Verso est e ritorno, attraverso l’Anatolia. Il terzo capitolo di un viaggio di qualche anno fa nella Turchia orientale
Il gatto di Van ha i due occhi di colori diversi
(foto di Sara Yeomans, da Flickr cc attribution non-commercial)
La statua, da panoramio
http://www.panoramio.com/photo/3458115
L’arrivo a Van
Van mi accoglie con un cielo plumbeo che si specchia sulle mura opache di palazzi grigi e logori. C’è anche un assurdo monumento al gatto di Van, la gloria locale. E’ così brutto che sembra uno scherzo. “Cosa ci sono venuto a fare?” Mi chiedo. Il motivo è sempre quello, venire a vedere, sentirsi ai margini di una cartina, anche se spesso quello che si trova è deludente. Paul Theroux racconta diverse volte (in Dark Star Safari, per esempio) della cappa di tristezza che sembra aleggiare sui luoghi di confine: posti di transizione, sui quali gravano un senso provvisorietà e i segni di traffici, speranze inaridite, desideri che si concentrano lungo gli spessi segni sulle mappe. E poi strani personaggi, un po’ come in certe stazioni. Van non è una città di confine, ma ci va vicino: i cartelli gialli che indicano l’Iran, a cento chilometri, lo ricordano.
Sì, c’è anche il lago di Van – il più grande della Turchia, che nelle foto sorride col suo colore azzurro pallido, quasi irreale – ma il centro della brutta città è distante da quelle acque. Van non è però sempre stata così brutta. L’antica città, circondata da mura, sorgeva in riva al lago. Secondo le informazioni su wikipedia all’inizio del secolo scorso (tra 1915 e 1920) nel corso degli scontri fra armeni e turchi fu rasa al suolo e la consistente popolazione armena deportata o sterminata. Negli anni successivi fu ricostruita cinque chilometri più a est, lontano dal lago. E come quasi tutte le ricostruzioni è stata affrettata e senza criterio.
Il mio viaggio in Turchia del 2005
Cosa Fare a Van
A Van finisco in uno spettrale ufficio di informazioni turistiche, dove dopo dieci minuti di affannosa ricerca l’impiegato mi porge con evidente soddisfazione un depliant in italiano che illustra le mete e le bellezze della città. Una delle glorie è l‘abbondante colazione che viene servita nei Kavalti salonu. Ci metto un po’ a trovarne uno, ma vengo ripagato (spiegandomi a gesti) con una generosa quantità di verdure, uova, formaggi, miele. In città non c’è molto altro da fare, se non visitare uno scarno museo archeologico che ha anche una tetr zona che espone ossa e scheletri interi. Raccontano la versione nazionalista del genocidio armeno: sono i resti di turchi uccisi dagli armeni a inizio secolo.
La colazione del Gazi Vefa Van Kahvaltisi di Istanbul
Ahimè a Van nel 2005 non scattai di foto (era ancora strano fotografare il cibo)
Ma era molto simile…
Se non si dedica un po’ di tempo ad andare al centro dedicato al gatto di Van, nella zona dell’università, in città non c’è molto altro da fare. Ci si può però dirigere per esempio al castello, vicino alla riva del lago. Prendo un dolmus, un taxi collettivo dopo aver parlato con una ragazza americana che lungo i cinque chilometri di brutta periferia che arriva a cingere il castello è stata importunata e fatta oggetto di lanci di sassi da parte di ragazzini.
Il castello di Van (foto di Patrick Colgan, 2005)
Il castello praticamente non c’è più e il sito è nello stato di abbandono in cui versano luoghi del genere quando ci si sposta ai margini delle mappe. Ma lo sperone di roccia che domina il lago e fa dimenticare la periferia derelitta alle spalle è ugualmente impressionante. In effetti queste pietre, quasi tutt’uno con la roccia naturale, hanno tremila anni, risalgono all’antica civiltà di Urartu e all’impero persiano. E camminando fra i sentieri tortuosi e scoscesi ci si imbatte quasi per caso anche in una sorprendente lapide in scrittura cuneiforme fatta incidere da Serse il Grande nel quinto secolo avanti Cristo. E’ qui, abbandonata, esposta alle intemperie, seminascosta. Resto a bocca aperta.
Iscrizione cuneiforme di Serse il grande sul castello di Van (foto di Bjørn Christian Tørrissen, da Wikipedia – per il testo e altre informazioni http://en.wikipedia.org/wiki/Van_Fortress)
Ma la gloria locale è l’antica chiesa armena di Akdamar che sorge in mezzo al lago, a diversi chilometri da qui. Per raggiungerla trovo a Van in qualche modo un altro taxi collettivo che dopo un passaggio nello scalcinato paese di Akdamar, mi scarica a un imbarcadero desolato.
“Quando parte la barca?”, chiedo. “Quando è piena”, mi rispondono alzando gli occhi al cielo. Non aggiungono ‘insciallà’, ma il concetto è quello. Mi metto ad aspettare con asiatica pazienza e immotivata fiducia, ma con mia sorpresa la barca si riempie improvvisamente di famiglie che vanno a fare il pic nic, fortuanatamente è domenica. Quando la visito questa splendida chiesa che domina le acque azzurre purtroppo è abbandonata e in stato deplorevole (ora è stata riaperta e restaurata come museo). Ma non mi importa, sono sereno. Qui, in mezzo a questo lago, mi sento un puntino, perso nel grande flusso del mondo. Mi sento felice, anche se sto per girare la boa di questo lungo viaggio. Sono solo, a guardare le cime innevate dei monti e sono libero.
La chiesa di Surb Khach Akdamar
foto di James Gordon, da Flickr creative commons attribution-non commercial
Le montagne intorno a Van, ancora innevate a maggio (foto di Patrick Colgan, 2005)
A Dogubayazit
Acquisto un biglietto per la tappa più orientale del viaggio. A due ore e mezza da Van c’è Doğubayazıt, famosa per il bellissimo palazzo ottomano abbandonato di Ishak Pasa (troppo bello per un signore locale, tanto da far irritare il sultano). Il viaggio in taxi collettivo attraversa strade orlate di guardiole militari, villaggi costruiti in nudi mattoni di cemento. La città è grigia e un po’ spettrale, popolata di carri armati parcheggiati agli incroci. L’unica vita è negli internet cafè in cui ragazzini sono con triste ironia impegnati a giocare on line a videogame del genere ‘sparatutto’. Uomini baffuti giocano a backgammon sorseggiando un tè. Contratto un prezzo per il taxi e penso che già la sola visione dell’immenso profilo del monte Ararat (Ağri in Turco) che incombe sulla valle meriterebbe questo lungo viaggio.
Il monte Ararat (o Agri) da Dogubayazit (foto di Patrick Colgan, 2005) Sì quella casupola ha le parabole: è per captare programmi in lingua curda dall’estero
Il palazzo domina la valle dall’alto ed è in rovina. Ma è in rovina con grazia, come un castello delle fiabe dal quale la fata se ne è andata per un po’ ma un incanto continua a brillare per qualche strana magia. E’ attorno a questo luogo fuori dal tempo che compio il mio giro di boa e comincio a guardare verso ovest. E, da qui, la vista non è male, decisamente no.
Il palazzo di Ishak Pasha (foto di Patrick Colgan, 2005)
Il palazzo di Ishak Pasha (foto di Patrick Colgan, 2005)
nota: per scrivere questo post ho ampiamente attinto a uno più vecchio Come passare tre giorni a Van
Post precedenti
Viaggio nell’est della Turchia 1 - Dalla Cappadocia al monte Nemrut (e quali mezzi di trasporto usare)
Viaggio nell’est della Turchia 2 – Urfa e Mardin
- continua