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VIII) i figli dei marinai

Da Foscasensi @foscasensi
Non si può sapere cosa sia la vita di un locale. Acqua di colonia e il primo sudore dopo la doccia, risa e ogni tanto un accento incontrollato, uomini e donne distribuiti e atteggiati ognuno secondo le proprie simpatie e posture. Poi insinuarsi alcolico e stupefazione, consumo dell'attesa. E a mitraglia, febbre fumo muscoli e poi più niente, o forse lo spavento delle cose profonde e dementi.
I posti sono la metà delle azioni. Scivolare sulle piastrelle, accarezzare specchi, aggrapparsi a una scala spogli e lasciare le viscere alla compulsione dei muscoli, con gli occhi liquidi e la cocaina ancora sui baffi; gridare un nome e l'aria rende sordi abbastanza da avvicinare l'orecchio alla bocca, e quasi mordere, e provare a osare due dita sul giro della sua schiena, là nelle fossette renali dove si ha la sensazione della groppa e della penetrazione. Chi non ha preso o si è fatto vincere o ha sognato in solitudine una scena sui piccoli divani sotto il filo dell'alcol, queste cose non le sa.
Allora cosa cambia, cosa porta una balera, una bettola o una discoteca dall'essere acclamata a una solitudine miserabile, a frequentazioni ancora più odiose per chi si accorge delle facce fra i tavoli che sono sempre le stesse, già fossili, che non si gonfiano  non si abbagliano anche per poco sotto i colpi delle casse acustiche e dei boccali, sui marciapiede vicino la soglia. I baristi senza lustro, i musicisti flaccidi, la servitù sciatta. Anche questo, senza saperlo, lo si sente per l'empatia o l'intelligenza di specie delle folle delle quali facciamo parte, anche i misantropi quando le disprezzano.
Tutto è corpo, tutto è l'irriducibile e ultimo, o se si vuole dirlo grammaticalmente “l'aggettivo-senza-sostantivo”, del quale posso fare esperienza e col quale io sto al mondo dall'inizio alla fine: e cioè sempre ora. E se anche cerco o mi permetto di descriverlo uso le poche cose che posso dire con la bocca o con le mani, sempre trucchi e sempre per amore di quella sovrabbondanza quella veloce confusione e improvvisa ricchezza di senso, che mostra sotto forma di figura il seme del mondo fenomenico come fosse una luce solare – ma è un sole più fioco e iridescente di quello al quale permetto di bruciarmi. È ammirabile, e perciò ancora imperfetto. È la magia.
Per la scuola Shambala la tenerezza vera è tristezza, è la commozione del calice colmo, il pieno che si riversa dagli occhi prima di piangere, l'infranto senza disperazione. È naturale e inevitabile che gli occhi, i grembi e i crani, prima o dopo, per maturazione o per decreto postremo, si svuotino.
Analizzando in particolare: non è possibile stare dentro me stessa a meno di non infliggere o procurarmi violenza; in generale, ho pensato che una donna può stare fuori se stessa nell'estasi, nell'innamoramento, nella disciplina, nella bestialità.
Vista la balera farsi sempre meno interessante, notte dopo notte frequentata da meno facce e sempre le stesse, contati i soldi di un'estate, pagati i servi e le spese, svuotati sempre meno gusci e vieppiù calici - di orstriche e spumanti di bassa qualità, e con rabbia - la Padrona è fuori se stessa nella bestialità.
I primi segnali che le cose non andavano bene sono arrivati senza parere. I musicisti hanno continuato a suonare due volte per settimana, le ballerine a esibirsi sul palco nelle serate e sulla spiaggia o nei camper la notte.
Poco dopo ferragosto esce una petizione di cittadini anziani. La Padrona spegne la sigaretta sul giornale e telefona a qualcuno. Ha una voce contraffatta e tossisce. Il giorno dopo esce una risposta che lei fa ritagliare da un cameriere. Quando alza le braccia – attacca personalmente l'articolo sulla porta del bagno – i bottoni della camicetta cedono e – presagio – cade una boccata di cenere sull'abusatissima mammella e la rete di pizzo che la contiene.
Ci si passa la roba. Si usa una fodera scucita di divanetto e le casse acustiche di Florio. Certi  la danno da mano a mano. Una ballerina per gioco rolla una sigaretta la nasconde nel corpo e la dà in bocca ai clienti. Si cerca di indovinare: dove è stata. Ha un sapore ripugnante e fondamentale. Se ne fa uno scherzo, poi un'attrazione. Dalle canne si passa agli ovuli finché uno non esplode in una sera di ballo. È a cavalcioni sulla sedia agita il corpetto, la musica è bassa e alta al tempo stesso. Lei si alza divarica la gamba sull'impagliatura poi si tiene la pancia cade di lato e urla ma le viscere sono già pregne di coca e praticamente già esplose. Era una delle amanti preferite dalla Padrona e ora non si sa cosa sia. È un po' qua e un po' là. Odora di disinfettante.
Per ogni cliente che se ne va un fantasma lavora nell'ombra. Appesantisce le rate della luce e l'affitto, annacqua i liquori, imbruttisce le accompagnatrici. In autunno la Padrona corteggia gli irriducibili, gli ubriaconi fondamentali, gli alcolizzati, gli erotomani, gli incontinenti. Le piogge cessano, i sottovasi al mattino sono brillanti e i camerieri rompono le croste di ghiaccio marrone o verde con un coltello da parmigiano vecchio. La Padrona si siede e non si muove più.
Il suo problema riguarda i tempi e le conseguenze. Tutto ciò che ha di piccolo circolare o aggraziato scompare, i denti l'ombelico le fossette, perfino l'identità dei lobi a finire l'orecchia, tutto si ripiega in una mole fisica nuova più da eunuco che da donna, come fosse un buddha, ma rovesciato alla disperazione. Perché il resto continua a muoversi, domanda alle tovaglie da lavare in mezzo alla pista, e le cose si pongono in maniera tale che non è possibile frenare o accelerare senza che ciò abbia un prezzo e una macchinosità. E come è insopportabile che tutto, tutto sia come sono le cose del corpo, o forse è più il corpo a essere come le cose della natura, che ci sia quel momento in cui la volontà si produce come effetto nelle azioni o nella carne, e tanto più è fondamentale tanto più succedono cose di resistenza e poi di resa. Che ci sia quel momento in cui la vita si produce ancora su un corpo in cui è già dentro la disfunzione che lo sopprimerà. È, la Padrona schiaccia la sigaretta sul tavolo, attendere che le ballerine preferiscano esibirsi in altri posti, che i clienti disertino, che arrivino i topi. Se anche si volesse tornare indietro... no, no: ha più senso sputare svuotare il posacenere e fare quello che è giusto e possibile fare in relazione ai tempi e alle conseguenze. E cioè, niente.

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