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Viva la revolucion! Il cinema di Giulio Petroni in foto

Creato il 05 ottobre 2013 da Fascinationcinema

GIULIO PETRONI 1 300x217 Viva la revolucion! Il cinema di Giulio Petroni in fotoAlmeria 1967 – Piove solo quattro giorni all’anno e le temperature sfiorano i quarantotto gradi all’ombra, in un luogo in cui le ombre sono alla portata solo di serpenti, lucertole e scorpioni. La porta di plastica si apre su quella landa degli estremi e dalla vasta severità, la maniglia rimbalzando sulla fiancata bianca della roulotte compressa da strati d’opprimente calore. Lui si sofferma per un attimo sull’uscio prima di scendere. Il sole batte forte sulle lenti dei suoi occhiali da sole, nascosti parzialmente sotto il lembo del panama. Il suo passo, sceso i gradini di metallo e toccato il terreno dell’unico vero deserto d’Europa, è calmo e sicuro. Intorno a sé, parcheggiati circolarmente a comporre il campo base, i vari camion: quello degli elettricisti, dei macchinisti, del trucco, del guardaroba, i camerini sulle cui porte campeggiano i nomi degli attori protagonisti in scena quel giorno. Dietro ancora, a racchiudere quel piccolo villaggio mobile, si innalzano colline rocciose che, come spunzoni, perforano l’arida e polverosa superficie de “el culo de España”.

Lo sguardo di Giulio incrocia quello delle sarte a lavoro sotto grossi ombrelloni, dei gruppisti che circolano intorno ai mezzi alzando con i piedi piccole nuvole gialle. Il suo volto è rilassato, avendo nascosto, come sempre, i suoi occhi indagatori dietro lenti scure; le sue labbra sottili premute insieme come due strisce di velcro. Da un’apertura tra due camion sguscia, a passo spedito, May, l’aiuto regista. “Allora, a che punto siamo?” La voce silente di Giulio tradisce subito la sua romanità. May, che lo ha frettolosamente raggiunto e che adesso gli cammina accanto, risponde repentino: “Dieci minuti e siamo pronti.” “Gli attori?” “Sono già sul set.” In fila indiana Giulio e l’aiuto oltrepassano il pertugio e costeggiano le comparse riunite in gruppo ai confini del set che impugnano già fucili e pistole. Chi perde sangue dalla testa, chi con buchi di proiettili sui propri stracci da peones o sulle uniformi color avorio dell’esercito messicano, ricevono indicazioni dagli assistenti alla regia, mentre si sventolano con i loro cappelli di paglia, chi può, appollaiato su qualche masso. Cavalli sellati vengono piazzati strategicamente sul sentiero che si srotola tra le colline, mentre una grossa macchina d’epoca viene sistemata e preparata come una star dagli attrezzisti di scena. Giulio, tra urla, persone che vanno e vengono da ogni direzione e cavi elettrici che, come arterie, solcano il terreno, saluta e viene salutato.

Mani fugacemente raggiungono le sue spalle o l’avambraccio e lui ricambia con quel suo sorriso fin troppo confondibile con un ghigno storto e fischiante. Giulio, con le braccia coperte dagli scacchi della camicia, si infila le mani in tasca. May, stringendosi a lui, lo avverte sottovoce: “Sta arrivando”, per poi allontanarsi verso i suoi collaboratori senza perdere ritmo nella camminata. Eccolo arrivare nella sua uniforme da colonello, col carisma e la consapevolezza di essere già parte della storia del cinema. I suoi stivali neri non strusciano sul terreno e la sua camminata è persino elegante, nonostante la sua mole maestosa, quanto il suo sguardo fulmineo. Giulio, ogni tanto monitorando con colpi d’occhio il lavoro del direttore della fotografia, lo osserva piazzarsi davanti a lui. “Orson.” “Giulio. I’m ready to die.” La sua voce è profonda e tinta d’ironia. Sul suo viso risalta un rivolo di sangue che scende da sotto il cappello e raggiunge la sua guancia larga. Giulio sorride. Un click alle loro spalle affoga tra i rumori incessanti che circondano la loro conversazione. Divo Cavvichioli, il fotografo di scena con un’immancabile sigaretta rollata ed umida tra le dita, ricarica la sua Reflex prima di allontanarsi. Uno scatto, uno tra i tanti sul set di Tepepa e Giulio Petroni e Orson Welles si pietrificano in bianco e nero.

Ecco alcuni di quei fotogrammi…

 

Gli inizi

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La Ceylon Goverment Film Unit, fondata da Petroni (seduto al centro), nella sua prima formazione.

“Mio fratello, Attilio, Ufficiale di Marina, dalla Cina arrivò a Ceylon dove divenne console. Mi consigliò di raggiungerlo e quindi mi imbarcai con Lidia, che all’epoca era ancora mia moglie, in quest’avventura. Io lì mi inventai a tutti gli effetti il cinema. In India si sfornavano centinaia di film ma a Ceylon non esisteva nessuna realtà cinematografica. Misi in piedi il Ceylon Government Film Unit e ne divenni il direttore. I primi tempi furono durissimi. Arrivai lì con risorse limitate da un punto di vista economico, e, nonostante avessi fatto parte dei servizi segreti americani dopo essere stato partigiano, per cui mi paracadutarono tre volte in territorio nemico in Germania, il mio inglese era tutt’altro che perfetto. Una volta ingranati iniziammo a sfornare tantissimi lavori: cine giornali, documentari, cortometraggi. Alcuni dei quali hanno avuto risonanza anche qui in Europa come nel caso di Capital Hill che finì al Festival di Edimburgo. Fu un periodo incredibile in cui imparai moltissimo, mentre allo stesso tempo insegnavo il mestiere alla gente del luogo.”

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Con Gillo Pontecorvo nella realizzazione di un documentario (metà anni cinquanta circa).

 

“Colgo l’occasione al riguardo per raccontare un aneddoto che ha come protagonista uno dei più grandi bluff del cinema italiano, Gillo Pontecorvo. Io conoscevo alcune persone che lavoravano sul set di Queimada e una volta andai anche sul set. Insomma, Gillo faceva ripetere le scena a Brando decine di volte. Una volta in particolare arrivò a 40 e passa ciak. Brando si alzò e disse: “Gillo, non ti preoccupare, continua pure. Io torno in albergo.” Lo conoscevo bene Gillo, facemmo più documentari insieme. Tolto La battaglia di Algeri rimane un personaggio costruito nelle sedi di partito.”

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Petroni nei suoi documentari era un vero one-man-show: operatore, sceneggiatore, regista. Con Lembi d’Albania in Calabria vinse come miglior documentario alla XVII Festival d’arte cinematografica di Venezia. Qui si trovava a girare nell’Isola di Man.

“No; allora, quando diressi il mio primo corto non facevo ancora il critico ma scrivevo novelle, brevi racconti che furono pubblicati e proprio grazie a queste pubblicazioni mi contattò la INCOM, industria cortometraggi, che mi propose di lavorare per loro. Il mio primo documentario fu Goethe a Roma. Ho continuato a farli anche dopo il mio ritorno da Ceylon.”

 

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Con Giuseppe de Santis sul set di Un marito per Anna Zaccheo (1953), in cui Petroni fu collaboratore alla regia. Un altro film in cui fece l’aiuto fu Desiderio (1946) di Roberto Rossellini e Antonello Pagliero.

 

Le commedie

“La sceneggiatura di La cento chilometri, il mio debutto nel cinema, la scrissi insieme a Massimo Franciosa e Pasqualino Festa Campanile. Con Franciosa si è venuto a creare un legame duraturo nel tempo. Molti anni più tardi, tramite la mia casa editrice Dalia, pubblicai anche un suo romanzo Un impossibile amore con la signora di Nohant. Abbiamo anche scritto una sceneggiatura insieme, mai realizzata, tratta da un mio romanzo (La strega di Colombraro). Con Campanile il rapporto era più goliardico, amava gli scherzi. La Cento Chilometri non è certo il film che avrei scelto, se ne avessi avuto la possibilità. Comunque mi divertii a girarlo.” Il film, se pur datato, sembra aver acquisito negli anni una valenza di documento storico anche grazie a un cast popolato da volti noti dell’epoca, sia del grande schermo che della televisione: Fred Buscaglione, Massimo Girotti, Carlo Giuffrè, Gigi Reder, Riccardo Garrone, Marisa Merlini, Mario Carotenuto (che apparirà ben altre due volte nelle pellicole di Petroni, anche accanto al fratello Memmo). Dopo il successo di questo debutto, in parte anche dovuto ad un intervento censorio molto discusso intorno alle gambe tornite di una giovanissima Paola Pitagora, Petroni gira cronologicamente I Piaceri dello scapolo, I soliti rapinatori a Milano e Una domenica d’estate. Quest’ultima pellicola del ‘66, che vanta la presenza del duo Tognazzi-Vianello e le musiche di Trovajoli, segna la fine della sua prima fase. “Erano film che facevo, come si può dire, “artigianalmente”. Comunque in maniera distaccata. I Piaceri… a distanza di tempo mi sembra il migliore dei quattro. Degli altri, le intenzioni sono chiare fin dai titoli in cui echeggia la presenza di pellicole di successo fatte in precedenza. Ero ancora in una fase di apprendimento.”

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Nel ‘67 inizia il secondo e più importante capitolo. Capitolo che donerà notorietà e prestigio alla carriera di Petroni, unendo indissolubilmente il suo nome al genere…

 

Il western

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Con John Philip Law sul set di Da uomo a uomo (1967).

“Guarda, non mi stupisce che questi miei western siano rimasti, insomma che abbiano superato la prova del tempo, perché anche da parte mia c’è stato un maggior coinvolgimento, parlo emotivo. Le commedie che avevo diretto precedentemente, pur avendole approcciate con professionalità, insomma, il distacco con quei film era enorme. Mi davano la possibilità di lavorare, perfezionarmi nel mestiere e di farmi conoscere. I western, anche se da parte di molti, nei confronti del genere, c’era un certo snobismo… mi davano modo di fare qualcosa di più importante. L’aspetto del west che più mi intrigava era l’avventura, la natura selvaggia.

L’idea di fare dei film d’avventura come certi romanzi che avevo amato da ragazzo mi attirava. Poi Da Uomo a uomo si presentava subito come un progetto di una certa entità. Sansone e Chroscicki avevano ottimi rapporti con produzioni estere, sapevo già che sarebbe stato distribuito dalla United Artists e in Italia dalla Titanus. Il genere mi piaceva comunque, ma soprattutto quello americano. I film di Leone li ho visti anche con un certo coinvolgimento, ma di tutti quei prodotti che sono venuti dopo in Italia pochi si possono realmente salvare. Leone era un vero cultore, un esperto del western. Io non posso definirmi tale. Detto ciò, credo comunque di essere riuscito ad entrare in sintonia con il genere. La maggior parte dei registucoli che si sono cimentati hanno partorito solo prodotti grossolani, veramente indegni. Basti vedere i film di Lizzani, regista che non sa neanche fare lo spelling di western.”

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“Guarda, Cuomo riuscì ad averlo, a contattarlo tramite agenzie. Io non potevo credere che stavo per dirigere Orson Welles e lo informai del fatto che ero un po’ intimidito all’idea di dirigere il regista di Quarto potere, ma lui mi rispose “Don’t be silly”. Arrivato a Tepepa, non ero più tanto giovane e questo fu motivo di sollievo per lui che non sopportava i nuovi virgulti. Neanche a dirlo, lo aveva preceduto una reputazione di uomo intrattabile, burbero e in effetti lo era, ma non con me. Welles ed io abbiamo passato più sere a conversare, discutere davanti a una bottiglia di whiskey. A lui piaceva molto bere. Mi parlava molto di Rita Hayworth, gli deve essere rimasta proprio sul gozzo. Non interferì mai con il mio lavoro di regista, solo un consiglio una volta e aveva perfettamente ragione. Ahimè Tomas Milian è stato il target di molte sue angherie. Lo chiamava “il piccolo cubano”. Milian era un bravo attore, talvolta però difficile da contenere. Era un vulcano di idee e perciò aveva la tendenza a strafare, poi, non ne parliamo, su Provvidenza veniva da me con delle proposte strampalate e io lo dovevo frenare. “No, questo no!” Sua, in quel film, era l’idea dello yoga ad esempio. Ma, come ho detto, andava frenato. Sembra strano a dirsi, ma ho sempre avuto l’impressione che fosse piuttosto insicuro. Insicuro rispetto alla sua presenza fisica, aspetto fisico. Un personaggio complicato Milian, più di quanto si possa immaginare.”

 

Borghesia profana: la trilogia maledetta

“Guarda, in realtà l’idea di cimentarmi nelle vesti di produttore mi era già venuta parecchio tempo prima. Il mio rapporto con questa figura è sempre stata difficile già all’epoca di Emo Bistolfi, che produsse Una Domenica d’estate e I soliti rapinatori a Milano. Un uomo rozzo, gretto, sprovvisto anche solo di un barlume di umorismo o autoironia. Con Non commettere atti impuri sono riuscito finalmente a fare questo passo, a coronare questo sogno. Il western aveva ormai fatto il suo corso e in me è cominciato a crescere il desiderio di esplorare nuovi territori e di assumere più controllo sui miei film; non che non lo avessi avuto fino a quel momento ma, forse anche ingenuamente, volevo limitare il più possibile i compromessi.”

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“Io non credo di aver meritato il linciaggio di cui sono stato vittima in seguito all’uscita di Labbra di lurido blu. Volevo gettare della luce su un problema che a metà degli anni settanta era molto forte… una parte della società che non riusciva ad analizzarsi, a guardarsi dentro; era in uno stato conflittuale con se stessa: da una parte c’erano i desideri, le voglie, e dall’altra il peso dei tabù ancora forti che schiacciava le volontà. Il film ha avuto un discreto successo di pubblico che ha scelto di non dar peso alla critica che mi massacrava. Forse non sono riuscito nei miei intenti, ma almeno, se queste aggressioni fossero uscite fuori da una analisi degli intenti e contenuti della pellicola, allora, sarebbe stato sopportabile; invece era tutto gratuito e immotivato.”

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Al 64mo Festival di Venezia

Eugenio Ercolani


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