Se ricordare è un dovere e se il riconoscimento del valore politico e civile di tale memoria non può essere un’acquisizione naturale ma il frutto di un’educazione oltre che dell’istruzione, come educare a ricordare? Come insegnare Auschwitz? (Luigi Monti)
Come ricordare Auschwitz?
di Stefano Levi Della Torre
Un amaro scetticismo non concede più credito all’antico motto “historia magistra vitae”. La storia, si dice, non può guidarci, perché gli eventi, se pure si ripetessero, appaiono in contesti sempre inediti. Eppure, quando invochiamo, e giustamente, la memoria di Auschwitz “perché l’orrore non si ripeta”, di nuovo invochiamo la storia come maestra, come avvertimento.
Certo, la scrittura di storia non è tutt’uno con la memoria: almeno nelle intenzioni, la storiografia tenta di ricostruire con obiettività gli eventi in quanto passati, mentre al contrario la memoria – individuale o collettiva – seleziona soggettivamente i fatti che percepiamo come attuali per noi, in qualunque tempo si siano verificati, seleziona ciò che avvertiamo agire sul nostro presente, sulla nostra identità e coscienza in atto, e sprofonda il resto nell’oblio, o, se ci crea troppi problemi, nella rimozione. La memoria è lo spessore temporale, geologico, del nostro presente. La storia è maestra in quanto sappiamo tradurla nei termini della nostra memoria, interiorizzandola come nostra esperienza e coscienza. Allora la storia ci offre materiali e nozioni che possono influire sui nostri criteri di giudizio e di comportamento.
Henri Atlan ha osservato che il termine Zecher (il “ricordare” in ebraico) appare nel testo biblico come annuncio di una svolta decisiva nelle vicende: “E Dio si ricordò di Noè e degli animali chiusi nell’arca”, e da quel momento le acque del diluvio cominciarono a defluire; “E Dio si ricordò di Israele oppresso in Egitto”, e da qual momento cominciò il processo di liberazione dalla schiavitù.
Lo Zecher appare così nell’accezione di “memoria del futuro”, memoria di una via d’uscita dalla situazione data. E questa è la funzione positiva della nostra memoria: un investimento morale e intellettuale per il futuro.
Scriveva Primo Levi: occorre testimoniare “perché il mondo conosca se stesso”, conosca di quali estremi mali siano capaci gli esseri umani; e ancora: “è successo, dunque può di nuovo succedere”. Qui l’accento cade non sul carattere invero unico di quell’evento estremo, ma piuttosto sul fatto che, essendo accaduto, ha dimostrato la sua possibilità di accadere, di non essere più unico, ma anzi di potersi ripetere.
Se Auschwitz è unico, c’è però un’enfasi su quell’unicità che può portare fuori strada, isolando lo sterminio come qualcosa di così atrocemente straordinario da costituire un monumento o idolo negativo. Se vogliamo trarne qualche insegnamento e non solo un vessillo tragico di identità (“siamo stati vittime di una tragedia unica”) dovremo assumere l’idea non solo della sua ripetibilità ma anche della sua confrontabilità con altre tragedie.
Auschwitz è unico non perché sia inconfrontabile, ma al contrario perché riassume in sé e porta al limite i caratteri di tutte le tragedie possibili prodotte dall’uomo: dai genocidi allo sterminio degli africani durante le deportazioni schiavistiche, dalla strage armena al gulag staliniano, dai massacri di Pol Pot a quelli di Pinochet e di Videla, dalle guerre balcaniche a quelle africane…
Sì che in ogni discriminazione, demonizzazione, sterminio e genocidio del passato, del presente o del futuro possiamo leggere qualcosa che è in Auschwitz, senza tuttavia che ogni fatto atroce sia equiparabile a quell’estremo, a quella combinazione gigantesca di ideologia, di tecnologia e burocrazia volta a tradurre i criteri della produzione industriale e della sperimentazione scientifica nelle procedure della schiavizzazione e dell’uccisione di massa.
E’ vero, l’equiparazione ad Auschwitz di ogni crimine collettivo è argomento che ricorre nella logica revisionistica: attraverso l’equiparazione o si vuol sminuire l’estremo di Auschwitz o si vuole enfatizzare la portata dei crimini che di volta in volta si intende denunciare. Ma confrontare non è la stessa cosa di equiparare: confrontare non vuol dire dare ugual peso, bensì riferirsi alla memoria di Auschwitz come lente di ingrandimento che ponga in luce ogni crimine contro l’umanità.
Dunque “memoria magistra”. Tuttavia la memoria ha i suoi difetti. La memoria implica una stilizzazione dei fatti, una cristallizzazione di stereotipi. Ne I sommersi e i salvati Primo Levi ha sottolineato criticamente questa tendenza. La stilizzazione porta a semplificare: di qua i carnefici, di là gli innocenti. Ma il confine tra vittime e carnefici non è così netto; nemico al recluso è anche l’altro recluso, in feroce competizione per sopravvivere. Tra vittime e carnefici le responsabilità non sono confondibili, ma tra le une e gli altri c’è la vasta “zona grigia” del compromesso, del collaborazionismo (in massima parte coatto) con la forza e col potere. Non è attraverso la stilizzazione, la semplificazione che “il mondo conoscerà se stesso”, che l’essere umano, ciascuno di noi, potrà prendere atto di quali pulsioni lo muoverebbero sotto l’effetto della costrizione e in situazioni estreme.
La memoria può essere anche pre-giudizio: in base alla memoria di altre secolari persecuzioni – pogrom, cacciate, roghi… – troppi non compresero il carattere inedito della “soluzione finale”; per via di memoria si preferì credere che il nazismo avrebbe costituito una ripetizione più grave di atrocità già sperimentate nel corso della storia. La memoria fu allora impedimento a cogliere l’inedito, ispirò interpretazioni riduttive dei fatti e delle tendenze.
La memoria può essere poi degradata, ripiegata a costituire un monumento celebrativo della propria identità autoreferenziale ed etnocentrica: chi è stato vittima dell’estremo si proclamerà allora depositario di un credito inesauribile al cospetto del mondo, di un diritto all’assenza di scrupoli in ogni atto dichiarato di “legittima difesa”, postuma o preventiva. La memoria brandita come scudo, che ripara da ogni critica, e autocritica, l’uso vittimistico della memoria delle vittime e dei perseguitati può consumare, dilapidare quella memoria secondo la logica aberrante dell’interesse privatistico in atto pubblico e universale. (Così come può essere scagliata dalla parte opposta, non avete diritto di difendervi perché quando lo fate producete vittime, proprio voi che siete stati vittime, ecc).
La memoria volta al futuro è invece la memoria interrogativa, la memoria dei problemi che le atrocità passate ci pongono tutt’ora dinanzi: quali interessi e atteggiamenti; quali forme mentali, e passività e indifferenza minacciano di riprodurre; ora, situazioni in cui i diritti umani possono venire sacrificati? E che cosa fare per prevenire o combattere queste tendenze? Quali principi hanno permesso a qualcuno di salvare vite resistendo in quel tempo alla perversione del senso comune e al conformismo?
La memoria ci pone in primo luogo questa domanda che, se pur nasce dal passato, resta viva anche per il presente e per il futuro: come è potuto scaturire, dal cuore stesso della civiltà qualcosa come Auschwitz? Come accade che una democrazia si rovesci nel suo opposto, in regime totalitario? Quali umiliazioni politiche, economiche, militari (nella fattispecie dei tedeschi dopo la sconfitta nella 1° guerra mondiale) può generare consenso di massa a regimi di terrore e a politiche di terrorismo? Quale vittimismo aggressivo (e tale fu quello nazista che si lamentava vittima del complotto bolscevico-giudaico-democratico) poté e potrà di nuovo istigare l’odio, e le fantasmagorie demagogiche dei “capri espiatori”?
Sono domande che discendono da Auschwitz, e che ci dispongono ad un’attenzione allarmata sul mondo e su noi stessi: ci invitano ansiosamente ad imparare a ricordare gli indizi anche iniziali di una china, possibilmente prima che il processo arrivi ai suoi esiti di discriminazione, persecuzione e sterminio.
Ora, i dilemmi intorno all’intervento militare nel conflitto serbo-bosniaco, nell’assedio serbo di Sarajevo, nell’aggressione serba nel Kossovo si mossero a suo tempo sullo sfondo della memoria dello sterminio nazista, della critica postuma alle inerzie colpevoli di allora: e lo stesso sfondo memoriale sta dietro all’opera del Tribunale internazionale dell’Aia contro i crimini collettivi politico-militare.
Ma tra le indicazioni che la memoria ci affida per attrezzarci a prevenire catastrofi c’è il ricordo dei “giusti”, di quanti con atti piccoli o grandi hanno saputo opporsi alla perversione del senso comune e alla minaccia del potere e della forza, hanno affrontato l’accusa di “tradire la patria” identificata col regime dominante e l’asservimento conformistico a quel regime. Se oggi molti di noi possono discutere di queste cose, è perché sono stati aiutati, salvati dall’anticonformismo che incrinava la compattezza della persecuzione.
La memoria della tragedia è anche memoria dell’anomalia del bene, dello spiraglio di futuro che quella anomalia ha tenuto aperto in quella notte. Tutt’una con la memoria della tragedia, con la memoria di come funziona il male, è la memoria degli atti e dei principî che hanno trasceso quel male, e che rappresentano indicazioni tutt’ora fondative per il nostro giudizio e il nostro comportamento.
Eppure sembra ci sia più spontaneo ricordare più il male che il bene. Perché è forse più facile la memoria del male sofferto che del bene ricevuto? Forse perché il male sofferto ci fa sentire in credito, mentre il bene ricevuto ci fa sentire in debito. E non solo in debito di riconoscimento e di riconoscenza, ma anche dell’impegno di farci carico, noi stessi, di quei valori o principî di coscienza, di lucidità e di coraggio che hanno ispirato chi ha operato con giustizia a nostro favore. E ci preoccupa di dover restituire al mondo quella stessa giustizia, di essere chiamati ad agire anche noi controcorrente, e di sopportare anche noi le accuse di tradimento del senso comune e della solidarietà con i “nostri”, right or wrong, quando le vie del male e della sopraffazione siano eventualmente le vie seguite da chi ci è più prossimo.
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Come educare a ricordare?
di Luigi Monti
A sfogliare il catalogo delle offerte della memoria è possibile trovare anche la “Partita della Memoria”, che il 27 gennaio di qualche anno fa vide affrontarsi in campo personaggi “illustri” dello sport e dello spettacolo. Promossa dal Comune di Roma e presentata, fra gli altri, dal sindaco della capitale, da un ministro della Repubblica, dal presidente della Rai e da quello della Comunità Ebraica, l’iniziativa di beneficenza aveva fra l’altro lo scopo di raccogliere fondi per la costruzione del museo della Shoah della capitale.
Ora, io non so se il Parlamento Italiano intendesse questi come “momenti pubblici di riflessione” quando nel luglio del 2000, a stragrande maggioranza, ha promulgato una legge che dichiara il 27 gennaio, anniversario della liberazione del campo di Auschwitz, “Giorno della memoria”, nel quale la collettività è invitata a ricordare il genocidio degli ebrei d’Europa, avvenuto durante la seconda guerra mondiale per opera della Germania nazista, dei paesi sotto il suo dominio e di tutti i governi, fra i quali il nostro, di ispirazione razzista e fascista.
Indipendentemente da ogni considerazione su quel circo mediatico nel quale sciacalli e “professionisti della Shoah” sono riusciti a trasformare il 27 gennaio, e al di là di ogni ragionevole dubbio riguardo a una memoria che, imposta per decreto, rischia di trasportare Auschwitz dalla coscienza collettiva alla pomposa retorica delle commemorazioni ufficiali, una questione importante è comunque stata esclusa tanto dalla discussione parlamentare in merito alla legge quanto dai tentativi fatti in questi anni per attuarla: la memoria storica, questa memoria in particolare, prima ancora che un dovere costituisce un problema.
Un problema non tanto di carattere storiografico (poche pagine di storia in questi ultimi quarant’anni sono state sviscerate come quella dello sterminio ebraico), quanto pedagogico: se ricordare è un dovere e se il riconoscimento del valore politico e civile di tale memoria non può essere un’acquisizione naturale ma il frutto di un’educazione oltre che dell’istruzione, come educare a ricordare? Come insegnare Auschwitz?
Ed è un problema pedagogico anche nel senso più specifico del termine, dato che l’articolo 2 della legge invita a momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado… Di ogni ordine e grado. Questa specificazione, sebbene credo per il Parlamento e le Università italiane non rappresenti molto di più che una formula da Gazzetta Ufficiale, pone ogni educatore che decida di lavorare sulla memoria, di fronte a un compito da far tremare i polsi: accompagnare l’infanzia oltre i cancelli di Auschwitz.
Io credo che infanzia e Shoah non siano due universi concettuali inconciliabili, non più. Non lo sono stati per i carnefici di ieri – circa un milione e mezzo sono i bambini assassinati dal nazismo – non possono più esserlo nemmeno per l’educatore di oggi.
Roberto Innocenti ha provato a fonderli raccontando lo sterminio per immagini, decidendo coraggiosamente di mostrare “zone d’ombra” che disegnatori e illustratori, soverchiati dall’ingerenza di editori e pedagogisti, normalmente tendono a sfumare. Lo fece per la prima volta nel 1985, attraverso gli occhi ingenui e lucidi, di Rosa Bianca, sconvolgendo l’ignava editoria italiana (che per cinque anni, nonostante all’estero fosse già diventato un classico, si rifiutò di pubblicarlo) con la scelta, comune a quella della protagonista della sua storia, di infrangere il tabù dello sguardo, il verboten che la storia adulta da sempre impone all’infanzia; lo ha rifatto diciotto anni più tardi con La storia di Erika, racconto vero di un destino sfiorato dal vortice della Storia.
Se si osserva la sua trentennale carriera, dall’esordio con Cappuccetto Rosso e altri racconti di Perrault fino al pluripremiato L’ultima spiaggia, si può dire che solo nel descrivere lo sterminio l’illustratore toscano giunga a una vera e propria narrazione per immagini, quasi che l’illustrazione si imponesse là dove parola e riflessione sembrano arrestarsi stupefatte. Le didascalie di Rosa Bianca e il racconto di Erika, nella loro sobrietà, non aggiungono nulla alle tavole, che potrebbero tranquillamente reggere il peso dell’affabulazione senza il supporto del testo. Innocenti dimostra anzi una volta di più come le parole siano in generale molto più permeabili a un modello di memoria didascalico e moralistico.
Una superficiale e strumentalizzabile pedagogia dell’orrore, da Norimberga in avanti, continua a somministrarci scabrose immagini di repertorio, nella convinzione che lo choc provocato dai bulldozer che ammucchiano cadaveri a Bergen-Belsen o dai corpi martoriati delle vittime degli esperimenti di Mengele contengano un’intrinseca e catartica forza educativa.
Credo al contrario che la reiterazione di questo approccio visivo, a parte solleticare il gusto voyeuristico e morbosamente pornografico del nostro immaginario, abbia solo reso quelle immagini sacrileghe, mute e senza sostanza. L’immagine dell’orrore senza la mediazione di alcuna interpretazione non aiuta a chiarire e anzi allontana la comprensione del percorso politico che portò al più agghiacciante dei crimini di Stato.
Innocenti ha ben impresso negli occhi il repertorio fotografico dello sterminio: si pensi solo in Rosa Bianca al bambino che, con le mani alzate, si arrende, terrorizzato, alla violenza del soldato e del laido borgomastro, evidente citazione della celebre fotografia di uno dei rastrellamenti del ghetto di Varsavia, o alla spettrale “soggettiva” della protagonista quando, giunta in una radura in mezzo al bosco, scopre i volti esangui dei piccoli prigionieri dietro al reticolato di un campo, che rimanda ad alcuni memorabili scatti di Margaret Bourke-White alla liberazione di Buchenwald.
Ma la raffinata minuziosità con cui il pennello dell’illustratore toscano è capace di rendere dettagli e particolari, non nasce da una pretesa che si possa definire realistica, così come il suo occhio archeologico solo secondariamente persegue un obiettivo documentario.
La rarefatta lievità delle sue tavole sollecita piuttosto uno sguardo riflessivo e “indiziario”, soprattutto attraverso la rappresentazione di uno spazio
“che diventa narrativo. Anche quello che c’è dietro alla finestra è importante. […] mi piacerebbe che, nella storia di Rosa Bianca, dove ci sono strade che portano in qualche luogo, la gente sapesse cosa troverà camminando oltre, cosa c’è al di là. Mi interessa fornire una planimetria del luogo”.
E allora, la corsa affannosa di Rosa Bianca che, inseguendo una camionetta delle SS in mezzo alla foresta, giunta in una radura, scopre l’agghiacciante verità, suggerisce l’ipotesi che la verità, in quegli anni di guerra, non fosse poi così abilmente celata e che solo tre chilometri di bosco separassero il centro abitato della Weimar di Goethe e di Schiller dal campo di Buchenwald e ancor meno Lublino dal crematorio di Majdanek. Certo, nel bosco, bisogna avere il coraggio di entrarci.
Fulminante racconto visivo dagli accenti biblici, La Storia di Erika narra di una bambina strappata al suo destino ed “esposta”, come Mosè nel Nilo, da un treno in corsa verso Auschwitz. Non ci sono persone in questa storia o meglio, il viaggio che forzatamente intraprendono, trasforma gli individui in una massa indistinta e senza volto. Disegnati di spalle o attraverso inquadrature che ne nascondono sempre il viso, hanno già perduto la loro identità, prima ancora che l’“ordine del campo” li annichilisca definitivamente.
Si può dire che il treno, con la sua ossessionante, monocromatica ripetitività, sia il vero protagonista del racconto. Non c’è tavola che non abbia il treno come soggetto principale. Nell’immaginario di Innocenti esso sembra assurgere a emblema della Shoah, più ancora del campo e del forno crematorio. La deportazione burocraticamente organizzata in ogni parte d’Europa dalle Ferrovie dello Stato che, per tutta la durata della guerra, si resero disponibili a qualsiasi tipo di trasporto, applicando sempre lo stesso tariffario (Erika, probabilmente, come minore di quattro anni, viaggiò gratis), coadiuvate dall’Agenzia di Viaggi dell’Europa Centrale che spediva indifferentemente – stesso ufficio, stessa fatturazione – i turisti nelle loro località preferite e gli ebrei alle camere a gas: ecco l’essenza stessa dello sterminio nazista che i binari di Innocenti sanno mostrare nella sua perturbante “normalità”.
Non è dato, al bambino come all’adulto, cogliere la realtà senza mediazioni, così come non possiamo cogliere la Storia se non attraverso le storie. “Diffidate dalle parole che non si possono mettere al plurale”, ci allertava Bichsel. “Le parole che non si possono mettere al plurale sono parole particolarmente patetiche, da usare con cautela”.
Oggi, si ha l’inquietante impressione che il vociare ininterrotto delle commemorazioni ufficiali rappresenti l’altra faccia del tabù: parlare in continuazione per non dire l’essenziale. La memoria visiva di Roberto Innocenti e la silente impalpabilità fiabesca delle sue tavole ci suggeriscono l’idea che le storie vengano prima e siano più importanti della Storia che da sempre rappresenta uno dei più efficaci strumenti del potere per svilire e annichilire gli individui e le loro trame di vita.
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piccoli consigli al ventenne che in italia studia la shoah
di Alberto Cavaglion
1. Il ricordo ha una funzione etica, è un valore. Ricordare un avvenimento del passato, o una persona che non c’è più, significa compiere un’azione virtuosa, ma non è sufficiente a capire. Ricordare e capire non sono la stessa cosa. La memoria non è la storia, anche se oggi c’è la tendenza a sovrapporre le due funzioni…
2. Stai attento a chi, trattando questi argomenti, cerca di sedurti con le emozioni… Guarda con simpatia l’insegnante che cerca di conservare freddezza… Chi racconta storie di persecuzioni fermandosi alle sole emozioni non andrà lontano.
3. Ricordare è un’attività che fa stare bene se la pratichi… Anche l’oblio è parimenti confortevole, soprattutto per chi è stato ferito. Guarda con rispetto chi oppone resistenza a parlare in pubblico dei suoi guai passati e ti fa capire che vuole ricordare, sì, però a certe condizioni, lontano dai riflettori.
4. Il Vuoto di memoria (o se preferisci, l’Amnesia) è una categoria fondamentale nella cultura del nostro paese… Il problema è che nessuno ne parla perché nessuno è innocente: ognuno si porta dietro il carico di amnesie della parte a cui appartiene…
5. In ogni ordine di scuola, non si può spiegare la Shoah se prima non si spiega la storia degli ebrei, della loro cultura, della loro religione. Gli ebrei sono esseri umani come tutti gli altri, la loro storia è fatta di luci e di ombre… Adesso bisogna trovare il coraggio di dire che il fascismo non è solo Salò e l’Italiano, ebreo e non, è stato Fascista.
6. La domanda cruciale non è tuttavia: “Chi sono gli ebrei?” – che prevede una risposta cangiante a seconda delle epoche storiche. La domanda cruciale è piuttosto: “Quale ruolo possono avere gli ebrei in una società moderna?” – domanda più semplice, che deve porsi anche chi ebreo non è…
7. La Shoah non può essere imposta dall’alto, per circolare ministeriale… Non sono cose che si possano imporre per decreto. Attento a chi vuole imporre dall’alto il Dovere di ricordare. Quando s’impongono cose dall’alto, il ribellarsi è giusto…
8. … Ogni essere umano, che non sia un robot, non resiste troppi anni sui libri e sulle carte di Auschwitz… Le storie che leggerai sono sgradevoli nella sostanza, e anche nella forma, sempre che l’autore sia in buonafede. Chi racconta il Lager per confortarti, di solito è in malafede. Le storie su Auschwitz non sono state concepite per confortarti, ma per affliggerti. Se hai bisogno di essere confortato, leggi un altro libro, vai a vedere un altro film.
9. Non esiste solo la deportazione razziale. Della deportazione politica, di cui si parlava fino a poco tempo fa in termini esclusivistici, nessuno più si ricorda…
10. Diffida delle mode. Oggi la Shoah è una moda… Di essere diventati di moda, beninteso, i primi a rallegrarsene sono gli stessi ebrei, i quali dimenticano che al periodo delle vacche grasse farà seguito un nuovo periodo di vacche magre. In attesa che le cose si plachino, e si trovi la “misura giusta”…, sarà bene esercitare la memoria eticamente intesa…, rivalutando la moralità della Resistenza, caduta in disgrazia per colpa di chi venti, trent’anni fa non aveva percepito quali baratri si possono aprire a causa degli eccessi della memoria ideologica.
(da Alberto Cavaglion, Ebrei senza saperlo)
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Materiali
Le leggi razziali (a cura di Luigi Ambrosi) qui, documenti sui crimini di guerra italiani e tedeschi qui, altri materiali su ForumScuole e su vivalascuola.
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L’occhio del lupo
Nemmeno Hitler fece quel che fece da piccolo
L’esercizio della memoria, bon. Ma se non è accompagnato dall’azione vigile nel presente? Da più di un decennio è invalsa l’abitudine di portare gli studenti ad Auschwitz. Per alcuni (pochi, molti?) di loro, è una gita come un’altra, e questo è noto. E dovrebbe esserlo anche il fatto che neppure Hitler fece quel che fece da subito – nemmeno il falò ai libri. La Lega Nord, ossia un partito che si dichiarò fuori dello Stato con l’esplicito obiettivo di farne uno a parte, esplicitamente razzista, avrebbe dovuto essere messa al bando a suo tempo – con gli extraparlamentari, a sinistra, si faceva con disinvoltura anche quando non amavano giocare con la P38. La sua lotta, la Lega, avrebbe dovuto condurla, per ovvie ragioni politiche, fuori dal parlamento, ne fosse stata capace, manu militari. E noi tutti avremmo dovuto essere un po’ più svegli. Siamo ancora in tempo. Forse.
(michele lupo)
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La settimana scolastica
Libri all’indice nel Veneto leghista. Gli scrittori che nel 2004 hanno firmato un appello in favore di Cesare Battisti, prima ostracizzati da un assessore della provincia di Venezia, ora vengono messi al bando nelle scuole. Mentre nelle biblioteche comunali, nel silenzio generale, stanno sparendo le opere degli autori politicamente scomodi.
Sala vuota per mafia a Castelvetrano. Vuoto il teatro comunale, disertato dagli studenti, “comandati” dai dirigenti scolastici a restare in classe. Così si è trovato da solo – insieme a un pentito – il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, andato a un incontro per ricordare Paolo Borsellino.
Scuole vuote anche a Forcella. Da quando è cominciata la guerra tra i clan le famiglie hanno paura di mandare i bambini a scuola; nelle prime classi delle elementarici sono assenze del 50 per cento.
Questo in un contesto di estremo ritardo rispetto alla situazione europea, in un Paese in cui un giovane su cinque non studia né lavora: i ragazzi “non più inseriti in un percorso scolastico-formativo, ma neppure impegnati in un’attività lavorativa, sono poco più di due milioni, il 21,2% tra i 15-29enni (anno 2009), la quota più elevata a livello europeo”. E’ quanto emerge dal rapporto dell’Istat ‘Noi Italia‘.
In un contesto in cui, nonostante le normative italiane lo vietino espressamente, non è difficile trovare classi anche con 34/35 alunni, anche a causa dell’aumento del numero degli alunni per classe deciso dal governo per tagliare 87 mila cattedre in tre anni: con grave danno per la sicurezza e la didattica. A questo proposito il Tar del Lazio ha accolto la prima class action italiana contro la Pubblica amministrazione: quella sulle cosiddette classi-pollaio. Lo annuncia il Codacons, che l’anno scorso aveva promosso l’azione collettiva contro il ministero dell’Istruzione.
E in cui si cominciano a capire i tagli delle risorse per le Università. La Flc-Cgil ha ricostruito tutti i tagli subiti dall’università dal 2008 al 2010 e ha fatto una proiezione per il triennio 2011-2013: ne emerge un quadro preoccupante. Per quanto riguada il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), la principale fonte di entrata per le università statali, partendo dai 7,41 miliardi di euro del 2008 si arriverà ai 6,45 miliardi del 2013: un taglio netto del 12,95%, pari a circa 960 milioni di euro. Il diritto allo studio sarà tagliato del 49,09%, le residenze studentesche per il 40,44%.
Sempre secondo un calcolo della Flc-Cgil per mantenere in piedi il meccanismo delle graduatorie dei supplenti, lo Stato spende più di quanto spenderebbe se gli stessi venissero stabilizzati. Basterebbe infatti assumere definitivamente 100 mila precari della scuola per risparmiare in tre anni 500 milioni di euro.
A meno di due mesi dall’entrata in vigore della legge, il Tribunale di Trani solleva la questione di legittimità costituzionale del “collegato lavoro”. Nel mirino la norma che riduce l’ammontare del risarcimento al lavoratore assunto illecitamente con un contratto a tempo. Nella sua ordinanza il giudice parla di “violazione di una quantità incredibile di norme costituzionali”, a cominciare dall’articolo 3 sul principio di uguaglianza.
Un’altra battuta d’arresto il Ministro lo trova a Milano, dove, come è successo a Torino e a Napoli, la Proposta della Gelmini di uno stipendio in più agli insegnanti considerati meritevoli è stata bocciata nelle prime scuole in cui si è già votato.
Il 28 gennaio sciopero dei lavoratori della Fiom contro l’accordo FIAT: «Dal 1925 il più grave atto antidemocratico verso il mondo del lavoro» secondo Giorgio Cremaschi, presidente del comitato centrale del sindacato. Sciopero anche della scuola indetto da Cobas e Cub. Anche ReteScuole sostiene lo sciopero e invita il popolo della scuola ad aderirvi.
Intanto prosegue la raccolta di firme per la petizione al Presidente della Repubblica: No ai tagli, no ai finanziamenti alle private.
(Vivalascuola è curata da Alessandro Cartoni, Michele Lupo, Giorgio Morale, Roberto Plevano, Lucia Tosi)