Magazine Viaggi

Viaggio in Turchia (1) : da Istanbul al monte Nemrut

Creato il 05 marzo 2014 da Patrickc

Verso est e ritorno, attraverso l’Anatolia. Primo capitolo di un viaggio di qualche anno fa (ma le informazioni sono ancora valide)

La vetta del Nemrut Dagi (foto di Patrick Colgan)

La vetta del Nemrut Dagi
le foto sono tutte del 2005, scansionate da pellicola
(foto di Patrick Colgan)

Colline e montagne brulle, monotone, ma ipnotiche, capaci di trattenere lo sguardo all’infinito, perché non c’è niente su cui posarlo. Poi la sorpresa spiazzante di spettacoli intensi, che appaiono quasi fuori luogo in tutto quel nulla. E poi, ancora, panorami su povertà e squallore sconcertanti quando ci si avvicina ai confini con l’Armenia o la Siria, lugubri carri armati dormienti e, infine, rovine di un altro tempo, un altro mondo che si sgretolano a opera del sole, dell’incuria e del tempo. Una sensazione di intensa malinconia, mitigata da accoglienze semplici e calorose, brevi incontri con persone che parlano di Paesi lontani lungo strade che da millenni trasportano merci, informazioni, viaggiatori fra i continenti e, infine, piccoli piaceri da attendere tutta la giornata, come far cadere una zolletta di zucchero in un tè o rifugiarsi in un hammam durante le ore più calde.

L’Anatolia per me è tutto questo e ha un posto speciale fra i miei ricordi. Perché dopo gli anni degli inter rail in giro per l’Europa è stato uno dei primi viaggi veri. Partii nel 2005 subito dopo la laurea e restai quasi un mese, da solo. Un’immersione completa e profonda, tanto che molte parole turche non le ho più dimenticate. Uno dei miei grandi rimpianti è non aver prolungato il viaggio: avevo pochi soldi e sentivo la necessità di lavorare dopo gli anni dell’università. Mi chiamavano le responsabilità, ma un’occasione così non mi sarebbe più capitata. Per essere responsabile avrei avuto tutta la vita dopo.

Viaggio in Turchia

Il mio viaggio del 2005. Quasi 6.000 chilometri fra pullman, taxi collettivi, minibus e autostop (solo fra Istanbul e Van sono quasi duemila) Mappa realizzata con http://www.scribblemaps.com

Come viaggiare in Turchia

I treni non sono molto affidabili e piuttosto lenti. Il modo migliore e più veloce per viaggiare (era così nel 2005 e non è cambiato) è sfruttando la capillare rete di pullman a lunga percorrenza, in particolare quelli notturni. Ci sono compagnie che offrono diversi livelli di servizio, ma anche senza utilizzare quelle più costose, come Varan o Ulusoy, si trovano bus di livello davvero eccellente, con aria condizionata e servizi, sedili reclinabili, che collegano le mastodontiche autostazioni (otogar). Addirittura, con un tocco tipicamente orientale, c’è spesso il té servito a bordo. Sono quelle accortezze, per noi un po’ antiche, che rendono il viaggio su lunga distanza un piccolo lusso, un evento. A parte questo, non ho mai visto pullman di questo livello in altre parti del mondo: questi moderni bus sono astronavi rispetto agli altri veicoli che spesso si incrociano nel cuore dell’anatolia: carretti trainati da cavalli, vecchi camion sbuffanti carichi all’inverosimile, contadini a cavallo di asini.

Su distanze più brevi ho comunque utilizzato anche bus e taxi collettivi locali (dolmus) e l’autostop che specie in Cappadocia, su brevi distanze, sembrava funzionare bene.

Dalla Cappadocia verso est

Camini delle fate, tipici della Cappadocia

Camini delle fate, tipici della Cappadocia

La prima parte del viaggio, nel maggio 2005, cominciò come tutti i viaggi in Turchia, da Istanbul. Qui mi ospitava Deniz, un’amica turca conosciuta all’università che mi aiutò a scoprire quella che era tornata a essere ‘casa sua’. Istanbul era una città vibrante, intensa, bellissima, in impetuosa trasformazione, nella quale era bello perdersi e sentirsi parte di quel caos vitale. Da Istanbul non sarei più voluto ripartire. Ma l’Asia chiamava. Il viaggio verso est cominciò con un pullman notturno per la Cappadocia in cui ero l’unico straniero.

Non avevo piani precisi, ma a Goreme avevo incontrato una ragazza canadese, Marie-Eve, che viaggiava verso est. Avevamo iniziato a parlare perché aveva notato il mio libro, Baudolino di Umberto Eco, abbandonato sul mio letto nel dormitorio all’interno di una grotta. Un libro che, sorprendentemente (lo avevo scelto senza saperlo), iniziava proprio con il sacco di Costantinopoli e proseguiva con un viaggio surreale verso est. Lei aveva amato il Nome della Rosa e Il pendolo di Foucalt e parlammo a lungo. Marie-eve non aveva limiti temporali, non aveva un itinerario prefissato e si spostava verso est, via terra: voleva arrivare in Pakistan e in India, ma per ora non aveva fretta. L’idea di un’esperienza del genere mi intimoriva e mi affascinava allo stesso tempo, non avevo mai immaginato si potesse viaggiare così. Questo incontro mi spinse a guardare a oriente.

La Cappadocia era bellissima, ma anche molto turistica. Goreme era una specie di grande ostello in cui si incontravano di continuo gli stessi viaggiatori (e capisco perché la Routard consigliava di alloggiare nella più vera Uchisar) e fra i camini delle fate si allineavano alberghi, agenzie, ristoranti turistici. La Cappadocia non è naturalmente  solo Goreme, le sue chiese rupestri, le sue incredibili formazioni rocciose. Ci sono moltissimi altri posti stupendi – anche senza spostarsi molto, arrivato con l’autostop nella valle di Zelve mi ritrovai all’improvviso completamente solo – ma per me era tutto da scoprire. Solo che non ne avevo il tempo: la bellezza che era intorno a me si mescolava a un senso di insofferenza, perché sentivo che era già tempo di spostarmi nuovamente.

Uchisar

Uchisar (e io quasi dieci anni fa)

Da qui volevo arrivare al monte Nemrut, che campeggiava sulla copertina della mia guida Routard e che sembrava essere uno dei siti più belli dell’intera Turchia. L’unico modo per arrivarci era con un tour organizzato. Così mi infilai nell’ufficio di una delle innumerevoli agenzie allineate lungo la strada principale di Goreme (tutte proponevano escursioni simili) e contrattai un prezzo accettabile (sui 150 euro, inclusi due pernottamenti e i pasti). Avrei fatto metà strada del col loro tour e dopo il monte Nemrut, mi sarei fatto lasciare ad Urfa. Naturalmente il minibus aveva l’aria condizionata rotta (non un bene in Anatolia dove già a maggio il caldo era intenso), ma il gruppo era piccolo e anche se eterogeneo andammo subito d’accordo. E le due guide molto capaci. E’il motivo per cui non sono contrario ai viaggi organizzati, specialmente i piccoli giri all’interno di un viaggio: se si ha un po’ di fortuna si vedono cose interessanti, si fanno incontri interessanti.

Il monte Nemrut

Monte nemrut, foto di Patrick Colgan

Il monte Nemrut si illumina, foto di Patrick Colgan

Nemrut Dağı in turco si pronuncia Daah o daahe con una e molto chiusa, perché quella ğ e quella ı non sono g e i. Per questo preferisco chiamarlo il monte Nemrut, che è quello che significa. Il modo più rapido per chi arriva da Istanbul è in areo (fino ad Adiyaman, da dove si possono trovare bus per il sito), ma io, arrivando lungo le strade tortuose e polverose dell’Anatolia, soffrendo il caldo e i sedili scomodi, sentivo di essermi guadagnato questo traguardo fino in fondo. Lo sentivo mio.

Per andare al Nemrut si fa quasi sempre base a Kahta, città di scarso interesse e grandi alberghi turistici, per quello che vidi. Per salire al monte si parte di notte, per arrivare all’alba in cima. Lasciato il minibus si sale a piedi su un sentiero roccioso, fino ai circa 2.150 metri della vetta. E anche il nostro viaggio fu così. Era freddissimo e sopra di noi c’era una volta immensa di stelle. Quando il sole sorse illuminò una valle di rocce rossastre e una lunga striscia dorata. Era il fiume Eufrate, che scorreva sotto di noi. Pensare alla storia, ai millenni di cui era stato silenzioso testimone questo fiume e a quello che avrebbe visto lungo il suo corso, quando sarebbe arrivato in Iraq (dove al tempo c’era una terribile guerra), mi faceva sentire il granello di sabbia di un’enorme clessidra, mi faceva girare la testa. O, forse, era soltanto il vuoto sotto di me che mi dava le vertigini.

La luce, come ogni giorno da oltre duemila anni, illuminò lentamente la vetta, rivelando le enormi teste di pietra degli dei greci che scrutavano l’orizzonte. Perché il monte é un grande monumento funerario eretto da Antioco I, re ellenistico del primo secolo A.C. che si fece seppellire in un enorme tumulo in cima al monte, facendosi scolpire seduto fra gli dei dell’Olimpo mentre guardava a est e ad ovest, il percorso del sole. Il tempo ha ridimensionato le ambizioni di Antioco e i corpi scolpiti, riscoperti solo nell’800 dopo secoli di incomprensibile oblio, ormai sono senza le teste, appoggiate, quasi beffardamente, decine di metri più in basso. Ma è proprio questo aspetto disordinato e in rovina a

Monte Nemrut, il lato ovest

Il lato ovest, ancora nell’ombra. Monte Nemrut

rendere questo luogo ancora così enigmatico e potente.

Con queste immagini negli occhi, che già sapevo non mi avrebbero mai più lasciato, rivolsi lo sguardo verso quell’alba fiammeggiante, cercando di immaginare cosa mi attendeva a est.

- continua


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :

Magazine