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Premessa doverosa e imbarazzata: Ebbene sì, anche io talvolta faccio scorrere le immagini velocemente per saltare i pezzi noiosi. Sarà il caldo di fine luglio, il sonno che avanza, i film che vedo. In sostanza ho dato fondo ( naturalmente è impossibile, vedi una cassetta e ne registri due ) ai resti di nottate passate a reccare Ghezzi fuori sincrono.
LA VALLE CHIUSA – FRA 2000, 144’. Regia di Jean-Claude Rousseau. Visto per la gran parte di pomeriggio dopo aver inserito la modalità Tour de France ( d’ora in poi TdF ). Il TdF non è una manifestazione che si segue alla tv come il calcio o le corse, oppure la pallacanestro, la pallanuoto, il tennis. È una sorta di pennichella estiva prolungata di circa tre ore, cullati dalle voci dei cronisti; purtroppo Bulbarelli è passato dietro le quinte ma rimane Cassani, con la sua erre un po’ francese a spiegare i rapporti delle catene e tutto lo scibile ciclistico, compresi i piazzamenti di ogni corridore dal primo triciclo in poi ( sospetto che in realtà il ciclismo abbia una cosmogonia abbastanza flessibile per cui ogni ciclista ha una biografia possibile, con corse e vittorie personalizzate ). Non è che bisogna guardare il TdF ogni minuto, ci si stende sul divano, magari ogni tanto si sgranocchia qualcosa e si aspetta; un occhio ammirato al paesaggio, magari un pensierino di passarci le vacanze ( meglio ancora leggendo un articolo di Gianni Mura ); rilassati, fino alla fine. Se c’è un momento importante avvertono i commentatori alzando il tono di voce. Ecco, il tono di voce è il problema principale del rischio di seguire i film con tale modalità. Nel caso del film in questione, quasi totale assenza di sonoro e accenni di voce sempre cortesi ( en française ), l’abbiocco completo è un pericolo costante. Il film è diviso in capitoli, dai titoli naturalistici, e qua e là una voce spiega il perché del giorno e della notte, le piogge e i venti, ma a livello di prima elementare. Abbondanza di inquadrature fisse su scorci, paesaggi, fiumi, viottoli, sentieri; poi interni di case, cucine, letti, orologi, lavelli, armadi. Spesso ad inizio capitolo ci sono dei turisti. I momenti più vivaci sono stati due filmini di repertorio che riprendevano momenti di vita di alcune signore, i panni stesi al sole e cose così. Mentre lo stavo vedendo sul 3 davano Caterina va in città – ITA 2003, 90’. Regia di Paolo Virzì, film che mi piace sempre rivedere tranne nei momenti in cui il personaggio di Castellitto si rende ridicolo, cosa che mi provoca un senso di vergogna insostenibile ( giuro! ) e devo distogliere lo sguardo. La valle chiusa mi sà che siamo davvero in pochi ad averlo visto, riaffiorerà ogni tanto come gli amori sconfitti sul nascere, narrati con perizia da Cassani e Bulbarelli come le fughe dei giovani solitari ripresi sempre a pochi metri dall’arrivo. Ci avevano creduto, ci si crede sempre quando si parte, poi ti superano e resti a guardare.
THE EMBRYO HUNTS IN SECRET – Jap 1966, 72’. Regia di Kôji Wakamatsu. Tutto in una notte. Pioggia battente, “non qui, andiamo in casa”. La casa non è arredata, qualcosa non va. La ragazza fa la commessa, però arrotonda con “il più antico” eccetera. L’uomo è pazzo, decisamente; è anche impotente o sterile, ma soprattutto è pazzo. Piange la mamma e la moglie fatte a pezzi in passato, oppure sono scappate ( nella follia non si capisce ), e vorrebbe ricominciare con questa nuova. La lega, la frusta, la ricopre di monologhi deliranti sui cani, la riduce a schiavetta a quattro zampe. Finché dura. Cos’è che mi è piaciuto? Mah, direi le prime scene, alcune inquadrature. Strano il commento musicale, quasi sinfonico, per un film girato tutto in poche stanze. L’inizio invece bello, con una cantata rinascimentale ( mi ha ricordato il furbetto Lars di Antichrist ). Estenuante, pure lo avevo visto qualche anno fa.
VICINO AL MARE AZZURRO – URSS 1936, 71’. Regia di Boris Barnet. Yussuf e Aliosha ( in genere la “h” diventava “k” ) approdano in un Kolchoz ( chiamato Luci del comunismo, i collettivi di lavoro in pratica ) del Mar Caspio, per lavorare come marinai e meccanici; si innamorano della stessa donna, che però rimane fedele al suo fidanzato temporaneamente lontano per la guerra. Un po’ di scazzi, alla fine se ne tornano a casa. Bello il mare, con la luce che pare oro. Bello visto dal mio schermo piccolino che pare un oblò. Bella la gente, coi fisici asciutti e gli occhi vispi.
SOTTO IL SEGNO DELLO SCORPIONE – ITA 1969, 100’. Regia di Paolo e Vittorio Taviani. Strano film, davvero. Un gruppo di uomini che fugge da un’isola devastata dal terremoto e dal vulcano si rifugia in un’altra isola. Trovano una comunità ben avviata che cercano di convincere che la cosa migliore sia partire per il continente, per costruire lì, senza più vulcani di cui aver paura. Non sappiamo nulla di loro, la musica spesso copre quello che dicono, si colgono frasi qua e là, intenzioni, raggiri, violenze improvvise scandite da rumori fortissimi, sirene impazzite. Il compositore è Vittorio Gelmetti ( collabore per l’elettronica in Deserto Rosso ), uno di cui vorrei poter ascoltare più cose, ma sono difficili da trovare. All’inizio sembrava un film sulla lotta all’ultimo sangue, l’istinto di conservazione, poi invece no. Generazioni a confronto. Padri contro figli. Mistero.
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