ROMA - Cos’è il mobbing? E soprattutto, quali sono le circostanze nelle quali una persona può realmente sentirsi perseguitata dai propri colleghi o superiori al punto da doversi rivolgere alla legge?
Negli ultimi anni i giornali e le televisioni hanno affrontato sempre più spesso questo tema scottante e il web è pieno di siti di auto aiuto in cui ci si confronta, cercando di trovare spiegazioni e soluzioni a questo strisciante e forse sempre più presente problema.
Va detto che in Italia attualmente non esiste una legge anti-mobbing e forse anche per questo troppo spesso si fa confusione sull’argomento, finendo per sottovalutare situazioni a rischio o drammatizzare eccessivamente le banali tensioni che possono venirsi a creare in ambito lavorativo. Poiché l’argomento è complesso, è importante andare per gradi e partire dal principio: cos’è dunque il mobbing?
Per mobbing (dall’inglese “to mob”, che significa ” assalire con violenza”), generalmente si intende una serie di comportamenti violenti perpetrati nel tempo da parte di uno o più individui nei confronti di un altro individuo, che, a causa di queste azioni, subisce danni psicologici, fisici e professionali. È possibile che qualcuno sia “mobbizzato” anche in ambito familiare e sociale, ma generalmente è la sfera lavorativa quella in cui avviene con maggior frequenza questo tipo di abusi. La finalità di queste azioni violente, che fra l’altro si esplicano attraverso la derisione, l’emarginazione e le maldicenze, è quella di mettere la persona “mobbizzata” nella condizione di abbandonare da sé la professione senza che avvenga un vero e proprio licenziamento, che invece potrebbe creare imbarazzo all’azienda.
Poiché questo genere di azioni viene compiuto quasi sempre in “sordina” e poiché d’altra parte è facile che in un ambiente lavorativo molto competitivo avvengano episodi di tensione o di incompatibilità che non necessariamente si configurano come reato, è bene provare a stabilire con chiarezza quali sono le condizioni necessarie affinché si possa parlare davvero di mobbing.
Si è vittima di mobbing quando:
- Si viene emarginati.
- Si è vittima di maldicenze o di continue critiche.
- Si viene perseguitati dai colleghi o dai superiori.
- Si ricevono compiti dequalificanti.
- La propria immagine sociale è fortemente compromessa nei confronti di clienti o superiori.
- Tutto ciò( emarginazione, derisione, dequalificazione ecc) avviene in modo costante nel tempo.
Una volta stabiliti i criteri attraverso i quali è capire se si sta davvero diventando vittima di mobbing, cerchiamo di analizzare quali sono gli strumenti di difesa che il singolo individuo può usare per proteggersi da un ambiente ostile,evitando di dover arrivare ad abbandonare il lavoro. Naturalmente ogni storia è un caso a sé; vi sono tuttavia alcuni piccoli accorgimenti attraverso i quali è possibile “battere” il mobbing e recuperare, insieme alla propria autostima, la fiducia nel proprio lavoro.
L’individuo vittima di mobbing può e deve:
- Non chiudersi in se stesso. Sicuramente questo è il primo passo da compiere quando si è vittime di abusi in ambito professionale, e non solo. La tentazione di addossarsi ogni responsabilità e la vergogna di denunciare le ingiustizie subite possono essere forti, ma è solo comunicando il proprio stato d’animo a chi si conosce meglio che si può iniziare a prendere consapevolezza del problema che si sta vivendo e dei modi più efficaci per affrontarlo.
- Rivolgersi al sindacato. Poiché il sindacato opera nella maggior parte dei luoghi di lavoro, dove nasce e si sviluppa il mobbing, è innanzitutto ad esso che bisogna rivolgersi in caso di bisogno; questo triste fenomeno infatti necessita di un approccio interdisciplinare che solo un gruppo di esperti professionisti può svolgere. Inoltre, esprimere il proprio disagio al sindacato competente è il primo passo concreto per comunicare al mondo del lavoro in cui si opera che non si è più soli, e che non si intende continuare a far finta di niente.
- Raccogliere informazioni. Questa è senz’altro un’arma importantissima, sia che si decida di voler recuperare la situazione, sia che si voglia abbandonare il luogo di lavoro. Raccogliere informazioni non significa tuttavia diventare morbosi al punto da invadere l’altrui privacy; si tratta semplicemente di prendere nota di episodi, lettere, possibili testimonianze che potrebbero tornare utili in un futuro.
Questi, a grandi linee, sembrano essere i metodi più efficaci per contrastare il mobbing senza dover necessariamente ricorrere alle vie legali, che in casi come questi sono sempre piuttosto lunghe ed onerose. Il mobbing è una pratica orribile, che non andrebbe mai sottovalutata; allo stesso tempo però sembra necessario non sopravvalutare nemmeno tutti quegli screzi, quelle incomprensioni e quelle competizioni che pure possono generare ansia e frustrazione, ma che poco o nulla hanno a che fare con il mobbing; i casi di “finto mobbing” infatti sono numerosi quasi quanto quelli veri. Giusto per citarne uno, come non ricordare la cassiera di un noto supermercato che alcuni anni fa denunciò i suoi superiori che, secondo la sua tesi, le impedivano di andare in bagno causandole grandi malori? Il giudice stabilì che il fatto non sussisteva e che la donna si era inventata tutto; la donna, dopo poco, è stata licenziata perché sorpresa addirittura a rubare. Questo ovviamente è uno degli esempi più eclatanti di tutta una serie di denunce, esposti o semplici malcontenti che non si basano su una reale problematica, ma da essa prendono “spunto” , trasformando in realtà quelle che sono solo fantasie e supposizioni. Fino a quando in Italia non verrà approvata una specifica legge anti- mobbing che faccia e applichi chiarezza una volta per tutte, continueranno purtroppo ad esserci casi di finti mobbing e di soprusi reali che non vengono puniti; fino ad allora, e speriamo di non dover attendere troppo, non resta che affidarci, anche in cerca di un sorriso, ad una delle migliori riflessioni di Woody Allen sul lavoro:” Non voglio raggiungere l’immortalità con il mio lavoro. Voglio arrivarci non morendo”.