“Vita di caserma. Autorità e relazioni nell’esercito italiano del secondo dopoguerra” il titolo esteso del libro pubblicato da Domenico Rizzo (Roma, Carocci, 2013, 20 euro), ricercatore dell’Orientale di Napoli.
In effetti, il libro non si concentra esclusivamente sul secondo dopoguerra, ma muove i suoi passi dall’Unità di Italia per cercare di raccontare l’esercito sotto un punto di vista particolare e significativo: la sua autorappresentazione, il suo modo di forgiare le nuove leve militari del Paese, la vita interna alle caserme.
Così, lungo il primo capitolo, Rizzo passa in rassegna i “Regolamenti di disciplina”, o per meglio dire le variazioni che si sono susseguite al Regolamento di disciplina, per comprendere i cardini dell’approccio dell’esercito come istituzione nei confronti dei militari. Ad emergere è una sostanziale continuità che parte dall’Italia liberale, attraversa il periodo fascista e arriva all’Italia del dopoguerra.
Tre le questioni principali che emergono nel primo capitolo:
1) Il linguaggio adottato nei regolamenti, rimanda a una terminologia “familiare”: la famiglia diventa una metafora essenziale per rappresentare l’esercito, la sua disciplina gerarchica interna, ma anche il vincolo affettivo che si vuole mostrare. Una terminologia che, nella prima fase, in particolare col primo Regolamento postunitario (il Regolamento Ricotti del 1872), è ancor più significativa in quanto rimanda in maniera esplicita alla questione della costruzione dell’identità nazionale e all’uso dell’esercito come strumento indispensabile della nation building;
2) L’esercito si autorappresenta come un organismo unitario, in cui il singolo scompare di fronte a un’entità collettiva più ampia e imprescindibile. L’educazione che si vuole offrire alle nuove leve è tutta rivolta in questa direzione. All’interno di tale questione, i rapporti gerarchici sono presentati come dettati da carattere “personale”, presentando dunque l’ordinamento gerarchico come un qualcosa di “naturale”;
3) La continuità che si registra nei regolamenti dimostra come le variazioni introdotte durante il periodo fascista (nel 1929 e nel 1935) siano state di mera apparenza. In particolare, a risaltare, è la diminuzione delle punizioni, la quale si pone in perfetta continuità con le variazioni del periodo liberale; la spiegazione, puramente di facciata, è che le giovani matricole si affacciano all’esercito con uno spirito già pienamente nazionalista e pronto alla vita bellica.
Nel secondo capitolo si entra pienamente nel secondo dopoguerra e nel vivace dibattito che segue la sconfitta bellica e l’affacciarsi di un nuovo regime democratico fondato su valori completamente nuovi.
Proprio in questo nuovo clima si apre un intenso dibattito sull’esercito del domani e sui pilastri su cui dovrà poggiare, che Rizzo segue attraverso le riviste militari. Proprio intorno a questo nuovo dibattito ci si muove a livello istituzionale per disegnare il nuovo esercito.
Rizzo segue a tal proposito i due passaggi fondamentali: la discussione in sede di Costituente sull’articolo che dovrà sancire nella Costituzione la struttura del nuovo esercito e il tentativo di modificare il Regolamento di disciplina tramite una Commissione appositamente formata all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione. Rizzo trova a tal proposito un’unica fonte, ovvero il “Progetto di regolamento” che la Commissione presenta nel 1951 al ministro Pacciardi. Come scrive infatti l’autore: “Si tratta di un Progetto che resterà lettera morta e, pubblicato a cura del Gabinetto della Difesa, avrà circolazione limitata. Il cima interno e internazionale è mutato rispetto al 1948 e una revisione della disciplina militare in senso “democratico” non è più all’ordine del giorno. In mancanza di una ricerca più approfondita sui dettagli e i protagonisti del tramonto di tale prospettiva, la vicenda ci riguarda soprattutto quale esito più alto e, insieme, approdo terminale del dibattito che si è sviluppato a partire dal 1945.”
Infine, nel terzo e ultimo capitolo, Domenico Rizzo ci conduce direttamente all’interno della vita delle caserme nel dopoguerra, prendendo sei casi-studio e basandosi in particolare sulle “Memorie storiche” redatte annualmente dai colonnelli comandanti di ciascun reparto. L’autore cerca di far emergere a 360° la quotidianità interna alle caserme e ai centri di addestramento, oltre che il ritratto tipico delle reclute che si affacciano alla vita militare, dipinte quali “reticenti”; vengono infatti narrati i trucchi adottati quotidianamente per eludere la pesantezza della vita di caserma. Vita che, appunto, è descritta appieno da Rizzo, fra le esercitazioni fisiche, le cerimonie, le gare, il sistema di premi e punizioni, l’avvio dei “servizi benessere”. A emergere, in particolare, è il tentativo di dare, attraverso una scansione ben programmata di cerimonie rituali, una dimensione religiosa all’esercito, legata però anche a forme di intrattenimento. Come afferma Rizzo: “A fungere da collante, c’è per un verso una costante sovrapposizione tra dimensione militare e dimensione religiosa e, per altro verso, una organizzazione delle giornate di festa che prevede giochi, spettacoli, gare e premiazioni finali”.
Per concludere, il nostro giudizio è in parte in sospeso. Il lavoro svolto da Rizzo è certamente minuzioso e dettagliato; allo stesso tempo un po’ troppo didattico e, forse, non in grado di contestualizzare pienamente il discorso sull’esercito. Attediamo ora il naturale proseguimento del lavoro di Rizzo. La sua “Vita di caserma” ci lascia infatti con un interrogativo di fondo, ovvero quale sia la discontinuità che si registra anche nell’esercito dopo il 1968. Discontinuità che rimane sempre solo latente nel discorso di Rizzo: effetto molto probabilmente voluto, ma che così ci impedisce di cogliere appieno l’analisi sui primi cento anni dell’esercito italiano.