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Virginia Lalli: “Dove l’aborto è più libero le donne muoiono di più”. È veramente così?

Creato il 20 ottobre 2013 da Cagliostro @Cagliostro1743

Virginia Lalli: “Dove l’aborto è più libero le donne muoiono di più”. È veramente così?Nonostante siano passati 32 anni dall’approvazione della legge 194 che regolamenta l’aborto in Italia e sebbene gli aborti in questo terzo di secolo si siano in pratica dimezzati, in Italia resiste un movimento che vorrebbe rendere l’aborto illegale o quanto meno rimandarlo nella clandestinità.
A sostegno di tale tesi Virginia Lalli sulla rivista Notizie Pro Vita propone l’articolo “Dove l’aborto è libero le donne muoiono di più” e si richiama all’articolo “Abortionists are not held accountable for mistake” di Lenora W. Berning pubblicato sul sito pro-life afterabortion.org dell’Elliott Institute, un’organizzazione che ha i tra i suoi scopi quello di restringere l’accesso all’aborto.
 

Così scrive Virginia Lalli: «Le cliniche abortiste (negli Usa, ndr), che offrono normalmente solo quel servizio, cioè non sono ospedali polifunzionali, mantengono i medici abortisti liberi da responsabilità per eventuali complicazioni. Coloro che sono favorevoli all’aborto su richiesta sostengono che il tasso di complicanze riportato a seguito di aborti è basso. Ma ciò accade non perché ci siano poche complicazioni, ma perché le complicazioni sono sottostimate. E sono sottostimate, perché non c’è un sistema organizzato oggi atto a quantificare le ripercussioni dannose dell’aborto. L’industria dell’aborto ha mantenuto gli abortisti liberi da ogni tipo di supervisione, regolamentazione, e da responsabilità che sono invece normali per tutto il resto dei professionisti sanitari». Ovviamente la situazione statunitense non è per niente applicabile al contesto italiano dove gli aborti sono eseguiti in ospedali pubblici polifunzionali (e non cliniche private) in cui i medici sono responsabili del loro operato e dove ogni anno viene pubblicata una relazione da parte del ministero della Sanità con le percentuali di complicazioni a seguito di interruzione volontaria di gravidanza.

Continua Virginia Lalli: «Secondo il Chicago Tribune del 16 giugno 2011, nell’articolo “State abortion records full of gaps”, ci sono migliaia di procedure di aborto non riportate, e sono inestimabili i casi di complicazioni post aborto non riportati come richiesto dalla legge». Anche in questo caso la situazione statunitense non è applicabile al contesto italiano dove il numero di aborti sono minuziosamente riportati ed una relazione del ministero della Sanità offre tali dati al parlamento.

Ovviamente non poteva mancare la stoccata all’aborto legalizzato: «Molti fautori dell’aborto sostengono che l’aborto è necessario per proteggere la salute e la sicurezza delle donne: ma secondo un’analisi fatta da The Catholic Family and Human Rights Institute (C-Fam), dai dati del rapporto Global GenderGap Report pubblicato da World Economic Forum (WEF) nel 2009, risulta che i paesi che permettono l’aborto non hanno per niente una più bassa mortalità materna. Gli aborti legali non salvano la vita della donna. Secondo detto rapporto, sono i paesi con più restrizioni normative riguardo all’aborto che hanno più basso il tasso di mortalità materna». Riprendendo il rapporto la realtà è ben diversa e si legge esplicitamente: «Le cinque principali cause dirette di mortalità materna nei paesi in via di sviluppo sono gravi emorragie, infezioni, ipertensione, complicazioni da aborto non sicuro». Perciò il World Economic Forum non sostiene affatto che restringere l’aborto salvi la vita delle donne ma – al contrario – che gli aborti insicuri sono una delle principali cause dirette di mortalità materna.

Ovviamente Virginia Lalli non poteva mancare di sottolineare che «In Africa il paese con la più bassa mortalità materna è Mauritius (15 su 100.000) che ha la legislazione più restrittiva; mentre l’Etiopia, che recentemente ha depenalizzato l’aborto, presenta un numero di 48 volte superiore, 720 su 100.000. Nel Sud Africa, dove la legislazione sull’aborto è molto liberale, si sono registrate 400 morti per 100.000 parti». Per completezza bisognerebbe sottolineare che ai vertici di questa classifica ci sono Paesi europei che – ad eccezione dell’Irlanda – consentono l’aborto mentre in fondo a questa triste graduatoria ci sono Paesi africani (Nigeria, Angola, Chad) in cui l’interruzione volontaria di gravidanza non è consentita.

Imputare all’aborto legalizzato un alto tasso di mortalità materna contraddice quanto riportato nello stesso rapporto secondo cui l’80 per cento delle morti materne potrebbe essere evitato se le donne avessero accesso a servizi sanitari di base e potessero nutrirsi adeguatamente. Inoltre – sempre per il World Economic Forum – il 20 per cento delle morti materne hanno cause indirette che complicano la gravidanza o il parto, come la malaria, l’anemia, l’epatite e l’Hiv/Aids.
Ovviamente è più facile giocare con le percentuali per scagliarsi contro l’aborto legalizzato piuttosto che preoccuparsi realmente della salute delle donne e lottare per servizi medici essenziali dove praticare anche – ma non solo – aborti sicuri.

Virginia Lalli: “Dove l’aborto è più libero le donne muoiono di più”. È veramente così?


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