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Visioni

Creato il 21 febbraio 2012 da Theartship

Andrea M. Campo. Il piccolo Giacomo mosse il piede tremante verso la pedana bruna in rovere sotto lo scrittoio. Tossì aspramente rimirando i fumi della cera ancora calda sparire tra gli scaffali più alti della libreria e seguì le sottili esalazioni inseguirsi in spedite volute, delicati arabeschi sfavillanti che indicavano la via agli ultimi raggi del giorno filtrati tra le tende. Spazientito strappò un foglio dove si scorgevano pochi insicuri tratti di inchiostro fresco. In quella piccola reggia dove servitori e camerieri lo seguivano dappertutto, nulla era adatto a lui e a quel suo misero deforme corpo impropriamente disegnato. Secondo sua madre era il segno del diavolo, il marchio del peccato del padre, infamia altrui che avrebbe condannato il suo corpo e purificato la sua anima. Giacomo si avvicinò al crocifisso a parete e fece il segno della croce piegando leggermente la gamba destra, come sua madre gli aveva insegnato. Nonostante il dolore regalò un sorriso a quell’uomo inchiodato che pareva ben comprendere il suo disagio e guardò fuori.  Da quando era bambino aveva sempre sognato vedere cosa ci fosse dietro la siepe di rovi che si estendeva per tutto il perimetro del giardino coloniale coprendo l’orizzonte, ma non poteva spingersi più in là dell’atrio, sua madre non lo avrebbe permesso e con le sue gambe ritorte non avrebbe mai potuto affrontare i dodici scalini che scendevano verso il cortile. Ogni tanto, i suoi fratelli scappavano dalla porta di servizio, si infilavano in un buco nella siepe e tornavano con ciottoli e conchiglie, raccontando delle meraviglie che avevano visto. E lui, in preda a quell’ardore giovanile che a volte fa della curiosità una debolezza, ascoltava estasiato del lungo costone di roccia calcarea che cadeva a strapiombo sul mare, dei flutti che urlavano spinti dal vento opprimendo l’antico relitto, della grotta sulla spiaggia che inghiottiva i raggi della luna e delle rondini che nidificavano tra i rami delle querce. Faceva tesoro di ogni singola parola e fantasticava su quei mondi a lui ignoti. Di tanto in tanto nel silenzio dello studio interrompeva le sue riflessioni, alzava il naso dai giganteschi tomi di scienze, arti e letteratura che tanto amava, e con penna e calamaio provava a ricreare quelle storie e quei luoghi che non aveva mai visto. Non teneva mai nulla per sé, convinto che i suoi scritti appartenessero ai suoi fratelli, unici veri custodi del mondo oltre la siepe di cui, attenti delatori, riportavano notizie e illusioni. Chiudeva i racconti e le poesie in grandi buste sigillate con ceralacca e, durante la notte, li nascondeva a loro insaputa, tra i libri in biblioteca. Fu proprio in uno di questi che la madre, una sera di dicembre, trovò l’addio di quello strano figlio scomparso. Giacomo era fuggito senza lasciare alcun traccia e, sebbene fosse a tutti chiaro l’eterno disagio e l’ardente desiderio di fuga del giovane, nessuno avrebbe mai scommesso sul suo coraggio. Ciò che trovarono, al ritorno da un viaggio, fu solamente la pedana bruna di rovere posizionata in un angolo del giardino dove qualcuno, con un paio di cesoie, aveva creato un’apertura verso l’esterno, una finestrella per guardare aldilà dell’intreccio dei rovi. E lì non c’era il mare, né il costone di roccia, non c’era la grotta né il relitto tra i flutti: non c’era nulla di quanto immaginato da Giacomo che, forse, era partito per inseguire le sue visioni.


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