con i remi
E un palo di traverso, tetto improvvisato.
(Rutilio Namaziano, Il ritorno)

Prima di arrivare a Grosseto ci siamo fermati a visitare le rovine di Roselle. Il sito appare un po’ trascurato rispetto a come lo vidi nel 1999 (segno evidente del taglio di fondi patito dalle Soprintendenze), con molta erbaccia che ne limita la leggibilità, ma merita comunque la piccola deviazione. I pavimenti a mosaico suscitano non poche emozioni di “cortocircuito temporale”, come pure la pavimentazione di marmi versicolori della Basilica dei Bassi. L’anfiteatro, nel quale sono posizionate alcune file di sedie per qualche spettacolo, conserva un’acustica assai efficace: le voci riecheggiano e si diffondono naturalmente, senza sforzo per il parlante. Le cicale sono ancora poco sonore, sparse a piccoli gruppi, e si odono lontane (probabilmente manca qualche giorno perché si possa dire, con Virgilio, che “rompono gli arbusti col canto”). Forse per motivi strategici, o forse per ragioni sanitarie, la città era stata costruita sulle alture, e dal Foro, dove si incrociano il decumano e il cardo (la cui pavimentazione appare solcata dal passaggio costante dei carri, che ne ha consumato le pietre piatte), si gode una bella visione della pianura sottostante.

Arriviamo ad Alberese, all’agriturismo “Al Vermigliano”, in fondo a via Sorbino (una stradina dritta e piana, fiancheggiata da campi lavorati e da ulivi di piantumazione abbastanza recente). La luce è quella morbida del tardo pomeriggio, e conferisce al paesaggio circostante toni dorati e pastellati. Ci alloggiamo nella camera “Il girasole”, che dà sul giardino e sulla veranda aperta dove si consumano (in piacevole conversazione) i pasti comuni. Il cibo, cucinato dalla signora Rosaria con ingredienti tutti di produzione propria (dalle carni alle verdure all’olio), è squisito, sano e invitante. Lo stesso per il vino e le grappe, fantasiosamente aromatizzate e servite dal marito Fausto (che, come un po’ tutti in questo paesino, è di origine veneta, figlio di coloni arrivati per la bonifica all’inizio degli anni Trenta). Scopriamo che gli altri ospiti sono degli habitués: da anni vengono a trascorrere le vacanze qui, perché si trovano bene. Arrivano un po’ da ogni parte d’Italia: Venezia, Milano, Mantova, Genova, Sasso Marconi, Roma, Teramo… adesso anche noi, dalla grigia Alessandria.

Al mattino, dopo una robusta colazione (torte, biscotti e pane fatti in casa, marmellate varie di frutta prodotta nell’azienda, miele delle loro api…), affrontiamo i primi due percorsi naturalistici A5 (faunistico) e A6 (forestale), che imbocchiamo di fianco alla chiesa. Cespugli mediterranei (rovi molto alti, mirti, ginepri, corbezzoli, ginestre…) e varie specie del genere Quercus (lecci, roverelle, cerri, querce, sughere…), pini domestici (a ombrello), pini marittimi (a chioma piramidale), aceri trilobi. Pochi gli esemplari secolari, evidentemente perché le piante venivano comunemente utilizzate come legname. Le ghiandaie giocano a rimpiattino con noi, precedendoci lungo il sentiero. Una famiglia di cinque caprioli (tre adulti e due cuccioli) passeggia all’ombra. Una coppia di daini rumina sdraiata vicino all’area didattica (panche ricavate da tronchi caduti, cartelli esplicatori, un “gioco” per imparare a riconoscere gli alberi dalla corteccia e dal legno…) dove qualche cretino ha abbandonato per terra cartoncini di bevande vuoti.

La terra è rossa. Un ginestreto mostra esemplari straordinariamente grandi per i nostri standard, quasi degli alberelli. Un neonato di capriolo dorme sul sentiero, forse in attesa della mamma: evitiamo di toccarlo, per non “comprometterlo” col nostro odore e provocarne l’abbandono. Ci avviciniamo al bosco fitto, rasentando ulivi altissimi, perché mai potati. Dal suolo sale un aroma incensato e caldo, un resinoso odore “mediterraneo”, misto di menta selvatica e di cespugli al sole. Le cicale cantano qua e là sulle querce e sugli ulivi, prima dell’ingresso aperto nel muro di pietra. Ma nel bosco le cicale non ci sono, si possono sentire solo se si rimane sul bordo, accanto alla cinta. Cartelli informano sulla flora (leccio, cerro, orniello, mirto, fillirea, sughera, lentisco, roverella, stracciabrache, corbezzolo, terebinto – in realtà, di stracciabrache, Smilax aspera, ne vediamo un solo, stento esemplare; in compenso notiamo, vicino al muro, un curioso ibrido cerro-sughera, Quercus crenata) e sulla fauna (astore, ghiandaia, allocco, biancone, colombaccio, gatto selvatico, capriolo, daino, vipera, riccio, cinghiale). I ginepri, come i rovi e le ginestre osservati prima, sono molto più alti e grandi dei nostri appenninici.

Prendiamo la corriera e arriviamo alla spiaggia di Marina di Alberese. Le cicale sono sonorissime nella fascia di pini domestici solcata da canali di deflusso. Nel cielo passano regolarmente gli aerei militari della base di Grosseto. Il lido è naturale, per cui la sabbia grigia digrada poco a poco nel mare e il fondale rimane basso a lungo, ondulato dal fluire e rifluire dell’acqua così come la sabbia asciutta è lievemente ondulata dal vento. Le conifere più esterne appaiono “bruciate” o seccate (senza più foglie) dall’aria salmastra che arriva dal largo, e la spiaggia è costellata di tronchi e di grossi rami calcinati. Spesso, questi legni biancastri vengono ammassati dai bagnanti a costituire ripari o piccole capanne, o piantati in quadrato per appendervi dei teli. Anche l’asfalto si interrompe bruscamente, quasi in precedenza arrivasse più avanti e fosse franato. L’Isola del Giglio e l’Argentario si scorgono come sagome diffuminate ad una distanza che non è possibile calcolare. Le cicale si odono anche dalla spiaggia, ma acusticamente prevalgono lo sciabordio delle onde e le grida allegre dei bambini che sguazzano.

Il “punto di ristoro” per bere e mangiare è nascosto nella pineta, e lo si raggiunge attraverso un sentiero delimitato da una palizzata e serpeggiante in un fitto sottobosco mediterraneo. Dovunque, cestini per la raccolta differenziata dei rifiuti: umido, carta, plastica e vetro, indistinto. Mentre siedo su un tronco, nel tratto dominato dalla torretta di osservazione del bagnino, mi si posa sulla gamba un piccolo esemplare di Calosoma sycophanta, coleottero dai magnifici riflessi metallici azzurro-verdi e ramati che mi soffermo ad osservare a lungo mentre cammina su e giù battendo alternativamente le antennine come un cieco il suo bastone, per esplorare il terreno.

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Stamattina affrontiamo il percorso guidato A2, quello delle torri di avvistamento, lo stesso che avevamo seguito, con la scuola media di Castelnuovo Scrivia, dodici anni fa. Siamo una ventina di persone, accompagnate dalla guida Paola. Un autobus giallo ci porta fino al punto di partenza di Pratini, non accessibile ai mezzi privati. Ci addentriamo nel bosco, salendo gradualmente verso la Torre di Castel Marino. Paola ci spiega che mentre il capriolo italico qui non ha subito ibridazioni, il daino è stato introdotto, dalla tenuta presidenziale di San Rossore, una sessantina di anni fa, e il cinghiale attualmente presente è quello, grosso e assai prolifico, originario di Polonia e Ungheria, che ha soppiantato la piccola varietà autoctona. Anche il falco pescatore è sparito, da una quarantina d’anni, per opera di una caccia non controllata (gli esemplari successivamente avvistati erano solo di passaggio); ora si sta cercando di reintrodurlo con pulcini prelevati in Corsica, messi a crescere nella voliera dell’Ombrone, senza contatti con l’uomo, e poi liberati. Una prima coppia ha già nidificato sul fiume, e ne sono nati due piccolini.

Avvicinandoci alla torre diroccata osserviamo dall’alto il pascolo naturale di Piana dei Cavalleggeri, costellato di rustiche vacche maremmane allo stato brado, e la pineta granducale verso Marina di Alberese, tagliata da un canale e solcata da un sentiero (in questo momento, percorso dalla carrozza per turisti trainata da due cavalli). Questo folto di pini domestici risale al 1838, una decina di anni dopo l’avvio della bonifica, ma già Rutilio Namaziano, nel suo poema Il ritorno (De reditu suo), annota di essersi fermato lungo il tombolo (la linea di dune costiere, dal latino tumulus) e descrive un bosco ben ordinato, probabilmente una pineta.

La vegetazione nella quale ci muoviamo appare selezionata dalle attività umane (in particolare, mostra l’effetto del taglio a raso per la produzione del carbone; ogni tanto, qualche ulivo segnala una precedente, diversa destinazione dell’area), e i sentieri sono ancora quelli tracciati da taglialegna, cacciatori e carbonai. I carbonai maremmani provenivano dall’Appennino; nel bosco si possono vedere le radure circolari dove, fino a una settantina di anni fa, erano soliti allestire i loro “campi di lavoro”. Quando ritornavano alla vita civile, sporchi di fuliggine, diventavano “l’uomo nero” con cui spaventare i bambini.

Numerosi i lentischi (Pistacia lentiscus); questa anacardiacea, parente stretta del pistacchio, aveva una molteplice utilità: le sue foglie secche venivano usate per concimare, con la sua resina si produceva il mastice di Chio (gomma da masticare disinfettante usata dai Romani), dalla corteccia si ricavava il tannino per la concia delle pelli, la cenere delle foglie serviva come sapone disinfettante, spremendone i semi si otteneva un buon olio commestibile. Parecchie querce. Anche il ciclo riproduttivo del cinghiale segue l’andamento delle ghiande (più ce ne sono a disposizione, più spesso gli animali hanno l’estro). Verso sud, sul promontorio che ripara Cala di Forno, si vedono la Torre in rovina e, dietro, la stazione doganale del ‘700, ma le visite in estate non vi sono permesse, per via del rischio incendi. Sull’altura qui accanto, invece, la Torre di Collelungo (che raggiungeremo poi, scendendo in spiaggia e risalendo).

La Piana delle Caprarecce, in basso, è un ex pascolo bovino e caprino. Le scogliere sulle quali ci troviamo rappresentano l’antica linea di costa, in calcare massiccio con fenomeni di carsismo (grotte e cavità, ove si trovano alcuni dei siti archeologici più antici della Toscana, come la Grotta della Fabbrica, nella quale si producevano attrezzi, o la Grotta dello Scoglietto, in cui sono stati rinvenuti crani forati e con tracce di ricrescita del tessuto osseo che ne denotano la probabile funzione di primitivo ospedale). Scendiamo dal promontorio della torre attraverso un sentiero quasi precipite. In fondo, una radura circondata da pini domestici e cosparsa delle loro grosse pigne da pinoli. Su un tronco secco coricato, la patetica carcassa di una piccola testuggine d’acqua, Emys orbicularis, specie autoctona sempre più minacciata dalla presenza di esemplari di tartaruga americana “restituiti alla natura” da anime pie che, dopo averli orgogliosamente acquistati, si sono stufate di tenerli in casa. Ai piedi delle rupi calcaree crescono fitti mirti e piante di liquirizia, e si arrampicano viti selvatiche (discendenti di quelle introdotte dai benedettini nell’undicesimo secolo). Una larva di cicala si affaccia dal terreno, dopo esservi rimasta per tre anni. Attorno, la terra appare smossa, rivoltata dai cinghiali che la frugano in cerca di cibo. Qualche scoiattolo sugli alberi. Nel canale solo pesci e qualche rana; non si vedono nutrie (ma ci sono), mentre le lontre mancano dagli anni Settanta.

Arriviamo al tombolo. Consulto gli appunti del 1999. La pianta che “costruisce” le dune è l’Ammophila arenaria; strappandone le fronde e accumulandole, i cinghiali si costruiscono la “lestra” (cuccia) per figliare. Andando dal mare verso terra, la prima pianta che si può incontrare è il cachile, poi l’euforbia, poi l’ammofila, la camomilla, l’elicriso, il giglio di mare (o pancrazio), poi i cespugli di ginepro coccolone mescolati a quelli di rosmarino – profumatissimo! – e infine i primi alberi (la successione riportata nella guida tascabile redatta dal Parco è un po’ diversa: peplide, sporobolo, euforbia marittima, eringio marino, sparto pungente, camomilla marina, erba medica marina, giglio di mare, ononide, stecade citrina, ginepro coccolone, pino domestico). Le dune sulle quali si è già depositato uno strato di terriccio vengono definite “dune fossili”. Notiamo escrementi di cinghiale e di coniglio selvatico. Una grotta marina si apre nella parete rocciosa, sulla spiaggia. Saliamo verso la Torre di Collelungo e la raggiungiamo: appare ristrutturata di recente, ma non è accessibile. Verso sud, la falesia si fa rossastra, tipo “costa francese”. Qui sotto sono stati trovati i resti di un porticciolo per velieri, attivo fino al diciottesimo secolo. Si avverte un forte aroma di rosmarino selvatico. Un cartello illustra il vicino “Paduletto”.

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Nel pomeriggio, non essendo praticabile l’itinerario A4, percorro tutta la spiaggia verso sud, fin dove questa, poco prima della Cala di Forno, viene interrotta, contro il mare, dalla falesia rossa, in un punto che pare un cumulo di piccoli sassi grigi a spigoli vivi. Cercando di prelevarne uno ci si accorge però che sono saldati o incollati fra loro dalla stessa materia scabra e rossastra che costituisce la roccia principale. Il cielo è puro, tranne che per qualche lieve nuvoletta che indugia sui ciglioni meridionali, ma la luce appare meno abbacinante che ad Assisi, e si stenta a distinguere, nella foschia del mare, Argentario e Isola del Giglio.

Facciamo il giro in “carrozza”: in realtà un carro che ricorda vagamente quello dei pionieri americani, eccetto che per le ruote, più piccole e gommate. Ci trainano le cavalle Flora e Selva, di razza italiana, muscolosi animali adatti per il tiro pesante rapido (TPR). Il cocchiere è Raul e la guida Enrico.

Mentre trottiamo per la campagna, vediamo in azione alcune pompe a vento per l’estrazione dell’acqua (brevetto di un grossetano che ha avuto successo anche oltreoceano), rasentiamo cavalli e bovini, che pascolano accompagnati – come avviene, poco oltre, ai daini – da aironi guardabuoi (con i quali vivono in simbiosi: gli erbivori alzano gli insetti di cui l’airone si ciba, e questo li libera dai parassiti), osserviamo lepri orecchiute nascoste fra i girasoli e una complessa gabbia per la cattura dei cinghiali.

Nel Bosco del Luccio, che attraversiamo, lo scorso anno sono nati due lupacchiotti; è anche zona di caccia per la poiana e per il biancone. Vediamo pungenti cespugli di marruca, detta lacrima Christi (perché con essa sarebbe stata intrecciata la corona di spine): una pianta palestinese importata per delimitare i pascoli (ma doveva essere già nota ai Romani, al punto di ispirare il cognome di Asinio Marrucino). I cardi mariani stanno per fiorire: il viola dei petali si affaccia già sulla loro cima. Il muro di pietra alla nostra sinistra è lo stesso che, dall’altra parte del colle, delimita il bosco del percorso A6, e infatti è lungo undici chilometri. Sulla roccia, un olivo bonsai. Sfioriamo un pero selvatico armato di spine, ed osserviamo, sui pendii esposti ad ovest, cespi di giovani ginestre ancora abbondantemente fiorite. In un fosso vicino al viale rettilineo che conduce a Marina di Alberese, un esemplare di testuggine comune, Testudo hermanni: viva, almeno speriamo.

Andiamo in macchina a Talamone, per visitare l’interessante acquario dedicato alla fauna ittica locale. Saliamo poi alla Torre ed osserviamo la laguna di Orbetello. Sotto, a destra, una variegata scogliera riluce sulle onde che la bagnano. Torniamo ad Alberese attraverso un percorso di stradine perse nella campagna piatta. In un grande canale, al nostro passaggio, un airone cinerino si invola e alcune anatrelle si tuffano. Inerpicate sui rilievi a sinistra, anche se curiosamente rivolte verso l’entroterra, alcune torri, non sappiamo se di avvistamento o altro.

Raggiungo Marina di Alberese in bicicletta, seguendo la bella pista che inizia lungo la provinciale bordata di ulivi e poi svolta a snodarsi nella pianura tra pascoli e canali di deflusso. Scatto qualche foto, in particolare ad una piccola volpe praticamente domestica che viene ad accucciarsi di fronte a me, contro la spalliera in mattoni di un ponticello. Le cicale stridono a tutta forza sui pini.

Percorro a piedi il recentemente asfaltato e un po’ monotono sentiero A7, fino al tratto terminale del corso dell’Ombrone. Si vedono, da entrambi i lati del sentiero, le tracce dell’alluvione dello scorso autunno, durante la quale è andato distrutto l’osservatorio ornitologico in legno (ne rimane un cumulo informe di assi e travi). Ritorno seguendo l’argine di protezione appena realizzato e quindi la spiaggia. Un capanno si nasconde tra i viluppi della vegetazione, a ridosso della riva del fiume e quasi in corrispondenza della foce. Uno stormo di garzette si leva, al mio approssimarsi, da uno stagno fangoso sul lato interno e va a posarsi qualche decina di metri più in là. Un gabbiano morto dondola a becco aperto sulla battigia. Rientrando, mi fermo a scattare qualche immagine dei canali (un modesto omaggio Luigi Ghirri) e a fissare uno scorcio di roccia sormontata da cespugli xerofili e sottolineata da canne palustri.

Prima di cena passeggio nell’agriturismo, salutando mentalmente i tre cigni neri che emettono, dallo stagno vicino alla piscina, il loro strano verso, le rane che si zittiscono e si immergono con circospezione per osservarmi, le caprette, i conigli, le galline, i due cani (quello più grande, nero, e l’affettuoso lupetto dalle gambe corte), i due gatti (il maschio selvatico e la femmina, incinta e coccolona). Mentre mangiamo, il sole tramonta rosso sulla campagna bonificata e colpisce, con gli ultimi raggi, i volti di alcuni commensali.

Più tardi, al buio, vado a sedermi su una delle panchine della “Via dell’Amore”: un vialetto di ulivi intervallati a ginestre, allori, mirti, lavande selvatiche pallide e grigiastre, piccoli rosmarini. Un paio di lampadine abilmente disposte rende una luce tenuissima, che consente di camminare in sicurezza ma che non disturba minimamente la contemplazione del cielo spolverato di stelle. La visione è nitida, precisa, circolare: la volta celeste si mostra in tutta la sua stupefacente profondità e minuzia, dagli astri più grandi a quelli che paiono polvere o fumo.

Mi ci ero già seduto nel primo mattino, dopo aver camminato sull’erba falciata fino ai filari di vigna dai quali la sempre attiva Rosaria aveva appena reciso i pampini più bassi, in modo da permettere ai grappoli pendenti, fitti e grossi, di essere raggiunti dal tocco maturatore del sole. E vi avevo letto alcuni grandi versi di Leopardi, lucidamente anticipatori di questa visione serale:

Seggo la notte e su la mesta landa
in purissimo azzurro
veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
cui di lontan fa specchio
il mare, e tutto di scintille in giro
per lo voto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
ch’a lor paiono un punto,
e sono immense, in guisa
che un punto a petto lor son terra e mare
veracemente; a cui
l’uomo non pur, ma questo
globo ove l’uomo è nulla,
sconosciuto è del tutto; e quando miro
quegli ancor più senz’alcun fin remoti
nodi quasi di stelle,
ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
e non la terra sol, ma tutte in uno,
del numero infinite e della mole,
con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
o sono ignote, o così paion come
essi alla terra, un punto
di luce nebulosa…

Marco Grassano



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