Isabella – utilizzerò un nome di fantasia – è una donna che conosco da circa due anni, la incontro passeggiando in un parco e, parlando della splendida giornata di sole, rimaniamo qualche minuto a chiacchierare. Circa quarant’anni e due figli, uno in seconda elementare e l’altro all’asilo. Non è vicentina, proviene dal sud Italia. Dopo avere vissuto anni in una città del nord, si trasferisce nelle mie zone provinciali seguendo il nuovo lavoro del marito, anche lui meridionale. La prima nostra chiacchiera è prudentemente distaccata, tuttavia ho la sensazione che Isabella voglia parlare, comunicare, raccontare. Ci salutiamo e non la vedo più per un paio di settimane.
Un giorno, la ritrovo in un negozio del centro.
“Buongiorno”
“Buongiorno, come sta?”
“Io abbastanza bene e lei?”
“Non mi posso lamentare, già stata al parco oggi?”, sorridendo.
“No, oggi niente parco, devo sbrigare alcune cose per mio marito…”
“Uhm, questi mariti… e le donne corrono!”
“Già”
“Quando avrà più tempo, ci prendiamo un caffè se vuole”
“Volentieri…”
E la saluto.
Dopo qualche giorno, durante la mia solita camminata di venti minuti al parco, che mi aiuta a mettere ordine mentale nelle attività lavorative, la incontro: occhiali da sole nonostante la giornata grigia, un umore del tutto diverso.
“Buongiorno”
“Buongiorno”
“Ha tempo per un caffè?”
“Eh, a dire il vero preferirei sedere nella panchina qui…”
Non capisco il vero significato della frase, ma accetto e le dico: “Non vanno più di moda i caffè!”
“No”, senza un sorriso, seria.
“Non vorrei sembrarle inopportuno… la vedo imbronciata, forse è il tempo grigio che non aiuta molto, vero?”
“No… no no”, seria.
“Non mi ha convinto a dire il vero… dall’accento non è di Thiene lei…”, tentando di cambiare argomento.
“No, ci siamo trasferiti qui per lavoro mio marito e io.”
Iniziamo a parlare dei suoi figli, della difficoltà di integrarsi in una realtà territoriale con usi e costumi diversi da quelli che conosceva e della nostalgia per la sua terra d’origine. Nessuna malizia, nessuna ambiguità, una chiacchiera fra estranei, tenuta sempre sul livello formale, dandosi del lei e con una gentilezza d’animo frutto di vera condivisione genuina. Pochi minuti e la saluto, devo tornare a lavorare.
La rivedo dopo qualche tempo e accetta l’invito per un caffè. Non ricordo con precisione le mie parole, ma d’un tratto le scende una lacrima, che io, ingenuo, attribuisco a quella nostalgia assai diffusa fra chi vive lontano dalla propria famiglia, magari a centinaia e centinaia di chilometri. L’indice della mano destra corre sulla guancia e Isabella, convinta che io non veda, gira bruscamente il viso per nascondermi il gesto. La sensazione avuta nel nostro primo incontro si staglia ancor più di fronte a me, rompo gli indugi.
“Isabella, mi permette di essere sincero?”, chinandomi un po’ in avanti sul tavolino.
Lei incrocia le braccia, indietreggia e dichiara: “Certo, mi dica…”
“Vede, non mi fraintenda… sono contento di essere qui con lei a farci un caffè, a volte si conoscono delle persone piacevoli e mi pare normale non isolare un incontro casuale, dandogli in qualche modo un seguito. Io sono fidanzato e felice con la mia compagna, in questo non vorrei che vi fossero fraintendimenti, eppure fin dalla prima volta che ci siamo incontrati ho avuto la sensazione che volesse dirmi qualcosa, una sensazione appunto, magari mi sbaglio, come la voglia di dire a un estraneo qualcosa del proprio mondo…”
“Morgan, non si sbaglia, però sarà d’accordo con me che non è facile confidarsi con una persona che non si conosce anche se a pelle c’è stata empatia…”
“Non le sto dicendo di dirmi oggi, volevo solo capire se la mia sensazione fosse reale”
“Lo era”, accennando un sorriso.
La premessa di quanto scriverò domani. Perché Isabella vive un problema comune a non poche donne; un problema che il più delle volte si tiene in segreto, vergognandosi. Lei ha deciso di confidarlo, a me. Poteva essere un altro. Io sono arrivato nel momento giusto, senza volerlo, e ho cercato di ascoltare.
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