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Viaggio nella “citta’ bianca”

Creato il 17 febbraio 2013 da Pasudest
Riccardo De Mutiis [*], per Passaggio a Sud Est, propone un viaggio in tre puntate, dall’epoca titina ai giorni nostri, alla scoperta di Belgrado, la “città bianca” nelle cui strade vibra il “srpski srce”, il cuore serbo. In questa prima parte la città nel periodo della Jugoslavia socialista, dalla fine della seconda guerra mondiale alla morte del Maresciallo Tito.

VIAGGIO NELLA “CITTA’ BIANCA”

Veduta invernale della confluenza della Sava nel Danubio  a Belgrado
dalla fortezza di Kalemegdan. Sullo sfondo Novi Beograd.


Secondo Le Corbusier “di tutte le capitali situate in una posizione splendida, Belgrado è la più brutta”. L’affermazione dell’architetto svizzero è troppo drastica, ma ha un fondo di verità. In effetti la posizione geografica della capitale serba è invidiabile: il nucleo originario della città venne realizzato su una collina ai cui piedi la Sava affluisce nel Danubio e da cui, in particolare dalla fortezza di Kalemegdan, si gode il panorama di una pianura che si estende a perdita d’occhio. Non sono altrettanto apprezzabili, purtroppo, né l impianto urbanistico, né lo stile architettonico della città. Infatti alla impostazione urbanistica degli Ottomani si sovrappose quella dei Karadjordjevic ed a questa quella di stampo comunista del periodo titino: alla disorganicità derivante dalla sovrapposizione di tali idee urbanistiche profondamente diverse l’una dall'altra si aggiunsero, nel momento in cui la città si estese oltre la Sava ed il Danubio, i problemi di una rete viaria che si intasava spesso e volentieri in prossimità dei pochi ponti che collegavano il centro con Zemun, Novi Beograd e le altre nuove zone costruite oltre i fiumi. Ma se la struttura urbanistica di Belgrado non è entusiasmante, è altrettanto vero che il viaggiatore che arriva nella capitale balcanica è colpito dall’atmosfera tutta particolare che vi si vive: nelle strade di Belgrado vibra l’anima del popolo serbo, batte il “srpski srce”, il cuore serbo. La città ha sempre vissuto con grande partecipazione le vicende  nazionali, senza mai appiattirsi sui mantra dettati dal potere costituito, ma tenendo invece spesso un atteggiamento critico e disincantato nei confronti dei vari regimi che dal dopoguerra ad oggi si sono avvicendati alla guida del paese. In questo scritto il rapporto tra la città di Belgrado e la politica prima jugoslava e poi serba viene analizzato con riferimento a tre diversi periodi storici: quello che va dal dopoguerra fino alla morte del Maresciallo Tito, quello che termina con la caduta di Slobodan Milosevic, e quello che arriva fino ai nostri giorni.
La Belgrado di Tito
Alla fine della seconda guerra mondiale, quando Tito, leader incontrastato del partito comunista jugoslavo, assume il potere, Belgrado è una città parzialmente distrutta dai bombardamenti tedeschi. Il nuovo disegno urbanistico della “città bianca” [questa la traduzione di Beograd, n.d.r.] è una diretta conseguenza della linea economica adottata dal  regime. In sintonia con  il programma adottato dagli altri Paesi del blocco comunista, la Jugoslavia imbocca decisamente la strada della industrializzazione: di qui l’emigrazione di masse contadine nelle città, soprattutto a Belgrado, per essere avviate al lavoro nelle fabbriche. Lo spostamento delle masse rurali nei centri urbani e la loro concentrazione nelle industrie risponde anche ad una logica di natura politica: i contadini, una volta sradicati dal loro tradizionale ambiente patriarcale ed inurbati, diventano facilmente controllabili e manovrabili a livello politico. Belgrado quadruplica i suoi abitanti: il quartiere di Novi Beograd [Nuova Belgrado], con i suoi palazzoni di dieci e più piani, viene costruito a nord della Sava nel dopoguerra proprio per ospitare i tanti serbi del sud ed i tanti montenegrini che si trasferiscono nella capitale. Ecco quindi che dall'immediato dopoguerra si assiste, a Belgrado, ma anche in altre città serbe, proprio per effetto dell'inurbazione di tantissimi contadini, ad una contrapposizione tra gli abitanti originari, gradjani, ossia cittadini (da grad, città) e quelli immigrati dalle zone rurali, seljiaci (da selo, villaggio). E proprio la contrapposizione tra gradjani e seljaci viene evidenziata da Paolo Rumiz nel suo bel libro sulle guerre jugoslave “Maschere per un massacro” e viene considerata, perché mai risolta, una della cause del conflitto (infatti l’autore fa dire ad uno dei protagonisti, a proposito del bombardamento di Sarajevo: “Guai se credete che qui c’ entrino serbi e musulmani , chi ci bombarda sono i primitivi, quelli che ignorano il gusto del vivere e non sanno il sapore celestiale dello zucchero in cristalli”).
La Belgrado del dopoguerra è tuttavia profondamente diversa dalle altre capitali dei paesi del blocco comunista. La Jugoslavia, infatti, a partire dal 1948 e cioè a partire dal momento in cui Tito rompe con Stalin, si apre alle relazioni con il mondo occidentale: gli Usa infatti vogliono approfittare della crepa che si è aperta nel sistema del “Patto di Varsavia” con la secessione del paese balcanico, a cui forniscono generosi aiuti economici che nel solo periodo 1962-67 raggiungono la considerevole somma di 536 milioni di dollari. Ecco quindi che a Belgrado ed in tutta la Jugoslavia compaiono beni di consumo assolutamente introvabili negli altri paesi comunisti. Ed alla apertura economica segue quella culturale: arrivano e vengono tradotti i best sellers della narrativa occidentale, i teatri ed i cinema ospitano opere straniere, si tengono festival culturali internazionali ed anche gli jugoslavi, unici tra gli europei dell’est, hanno la possibilità di viaggiare all'estero. In quegli anni Belgrado è l’unico luogo in Europa in cui mondo occidentale ed Europa orientale si incontrano: la città si afferma come centro cosmopolita, pieno di vita, mondano. Gli aiuti economici, che adesso arrivano non solo dagli Usa, ma anche dall'Urss (con cui i rapporti erano tornati buoni dopo il 1961, anno in cui avvenne la riconciliazione tra Tito ed il successore di Stalin, Nikita Kruscev), garantiscono agli jugoslavi una rendita di posizione che maschera, in un certo senso, il colossale fallimento del modello economico autoctono dell’autogestione.
Il 4 maggio 1980 la Jugoslavia è scossa, violentemente, dalla morte del suo leader Tito. L’evento, la lettura degli storici è concorde sul punto, segna l’inizio della lunga agonia dello stato jugoslavo. Ma la dipartita dello statista croato coinvolge anche Belgrado, che ne ospita i funerali, a cui prendono parte i più importanti uomini del mondo: sono presenti, come ricorda Enzo Bettiza nella sua “Cavalcata del secolo”, 128 delegazioni straniere, 31 capi di Stato, 22 primi ministri, 4 re e 6 principi. Nell'occasione Belgrado tocca l’acme della sua notorietà internazionale: mai una città, in precedenza, aveva ospitato contemporaneamente tante personalità. Dalla morte di Tito, lo si è detto, inizia il declino dello Stato degli slavi del sud a cui non può rimanere estranea la sua anima, ossia la sua capitale, che da quel momento perde progressivamente importanza non solo nel panorama internazionale, ma anche in quello interno, in cui finirà con l’abbandonare il ruolo di capitale della nazione jugoslava per ritornare a quello, più modesto, di capitale dello stato serbo.
[1. Continua]
Belgrade, Yugoslavia, 1960s

[*] Riccardo De Mutiis, esperto di relazioni internazionali, conoscitore della realtà balcanica anche per aver partecipato a diverse missioni patrocinate da istituzioni internazionali. Passaggio a Sud Est ha già pubblicato diversi suoi pezzi: per ritrovarli clicca qui.

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