Viaggio a Sarajevo da Bologna, prendendola larga. L’arrivo.
Tramonto su Sarajevo
A Sarajevo
Una luce dorata che inonda la città dall’alto di una collina, un caffè bosniaco preso nel chiostro di un caravanserraglio, la gente che entra la sera nella moschea chiacchierando, il sapore forte dei cevapi e quello fresco dello yogurt, palazzi sfregiati dalla guerra nei quali la vita non si è mai fermata, un bicchiere di vino croato bevuto facendo due chiacchiere nella hall dell’albergo mentre lo stereo suona la voce di Toto Cutugno sulla quale danza una nostalgia d’Italia. Sono le immagini, diverse, incogruenti come in un bizzarro caleidoscopio agrodolce, che porto nel cuore mentre lascio Sarajevo.
L’arrivo nella capitale bosniaca è però cupo e ingannevole. Sarajevo non si mostra subito nella sua bellezza e nella sua atmosfera calda, rilassata, multiculturale. Quando appare all’orizzonte, pioggia e nuvole gonfie e basse schiacciano la città sotto il loro peso. Ai lati della strada incontriamo case che cadono a pezzi. All’inizio sembrano semplici ruderi abbandonati. Poi ti accorgi che sono tutte sfregiate nello stesso mondo, graffi, ferite che squarciano i muri esterni come se fossero stati aggrediti dagli artigli di un enorme mostro. Sono le cicatrici, mai sanate dell’assedio di vent’anni fa. Quella che stiamo percorrendo è la via dei cecchini che dall’aeroporto attraversa i palazzoni di Novo Sarajevo, una delle zone bombardate in maniera più dura. La città ha una forma strana, che è stata anche la sua sfortuna: è lunga e stretta e abbraccia il fiume da ovest a est, seguendone il corso, chiusa in una conca e stretta ai fianchi da colline e montagne. Una situazione che favorì il terribile assedio del ’92-95 in cui morirono oltre diecimila persone, uccise dai cecchini o dalle granate che piovevano dalle postazioni serbo-bosniache sulle collini. L’albergo è dalla parte opposta di Sarajevo, ai margini della città vecchia e non c’è alcuna possibilità di aggirare il traffico: i quartieri vanno attraversati tutti.
L’atmosfera cambia radicalmente quando si arriva alla Pansion Vijecnica, dove veniamo accolti con calore e un sorriso. L’albergo è in posizione eccezionale accanto alla biblioteca nazionale (appena ricostruita) ai margini della città vecchia. Sulla porta c’è curiosamente un adesivo che annuncia orgogliosamente “Italiano vero”. In genere non ho voglia di incontrare connazionali in viaggio, anzi. Ma qui in effetti si respira una particolare simpatia per il nostro Paese: il gestore parla italiano (ha lavorato come autotrasportatore da noi). Ma a colpire è piuttosto il suo sottile, ma spiccato senso dell’ironia che gli consente di dare una perfetta definizione della minuscola C1 con cui abbiamo già percorso contro ogni aspettativa duemila chilometri attraverso territori impervi: “Interessante macchina”.
A piedi per la città
Le strade di Sarajevo (foto di Patrick Colgan)
Anche camminando il primo impatto non è dei migliori e sembra confermare le impressioni dell’arrivo in auto. La città si nasconde, oppressa da pioggia e freddo (non vanno dimenticati gli 800 metri di altitudine). I piedi sono zuppi e la stanchezza del viaggio si fa sentire. Ci perdiamo nelle viuzze della città vecchia, con le case basse musulmane fra le quali spuntano i minareti di moschee aggraziate, disposte attorno alla frequentatissima piazza dei piccioni. Per ripararci dalla pioggia ci lanciamo subito, spericolatamente, nella contrattazione con un elegante mercante che in italiano forbito ci vende un bel set da caffè in rame.
Vagando senza meta scopriamo quasi per caso uno dei luoghi più famosi. E l’incrocio incredibilmente angusto e affacciato sul fiume in cui il serbo Gavrilo Princip sparò all’arciduca Francesco Ferdinando il 28 giugno del 1914, la scintilla che diede il via alla spirale di violenza della Prima guerra mondiale. L’effetto è strano. Leggendo i libri di storia immaginavo un vialone, la folla ai lati delle strade… e invece qui a malapena passa un’auto. Come ricordo del fatto c’è solo una bacheca con alcune foto dell’attentato, dell’arresto di Princip e del processo, senza commento. Del resto i temi che erano controversi allora (Princip immaginava uno stato yugoslavo a guida serba) lo sono ancora oggi.
Passiamo oltre e i pensieri cupi che si sono annidati sopra le nostre teste vengono scacciati quasi subito quando sbirciamo in bar pieni di vita, incrociamo belle ragazze eleganti che vanno a cena e cominciamo a percepire una città diversa. Stremati e infreddoliti ci rifugiamo in un bar per una bottiglia della gloriosa birra locale, la Sarajevska. Ma la stanchezza è solo per il lungo viaggio. Anche se c’è la tentazione di salire sui graziosi tram che sferragliano per Sarajevo, camminare, scopriremo, è l’ideale per esplorare il centro cittadino (e non solo) che sorprende con una serie di luoghi davvero molto particolari, a partire dall’impianto della Sarajevska che sfoggia un’architettura particolare e un po’ vezzosa, da elegante fabbrica di città. Ma si scoprono anche la casa di Svrzo, una splendida abitazione ottomana perfettamente conservata e tanti posti dove fermarsi per un caffè - magari un caffè bosniaco – in mezzo agli studenti o dove mangiare i cevapi (o cevapcici), i piccoli cilindri di carne speziati che sono la specialità cittadina, che danno il massimo assieme a un kiselo mleko, yogurt da bere, leggermente acido e salato.
La casa di Svrzo
Cafe Divan
Il museo del tunnel
Dopo un ‘abbondante cena a base di grigliate di carne e vino croato – appena 15 euro – rientriamo in albergo (per un approfondimento sulla gastronomia consiglio la mia compagna di viaggio, Persorsi). L’indomani vogliamo visitare il museo del Tunnel e alla pensione ci viene proposta una guida che parla italiano. Accettiamo e la scelta si rivela felicissima: la mattina seguente Elvir si presenta di buon’ora rilassato e con un sorriso. Ci accordiamo subito sul prezzo, che comprende anche il trasporto – tutt’altro che esoso -e partiamo per il tunnel. Elvir racconta la sua vita, la fuga dalla città assediata fra i boschi del monte Igman, l’arrivo in Italia, gli anni passati a Bolzano facendo vari lavori (ha ancora la carta d’identità altoatesina). Elvir leggerà ciò che scrivo, ma glielo confesso: all’inizio ero sospettoso e non sapevo se credere a tutto quello che raccontava. Purtroppo molte guide hanno la tendenza ad esagerare o inventare di sana pianta. Ne ho trovate tante, dall’Egitto all’Irlanda ed è un atteggiamento che mi dà fastidio, che sa di presa in giro e che soprattutto è inutile.
Il sospetto è durato poco. Elvir è di una competenza estrema, risponde a qualsiasi domanda e rapisce subito con la sua capacità di raccontare, spiegare, instaurare subito un legame umano. Le sue parole trasudano passione e amore per la storia dolorosa della sua città che naturalmente racconta dal suo punto di vista (quello dei musulmano-bosniaci). Il tunnel è un protagonista centrale di questa storia. Fu grazie a questo passaggio sotto l’aeroporto che la città potè essere rifornita di informazioni, cibo e… naturalmente armi. Ne è rimasto un tratto di poche decine di metri, che si può percorrere. La casa dove iniziava il tunnel è rimasta semi-distrutta, come ai tempi della guerra, eterno monumento all’orrore della guerra, ma anche alla tenacia di chi resistette.
La parte più emozionante è il tunnel, ma anche il museo ospitato dalla casa è interessantissimo. A rimanere impresse sono soprattutto le immagini dei soldati bosniaci, con armi di fortuna, vestiti con jeans e all star ai piedi perché altro non c’era.
Sarajevo, museo del tunnel (foto di Patrick Colgan)
Sarajevo, museo del tunnel
Elvir ci accompagna poi a visitare alcuni fra i quartieri periferici più martoriati della città, dove le ferite della guerra sono ancora evidenti, a distanza di vent’anni. Scatto foto con parsimonia.
A Sarajevo (foto di Patrick Colgan)
A Elvir chiediamo quindi di essere lasciati al museo di Storia, non lontano (il museo nazionale è invece chiuso per mancanza di fondi a tempo indeterminato!). Prima però ci fermiamo a prendere un caffè al Cafe Tito, dove rivivono con un po’ di ironia e un po’ di nostalgia velata di pop gli anni della Yugoslavia, con cimeli e foto appesi alle pareti o sui tavolini. E’ un locale popolarissimo fra gli studenti (Sarajevo è una città estremamente giovane) e c’è una bella atmosfera. Con Elvir ci siamo trovati benissimo e gli chiediamo di rivederci la sera. Vogliamo vedere la città dall’alto. Sembra un po’ spiazzato dalla richiesta – conduce spesso i turisti sopra la città, ma ci vuole tempo -, alla fine dice però che ha un’idea. Appuntamento alle 19.
Il museo di Storia di Sarajevo
Le sale, spartane, raccontano con documenti e pannelli (anche in inglese) tutta la storia della città. Ma la parte più toccante e meglio realizzata è quella che racconta l’assedio degli anni ’90. Ci sono oggetti originali: dalle armi improvvisate, alle radio artigianali, fino ai cartelli che avvertivano della presenza di cecchini. Ancora, pacchetti di sigarette (che al tempo, proprio come accade in carcere) erano diventati una sorta di ‘moneta’, impacchettati con carta semplice in confezioni di fortuna. Infine, c’è la toccante ricostruzione di una stanza della Sarajevo assediata.
Attenzione, cecchini
Per tornare in centro seguiamo il suggerimento di Elvir e camminiamo lungo fiume per circa tre chilometri invece che prendere i simpatici tram, ma ne vale la pena. e’ un modo per scoprire la città e incontriamo anche la lapide su un ponte che ricorda le prime due vittime della guerra in città: due ragazze uccise da cecchini mentre manifestavano per la pace.
Vidikovac, sopra Sarajevo
Dopo un pomeriggio dedicato alla città vecchia, alle 19 ci ritroviamo con Elvir. Sulla sua auto ci inerpichiamo per le colline, fra strade strettissime e tornanti impossibili, in mezzo alle case aggrappate ai pendii. E’ già splendido scoprire questa parte che di solito i turisti non vedono, ma lo spettacolo deve ancora venire. Improvvisamente asbuchiamo all’aperto, proprio mentre le nubi che hanno pesato sulla città per ampi tratti della giornata si stanno squarciando e cade una pioggia lieve come il drizzle di Dublino. Siamo sopra la città, dove durante l’assedio c’erano i cannoni e i mortai serbo bosniaci (Elvir assicura che ci sono ancora dei carrarmati in rovina, qua e là). Un tempo c’era il suono delle esplosioni, ora invece regna una pace quasi irreale. Non si sentono nemmeno i suoni attutiti della città. O, se ci sono, non li sento. Elvir ci svela la sorpresa, ci ha portato a un bel caffè sulla collina che si chiama Vidikovac (belvedere) e il nome è quantomai azzeccato. E’ l’ora del tramonto e una luce dorata inonda la città incassata fra le colline, adagiandosi fra le case, i grattacieli, illuminando i tetri spazi biancastri che si aprono qua e là, i cimiteri di cui è disseminata Sarajevo. E’ l’immagine con cui concludere la giornata, da ricordare, da portare con sé, l’immagine che Sarajevo ci regala da portare nel cuore.
La serata prima di ripartire scivola poi via in albergo, fra eccellente vino croato offerto dalla casa, chiacchiere sull’Italia e sul mondo, con il sottofondo delle canzoni di Toto Cutugno e di melodici napoletani tanto amati da Elvir. Ti consiglio di contattarlo, se vai a Sarajevo. Io tornerò sicuramente.
Post precedenti
1- Libri e documentari sui Balcani
2 – Da Trieste a Sebenico + come viaggiare in auto nei Balcani
3- In Dalmazia, Spalato e Dubrovnik
4- In Montenegro
5 – In viaggio attraverso la Bosnia Erzegovina