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Vivalascuola. Prove Invalsi, pro e contro

Creato il 11 aprile 2011 da Fabry2010

Vivalascuola. Prove Invalsi, pro e contro

Dal 10 al 13 maggio si svolgeranno le prove Invalsi (con eventuale posticipo su richiesta delle scuole dal 17 al 20 maggio). Prove che grandi discussioni hanno sempre provocato nel mondo della scuola, accentuate quest’anno da considerazioni relative alla politica scolastica del governo in carica. Vivalascuola ha già dedicato alle prove una puntata, adesso propone un approfondimento attraverso una doppia intervista. Abbiamo invitato a rispondere alle nostre domande, a favore delle prove Roberto Ricci, Responsabile del Servizio Nazionale di Valutazione (INVALSI), e contro di esse Marina Boscaino, insegnante e giornalista (l’Unità, il Fatto Quotidiano) e membro del comitato tecnico-scientifico dell’associazione professionale Proteo Fare Sapere.

1. Che cosa sono esattamente le prove INVALSI, a chi sono destinate e a che cosa servono? Lei cosa ne pensa?

ROBERTO RICCI
Le profonde trasformazioni culturali, sociali ed economiche che hanno attraversato la maggior parte dei paesi economicamente più avanzati a partire dal secondo dopoguerra hanno prodotto radicali trasformazioni, anche sulla scuola che già da diversi decenni è divenuta accessibile a tutta la popolazione. Questi cambiamenti si sono, almeno in parte, tradotti in riforme dei sistemi scolastici con conseguenze anche sul sistema di valutazione centrale e locale, ponendo in primo piano il problema della comparabilità dei risultati all’interno del medesimo paese, ma anche tra paesi differenti, quindi con sistemi scolastici ed educativi profondamente diversi.

Dall’inizio degli anni 2000 è stato creato l’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e Formazione (INVALSI). L’INVALSI ha come principale, anche se non esclusivo, compito istituzionale quello di promuovere rilevazioni nazionali, mediante il Servizio Nazionale di Valutazione (SNV), e internazionali sui livelli degli apprendimenti raggiunti dagli studenti italiani in alcuni ambiti disciplinari e in taluni momenti del loro percorso scolastico.

La creazione di sistemi di rilevazione che permettano di disporre di dati utili e affidabili per effettuare analisi e confronti sincronici e diacronici presuppone l’utilizzo di prove in grado di rispondere a queste esigenze. Nella quasi totalità dei casi si è quindi fatto ricorso alle cosiddette prove standardizzate, ossia a prove la cui peculiarità è quella di esser costruite secondo modalità trasparenti e codificate e, soprattutto, di prevedere modalità di correzione riproducibili, quindi, nel limite del possibile, indipendenti dal soggetto che effettua la correzione stessa.

L’attuale SNV si basa su prove standardizzate per la misurazione della comprensione della lettura e della matematica per tutti gli allievi delle classi II e V primaria, I secondaria di primo grado, III secondaria di primo grado (in questo caso la prova è all’interno dell’esame di Stato) e II secondaria di secondo grado.

MARINA BOSCAINO
Quelle Invalsi sono prove che servono a valutare alcune competenze acquisite dagli alunni scolarizzati in alcune precise fasce di età. Esse rappresentano una delle possibili forme di valutazione degli apprendimenti (come l’autovalutazione, la valutazione formativa, il “portfolio”) in un panorama di metodi e modelli culturali plurimi. Hanno come riferimento la filosofia delle grandi indagini internazionale, come Ocse Pisa, IEA e altre.

Ci sono vari elementi da tenere in considerazione per spiegare cosa ne penso. I test Invalsi si collocano all’interno di un quadro di riferimento europeo, che vede – legittimamente e in maniera scientificamente significativa – la valutazione nelle sue differenti declinazioni (del sistema, degli istituti, degli insegnanti, degli studenti) come uno degli strumenti necessari da una parte per la rendicontazione (accountability) – ossia per rendere conto ai legittimi e naturali portatori di interesse (famiglie, comunità, decisori politici, il Paese) dei risultati che il sistema scolastico è in grado di conseguire; dall’altra per il miglioramento del sistema stesso. Tutto ciò sulla scia di quanto accade nei principali paesi UE.

Analoghi tipi di prove vengono somministrate nella maggior parte di essi, dove però esiste una cultura della valutazione storicamente e scientificamente determinata, supportata da investimenti significativi anche in termini di quote percentuali rispetto alla spesa totale per l’istruzione. Esistono istituti, insegnanti, pratiche interessati da formazione e finanziamenti destinati. Si aggiunga il fatto che sia dal punto di vista metodologico che contenutistico i test Invalsi riflettono una tendenza ad accogliere modalità di indagine che in Europa sono diffuse perché compatibili con le scelte didattico-pedagogiche dei Paesi del Nord, in particolare di area anglofona.

Unendo queste tre osservazioni e inserendole nella situazione italiana, ci rendiamo conto che nel nostro Paese, oltre alle considerazioni di carattere pedagogico, didattico e metodologico, i test Invalsi ne stimolano di ulteriori. Essi, infatti, vanno a cadere in una situazione e in un quadro di disinvestimento pluriennale sulla scuola e sull’istruzione e in un’assenza clamorosa di una pratica valutativa significativa dal punto di vista culturale e scientifico, ancor meno economico. L’impressione è che si tratti di un’operazione di maquillage in salsa pseudo-europea che coglie la scuola totalmente impreparata, sia dal punto di vista delle risorse professionali da mettere in campo che da quelle economiche.

Tendo, nella mia professione, ad una cultura capace di intercettare l’esigenza di cittadinanza attiva che oggi più che mai deve essere l’obiettivo della scuola. Di una scuola che da questo punto di vista è rimasta l’unico presidio in un contesto che riserva alla costruzione del cittadino poca o alcuna attenzione. Credo quindi che anche sulla materia oggetto di questa puntata di Vivalascuola non potrò non partire dal punto di vista che prediligo e che credo il più significativo. Ho evitato di addentrarmi in tecnicismi, che peraltro non conosco abbastanza bene come presumo faccia il mio interlocutore, perché credo che un’intervista come quella immaginata qui – non tra individui “esperti” allo stesso modo ma con punti vista diversi, ma tra individui con prospettive e approcci completamente differenti – preveda che ciascuno faccia la propria parte. La mia è quella che deriva dalla mia esperienza di docente, di cittadina, di giornalista.

2. Molti media parlano, a proposito delle prove Invalsi, di “quiz” o di “quizzone”. Che cosa pensa di questa definizione? Secondo lei le prove hanno una loro validità scientifica oppure no?

MARINA BOSCAINO
Non credo che il problema vada affrontato da questo punto di vista. Nel tempo la ricerca dell’Invalsi si è discostata dalla semplice erogazione di quiz. L’Invalsi non propone quiz, ma somministra prove – abbastanza articolate – finalizzate ad accertare i livelli di competenza di lettura e di matematica nei vari ordini di scuole. Non rileva saperi, ma capacità d’uso di essi. Indaga, cioè, il modo in cui vengono selezionate, fatte interagire ed elaborate dagli studenti le conoscenze acquisite per affrontare un compito cognitivo. L’obiettivo – anche dei quesiti V/F e a risposta multipla – è quello di investigare, ad esempio, i processi di lettura, definiti a livello nazionale e internazionale (individuare informazioni, integrare e interpretare, riflettere e valutare). Si determina una centralità del cosiddetto “problem solving.

Il punto a mio avviso importante è che questo non è l’obiettivo principale della nostra impostazione didattica, meno “meccanizzata e basata sul valore del pluralismo e della sinergia tra conoscenze, competenze e capacità, e con esso dei saperi analitico-critici. Quelle modalità di indagine sono piuttosto lontane da quelle usate in gran parte delle scuole. Le competenze che si vanno a verificare non sono quelle centrali nella determinazione del processo di apprendimento della nostra scuola oggi.

Occorrerebbe, in primo luogo, inaugurare, da questo e da altri punti di vista una discussione – corroborata da studi e ricerche – non già per determinare l’egemonia di una o dell’altra impostazione. Ma per capire se – considerata la differenza che muove l’arte di insegnare, “la technè” nella scuola italiana e la ratio di queste prove – sia possibile e anche opportuno che la scuola tutta si adoperi per degli aggiustamenti. Ammesso che fosse considerato preferibile orientare l’azione didattica su finalità differenti (disperdendo o no, a seconda del livello di mediazione, un patrimonio considerato altrettanto utile anche in sede internazionale) ci si chiede come sia possibile portare avanti l’operazione in modo tanto superficiale, senza – ripeto – un minimo di coinvolgimento, dibattito, preparazione dei docenti. Considerato anche che gli alunni delle scuole superiori hanno per propria stessa natura esperienze più stratificate e dunque più tenaci, difficili da modificare.

Non discuto dunque la validità delle prove in sé, quanto la opportunità di erogarle in una scuola impreparata – in primo luogo culturalmente – a riceverle. Quanto alla scientificità, non saprei. Ho visto ragazzi molto brillanti fallire all’esame di terza media proprio la prova Invalsi, là dove avevano conseguito risultati eccellenti nelle altre prove. E’ una questione di punto di vista, di finalità, di preparazione.

ROBERTO RICCI
L’uso dei termini “quiz” o, peggio ancora, “quizzone” è estremamente riduttivo e del tutto inadeguato. Parlare di “quiz” significa non aver mai letto o guardato con un minimo di attenzione una delle prove proposte dall’INVALSI. Sovente mi capita, anche se con piacevoli eccezioni, di essere contattato da giornalisti che nulla sanno della differenza tra un quiz e una prova volta alla misurazione dei livelli di apprendimento. Immaginiamoci come sia difficile far comprendere che le prove predisposte dall’INVALSI non sono nemmeno dei test, ma, appunto, delle prove vere e proprie. Esse si compongono di quesiti di varia natura e forma. Non ci sono solo le domande a risposta multipla, ma anche domande aperte, richieste di argomentazioni, motivazioni, dimostrazioni, ecc. Parlare di “quiz” non solo fa indebitamente pensare ai quesiti di una trasmissione televisiva, ma sposta il ragionamento su un campo che, chiunque abbia un minimo di conoscenza di ciò che avviene realmente nel mondo della scuola, sa non essere quello che veramente aiuta a capire il significato della misurazione degli apprendimenti.

La costruzione di prove oggettive standardizzate è il frutto di un lungo e delicato processo, sovente non completamente conosciuto anche da molti degli utilizzatori delle prove stesse e dai diversi soggetti che operano nel mondo della scuola e della formazione in generale. La formulazione di una prova standardizzata, specie se potenzialmente rivolta a centinaia di migliaia di studenti, è l’esito di un lavoro profondamente e realmente interdisciplinare che coinvolge esperti con formazione ed esperienze specifiche molto differenti tra di loro. Non sempre è noto che la costruzione di una prova standardizzata richiede grandi sforzi e tempi lunghi, mai inferiori ai 15-18 mesi, e il rispetto di una procedura molto articolata e rigorosa. Se si desidera che una prova standardizzata sia veramente informativa e che consenta di fornire dati realmente interpretabili da tutti i soggetti interessati a comprendere i fenomeni oggetto di misurazione, è necessario che essa si basi su quadri di riferimento trasparenti e noti a tutti i soggetti interessati, i cosiddetti stakeholder.

I quadri di riferimento per la valutazione (QdR) rivestono un ruolo fondamentale, spesso sottovalutato, quando non addirittura ignorato, per la costruzione delle prove standardizzate. Mediante il QdR vengono definiti gli ambiti (ad esempio: Comprensione della lettura, grammatica, Spazio e figure, Relazioni e funzioni, ecc.), i processi cognitivi (ad esempio: individuare informazioni date nel testo, formulare semplici inferenze, ecc.) e i compiti oggetto di rilevazione, delimitando quindi il campo rispetto al quale sono costruite le prove. Il QdR permette, inoltre, di definire e circoscrivere il valore informativo delle prove che in base a esso vengono costruite, chiarendone la portata e i limiti. Inoltre, il QdR costituisce il documento fondamentale per gli autori delle prove, per gli esperti che ne curano la revisione sia sotto il profilo dei contenuti che sotto quello misuratorio, per i docenti che sono chiamati a interpretare i risultati dei loro allievi e per i cosiddetti stakeholder che utilizzano i risultati delle rilevazioni standardizzate per valutare i livelli di apprendimento garantiti dal sistema educativo nel suo complesso.

Il primo passo per la costruzione delle prove standardizzate consiste nell’analisi qualitativa ex ante, volta principalmente alla verifica della rispondenza delle proposte di domande, solitamente effettuate da gruppi anche numerosi di autori, ai quadri di riferimento. Gli autori delle domande delle prove INVALSI sono insegnanti di scuola, con un’ampia esperienza didattica e disciplinare. Attualmente l’INVALSI si avvale della preziosa e insostituibile collaborazione di oltre 250 docenti che lavorano in gruppi aperti nei quali è sempre ammessa l’adesione di nuovi insegnanti.

L’analisi qualitativa effettuata prima del pre-test delle domande è molto importante poiché consente di eliminare quelle che non rispondono alle finalità della rilevazione e, soprattutto, di effettuare alcuni adattamenti formali delle domande stesse per poterne migliorare le proprietà psicometrico-misuratorie. Terminata la fase preliminare di analisi delle domande, esse devono essere testate (field trial) su campioni statistici per verificare su base empirica la validità delle scelte effettuate e, soprattutto, se i quesiti che compongono la prova hanno le caratteristiche misuratorie che siano in grado di garantire la robustezza dei dati che da essi si possono trarre.

Terminata l’analisi quali-quantitativa di ciascun quesito si giunge alla composizione della prova standardizzata conoscendone quindi, quanto meno in termini di stima su base campionaria, le caratteristiche principali, non solo sotto il profilo dei contenuti, ma anche sotto quello delle proprietà fondamentali della prova stessa intesa come strumento di misurazione.

La descrizione sintetica delle modalità con le quali devono essere costruite le prove standardizzate mette in evidenza come esse siano il frutto di un lungo processo scientifico interdisciplinare che sovente non è noto ai più. Non sempre è chiaro ai più che la composizione di una prova standardizzata, specie se rivolta all’accertamento su ampia scala dei livelli di apprendimento, non risponde agli stessi criteri che guidano la costruzione delle verifiche di classe. Una prova standardizzata deve essere in grado di misurare i risultati degli studenti all’interno di una scala di abilità/competenza molto lunga, dai livelli più bassi a quelli di eccellenza.

Come si è brevemente cercato di illustrare, la realizzazione delle prove dell’INVALSI non è altro che la costruzione di uno strumento di misurazione, analogo, mutatis mutandis, a quelli utilizzati nelle scienze sperimentali. Ciò significa che per poter disporre di prove affidabili in grado di fornire informazioni significative nessuna delle fasi richiamate succintamente può essere saltata o sottovalutata. Solo in questo modo è possibile fornire al mondo della scuola e a tutti coloro che a esso si interessano informazioni ricche e attendibili, rendendo quindi chiaro ed esplicito ciò che una prova standardizzata può dire e cosa non può dire, aspetto quest’ultimo molto delicato e certamente non meno importante di tutti gli altri brevemente richiamati.

3. Secondo lei da queste prove le scuole traggono più svantaggi o più vantaggi? Quale può essere la loro utilità in sede didattica?

ROBERTO RICCI
Se la scuola conosce bene gli aspetti che ho richiamato nella risposta alla domanda precedente, non può che trarre vantaggi dalle prove INVALSI. È ovvio che esse non si sostituiscono affatto alla valutazione dei docenti, né, tanto meno, vogliono farlo, ma possono fornire una solida base, comparativamente affidabile, per analizzare i frutti delle scelte autonome di ciascuna scuola su un piano comune a tutti gli allievi della scuola italiana.

All’inizio di ciascun anno scolastico l’INVALSI fornisce a ciascuna scuola, in forma assolutamente riservata nel pieno rispetto di un rapporto fiduciario che si fonda sul fatto che i dati di scuola sono restituiti solo alla singola scuola, analisi dettagliate. Esse sono articolate per classe, per prova, per domanda, per processi e per parti della prova. Inoltre, per consentire alle scuole di effettuare analisi più approfondite, i dati vengono anche disaggregati in base alla regolarità del percorso scolastico degli allievi, in base al genere, in base all’origine (autoctona, straniera, di prima e seconda generazione). I dati, siano essi di classe o di scuola, vengono sempre accompagnati da termini di paragone, come la regione, l’area geografica, l’intero Paese e, per le scuole secondarie di secondo grado, scuole della stessa tipologia.

Disporre di un’ampia e solida base di dati può essere utile per la scuola per avere un’informazione dei risultati raggiunti dai propri allievi sulle domande di una prova che è sempre corredata da guide didattiche che legano la prova stessa ai quadri di riferimento. In questo modo è possibile leggere gli esiti delle prove non solo in chiave di contenuti, ma anche rispetto ai processi cognitivi che esse stimolano, ai compiti richiesti e così via. Come si può vedere, si è lontani anni luce dai quiz, ma anche dai test. Ritengo che chiunque voglia affrontare queste questioni con onestà intellettuale non possa non riconoscere la differenza tra un quiz e una prova INVALSI.

MARINA BOSCAINO
Come si evince anche dalla risposta precedente, non si determina un vantaggio in sede didattica attraverso la semplice somministrazione di una prova; una prova che, per di più, intercetta un’impostazione e finalità differenti da quella praticate e seguite dalla scuola italiana. Né vedo particolari vantaggi dal punto di vista della ricerca didattica; che – nel momento in cui le prove fossero lo strumento che un ministero consapevole e attento alle necessità della scuola e agli apprendimenti degli alunni, capace di organizzare ricerca, strutture, investimenti economici e culturali volti al tema della valutazione – verrebbe fortemente indirizzata dallo studio dei dati, aggregati e disaggregati. L’impressione è che si tratti di un’operazione di facciata, di cui l’Invalsi è solo in minima parte responsabile. Non abbiamo bisogno di prove Invalsi per individuare alcuni punti estremamente critici del nostro sistema scolastico. Né abbiamo bisogno di risultati catastrofici per essere in grado di valutare l’inerzia, se non l’ostruzionismo, di chi ci governa. Faccio un esempio, tra tanti: le competenze in L1 dei ragazzi del professionale sono estremamente inferiori di quelle dei ragazzi di altri segmenti delle superiori. La risposta a questa emergenza è stata l’impoverimento ulteriore che la cosiddetta “riforma” ha determinato proprio nei professionali, in termini di risorse professionali e di diritto allo studio.

Vedo dunque – ma per il modo pedestre in cui l’operazione viene proposta/imposta e per l’assenza di criteri di preparazione alla somministrazione (e la preparazione dovrebbe essere soprattutto per gli insegnanti) – più svantaggi che vantaggi. Per i motivi che ho già spiegato, ma anche per una serie di altre conseguenze: per esempio lo zelo di alcune case editrici – senza un minino di riflessione e di confronto con il mondo della scuola – nella rincorsa a proporre le prove Invalsi come nuova fonte di appeal, confidando nell’acquiescenza acritica di una parte degli insegnanti e propagandando un’obbligatorietà che formalmente non ha alcun fondamento. Il rischio reale è che – senza la necessaria preparazione – si ibridi ulteriormente la didattica, da una parte continuando a seguire l’impostazione tradizionale, dall’altra volendo insistere nella strategia di imporre test senza riflettere sulle condizioni e sulle strategie attraverso le quali si fa oggi scuola in Italia. Un bricolage pericoloso, che potrebbe avere, tra i vari effetti, un ulteriore abbassamento dei livelli.

4. Molti affermano che gli insegnanti e le scuole vengono caricati di un lavoro aggiuntivo e che queste prove dovrebbero essere somministrate da operatori Invalsi. Lei che cosa ne pensa?

MARINA BOSCAINO
Penso che queste siano le intenzioni del ministero. I segnali ci sono tutti,  compreso il tentativo di imporre le prove in nome di una loro presunta obbligatorietà. Si ricordi che le prove alle superiori sono state “normate” da una nota ministeriale (30 dicembre 2010) che però non costituisce fonte vincolante di diritto, come le circolari: esse interpretano la legge e possono prevedere modalità applicative, ma non sono vincolanti né tantomeno possono fare sorgere diritti o obblighi, come ha stabilito la Cassazione. Dunque, se gli insegnanti riusciranno a rivendicare l’esigibilità dei propri diritti, queste intenzioni non si tradurranno in realtà concreta.

Esiste una lunga serie di appigli giuridici che spiegano la non obbligatorietà di queste prove, avallata anche dall’avvocato dello Stato Paolucci. Prima di tutto, comunque, la somministrazione delle prove Invalsi non rientra nelle mansioni contrattualizzate. Pertanto può essere rifiutata, come in moltissime scuole si è fatto. Sappiamo tutti molto bene che all’Invalsi ci sono pochissimi dipendenti e che sarebbe impossibile un loro intervento diretto nella somministrazione. Nell’eventualità, tuttavia, nessuna scuola può rifiutare di far somministrare i test direttamente da loro. Si tratta di un’ulteriore prova dell’insipienza del ministero e della sua sfacciata intenzione di continuare a fare leva su uno spirito di corpo e su un mal interpretato senso del dovere che hanno caratterizzato l’operato molti di coloro che lavorano a scuola (nonostante Brunetta). Accettare l’ennesima chiamata al volontariato sarebbe controproducente e allontanerebbe ulteriormente dal nostro Paese la possibilità di fondare una reale cultura della valutazione. La scuola – si sappia – non è contraria alla valutazione. È contraria a questo tipo di operazione da dilettanti allo sbaraglio.

ROBERTO RICCI
Certamente la realizzazione di una rilevazione su scala nazionale in modo che essa possa fornire dei risultati attendibili e robusti richiede il rispetto di un protocollo definito e articolato. Per rispondere in modo adeguato alla domanda è necessario, a mio giudizio, riflettere sul significato dell’intera operazione. La rilevazione degli apprendimenti di base (comprensione della lettura e matematica) effettuata dall’INVALSI è un’indagine per la scuola e non sulla scuola. Lo scopo della rilevazione è quello di fornire alle scuole dei dati sui quali esse possano effettuare delle comparazioni solide e robuste, ma, soprattutto, avviare azioni di riflessione e approfondimento per consolidare esiti positivi e migliorare risultati meno soddisfacenti.

Ciò premesso, nelle cosiddette classi campione la somministrazione delle prove viene realizzata da un soggetto esterno che svolge l’importante ruolo di garantire il rispetto dell’intera procedura e quindi dati solidi che è possibile utilizzare come termini di confronto. In tutte le altre classi la rilevazione è effettuata per avere dei dati sui quali lavorare in chiave didattica. È quindi del tutto evidente che nelle classi non campione il lavoro svolto dai docenti è per le loro scuole e non per l’INVALSI. Disporre di una solida base di misurazione di qualsiasi fenomeno è fondamentale per poterlo valutare. È del tutto evidente che la valutazione è qualcosa di più che la misurazione, ma è altrettanto chiaro che la seconda senza la prima risulti profondamente indebolita.

5. Secondo lei è necessario un sistema di valutazione nazionale che verifichi il raggiungimento di determinati standard di apprendimento da parte delle scuole? Pensa che le prove Invalsi siano adeguate a questo fine o siano da migliorare? Oppure è ipotizzabile qualche altro strumento migliore?

ROBERTO RICCI
Ritengo che un servizio nazionale di valutazione, specie per gli apprendimenti di base, sia fondamentale, soprattutto in un sistema scolastico come quello italiano che, come in tanti altri paesi occidentali, si fonda sull’autonomia della scuola. È indubbio che l’autonomia chiama valutazione, nel senso che è fondamentale che il sistema e le scuole abbiano degli strumenti per comprendere gli effetti principali di scelte autonome adottate in funzione della specificità della realtà in cui ciascuna scuola opera. E ciò è oltremodo vero per gli apprendimenti di base che devono essere garantiti a tutti e a ciascuno in tutto il Paese. Se non si dispone di adeguate misure si rischia di perdere di vista fenomeni che invece devono essere noti su base razionale e trasparente, specie quando questi possono mettere in crisi l’equità del servizio scolastico fornito dalle nostre scuole.

Sinceramente, credo che le prove INVALSI possano fornire un utile contributo in questa direzione. Con ciò non voglio dire che esse non siano migliorabili. Le sfide ancora aperte sono tante, specie verso la costruzione di prove, anche somministrate mediante computer, che consentano di cogliere al meglio le caratteristiche di ciascun allievo. In questo senso, l’istituto sta studiando la possibilità di costruire prove adattative in grado di rispondere meglio alle esigenze conoscitive per cui sono pensate. Prove di questo tipo si basano fondamentalmente su tecniche che permettono di somministrare agli studenti domande differenti in funzione delle risposte via via fornite, giungendo quindi a stime più precise dei livelli di preparazione. A questo riguardo, l’INVALSI partecipa a progetti di ricerca internazionali volti allo studio di tutte le implicazioni scientifiche e operative di questo tipo di prove.

MARINA BOSCAINO
Da tutto ciò che ho detto precedentemente emerge il mio pensiero: sono favorevole ad un sistema di valutazione nazionale, destinato – come accade nella maggior parte dei Paesi dell’UE – a individuare condizioni e percorsi di miglioramento del sistema scolastico nazionale. Il discorso continua a vertere sulle modalità attraverso le quali l’Italia sta tentando di affrontare questo problema. Come è noto a tutti, la Finanziaria del 2008 ha tagliato quasi 8 miliardi alla nostra scuola pubblica, non colpendo affatto quella paritaria; che – nonostante questo – è responsabile, come è stato dimostrato da recenti ricerche pubblicate, di una parte consistente della debacle delle prestazioni dei nostri studenti nei test internazionali.

Per quanto riguarda il disinvestimento sull’istruzione, ormai cronicizzato da noi, disinvestire sulla cultura nei periodi di crisi è una scelta e non un dogma. “L’istruzione e la ricerca sono pilastri per la futura sostenibilità della nostra società”: così Angela Merkel. La manovra quadriennale tedesca di 80 miliardi, che dallo scorso anno punta a ridurre il deficit di quel Paese dal 5 al 3% entro il 2013, salvaguarda 12 miliardi di investimenti pubblici in ricerca, sviluppo e istruzione. Fuori dall’Europa, Obama ha ribadito lo stesso concetto. In Italia la scuola viene considerata da tempo una fonte di risparmio, contravvenendo a tutte le tendenze dei paesi democratici.

Inoltre, cosa andiamo a valutare con le prove Invalsi? Una scuola messa dal governo e dall’amministrazione in condizioni ottimali per svolgere la sua funzione che si rifletta sugli apprendimenti? O una scuola poverissima, dove tutto – a cominciare dalla dimensione socio-culturale dell’insegnante – viene svalutato, deriso, delegittimato? La tanto decantata Finlandia non ha mai riformato la propria scuola, che fornisce performance eccezionali. Ha solo mantenuto alta la considerazione dei propri docenti.

Abbiamo forse assistito – dopo quella dei cicli di Berlinguer, di cui non sono stata una fan acritica, ma alla quale riconosco un’impostazione di carattere didattico-pedagogico – a tentativi di riforma che non coincidessero con manovre inedite per entità e per modalità (riduzione finanziaria prioritaria)? L’“epocale riforma” di Gelmini rappresenta la punta di diamante di questo cammino di distruzione della scuola della Repubblica. La valutazione di un sistema è la parte conclusiva di un processo dinamico di miglioramento della scuola: occorre prima pensare all’idea di scuola. Occorre prima pensare ad una revisione epistemologica dei paradigmi delle discipline, ad un come, ad un perché, ad un cosa insegnare, prima di imbarcarsi in scimmiottamenti velleitari. Occorre prima dare una nuova concretezza ai dettami della scuola della Costituzione, i cui principi sono oggi ridotti a rimembranze sentimentali di noi “vetero“.

Nella scuola superiore – in particolare al Liceo – esiste certamente un atteggiamento di conservazione della tradizione. Ci si è mai chiesti perché, nonostante le Raccomandazioni del Consiglio di Europa, gli Assi culturali, i mutamenti di cui il mondo è stato scenario in pochi decenni (innovazioni tecnologiche, nuovi linguaggi, proliferazione di nuove conoscenze etc.) e un multiculturalismo nei fatti, rappresentato dalle miriadi di soggetti appartenenti a etnie e culture altre, questo atteggiamento prevalga? Perché – io credo – non c’è cura da parte di chi decide né per la conservazione né per la trasformazione culturale. Non ci sono principi organizzatori comprovabili che non sia il risparmio di cassa; non c’è ricerca; non c’è dimensione culturale, ma solo da economia di bottega.

Le necessità e i progetti sulla scuola sono altri. E sbaglia chi pensa che la “riforma” concretizzi esclusivamente un taglio. Attraverso l’annullamento del 10% del monte ore globale della scuola superiore si producono effetti nefasti non solo in termini di violazione di diritto al lavoro e allo studio, ma anche di diritto alla cittadinanza, al pensiero critico, all’emancipazione. I docenti avvertono che una scuola superiore che taglia ore di Italiano, Economia, Diritto, Chimica, i laboratori, accorpa la Storia e la Geografia, rinuncia all’investimento su Cittadinanza e Costituzione, annunciandone con fanfare mediatiche l’ingresso nei curricola, ma poi di fatto diminuendo drasticamente i saperi, non è affidabile.

C’è poi un enorme problema: il dislivello che esiste tra le prestazioni di aree differenti del Paese: si arriva dall’eccellenza assoluta di Bolzano ai risultati scarsissimi di molte zone del Sud. Si pensa davvero che da test omologanti da Trento a Caltanissetta, da Crotone a Sondrio possa nascere una scuola nuova e migliore? So che don Milani in questo periodo non va molto di moda. Ma ricordo una sua frase: Non c’è ingiustizia peggiore che fare parti uguali tra diseguali. Un esempio per tutti: la I prova di Italiano dell’Esame di Stato, identica per tutti i segmenti di scuola superiore. Una falsa democrazia porta a somministrare agli studenti di tecnico e professionale analisi del testo, saggio breve, tema storico così come a quelli del Liceo. Chi ha più frecce al proprio arco? Come mai statisticamente gli studenti del professionale scelgono massicciamente il tema-rifugio, quello generale?

6. Può servire uno sguardo a quanto avviene in Europa? Ci sono esperienze europee di cui poter fare tesoro?

MARINA BOSCAINO
In Paesi come l’Inghilterra, la Francia, la Svezia si è cominciato a studiare e a lavorare per una cultura della valutazione da prima degli anni ’80. Ciononostante gli ultimi dati ci dicono che quei Paesi investono sulla valutazione rispettivamente lo 0,4, 0,2 e lo 0,1% delle spese totali in istruzione. Si continua, cioè, ad investire costantemente in questo settore. Credo che il quadro europeo – il diverso approccio che la gran parte dei Paesi UE ha rispetto alla valutazione – emerga in maniera esplicita dalle altre risposte. Voglio però aggiungere un elemento, non indifferente.

Abbiamo sentito spesso ripetere a Valentina Aprea, presidente della Commissione Cultura della Camera e grande sostenitrice del casalingo e atipico modello di valutazione che ci stanno proponendo, che sogna un sistema di valutazione che abbia come referente l’Ofsted inglese. Non ricorda però, l’on. Aprea, che l’Ofsted è un organismo completamente indipendente dal governo e che relaziona direttamente in Parlamento. In Francia gli enti valutativi dipendono dal ministero, ma sono molteplici. In entrambi i casi – infatti – ci sono reti di soggetti, definiti e creati nel corso dei decenni, che sono responsabili della valutazione e che, attraverso pubblicazioni dettagliatissime – si pensi a L’Etat de l’Ecolepubblicizzano, diffondono, ragionano sui dati attraverso una condivisione significativa con le scuole, gli insegnanti, la società civile.

Mai attraverso le prestazioni degli studenti vengono valutati gli insegnanti. La farraginosità e il dilettantismo dell’operazione nostrana, unita all’ossessione – inaugurata da Brunetta e ripresa dalla “meritevolissima” Gelmini – del merito e dell’antifannullonismo, determinano qualche perplessità rispetto alla destinazione d’uso che le prove Invalsi possono avere da noi. L’avvocato dello Stato Paolucci, argomentando la non obbligatorietà delle prove Invalsi per i docenti, conclude il suo documento così:

E’ del resto auspicabile (oltre che ora imposto a chiare lettere dalla stessa legge) che si possa passare dalla valutazione della “qualità complessiva del sistema educativo” alla valutazione di ciò che è ad essa strumentale, in termini di prestazioni professionali del personale docente e dei dirigenti scolastici, ciascuno nell’ambito della specificità delle rispettive competenze. Ciò è tanto più necessario, ove si ponga mente che l’Italia è l’unico paese europeo, assieme alla Romania ed alla Lettonia, a non avere attivato alcuna modalità di valutazione né individuale né collettiva degli insegnanti”.

Un corto circuito, un lapsus che dir si voglia, quantomeno sospetto.

Un’altra considerazione: il concetto di “valore aggiunto(che tutti i Paesi che coltivano la valutazione individuano con la determinazione delle condizioni di contesto – socio-economiche-culturali – in cui i ragazzi vivono per determinarne la valutazione) non è considerato da noi: eppure, chiunque abbia insegnato in zone disomogenee da quei punti di vista sa perfettamente quanto esso sia dirimente rispetto alle prestazioni dei ragazzi. La necessità di formalizzare l’esperienza, di segnare il punto, ha fatto dimenticare al ministero – oltre ai fondi per pagare gli insegnanti – alcuni elementi fondamentali. Un’altra prova della superficialità di chi ci governa.

ROBERTO RICCI
Certamente in questo frangente storico è fondamentale tenere sempre in considerazione cosa avviene negli altri paesi europei ed extra-europei. L’INVALSI cerca anche in questa direzione di contribuire a spostare il dibattito su un piano più ampio di quello strettamente locale. Negli ultimi anni la quasi totalità dei paesi europei ha avviato la costruzione di servizi di valutazione nazionali. Naturalmente ciò è spesso accompagnato da un acceso dibattito, talvolta anche aspro. Ma, a mio giudizio, ciò non è negativo. L’importante è che il dibattito non sia condotto solo su base ideologica, sconfinando, come spesso accade in Italia, nel benaltrismo che è una forma di conservatorismo, talvolta anche un po’ provinciale.

7. Alla luce della legge 150 (Brunetta) (retribuzione in base alla performance individuale), alle proposte del ministro Gelmini (sulla valutazione del merito degli insegnanti e delle scuole) e del Decreto Milleproroghe (che prevede un apparato nazionale di valutazione delle scuole composto da ispettori, Indire e Invalsi), è realistico supporre che le prove Invalsi possano essere lo strumento di una nuova politica scolastica di valutazione e retribuzione degli insegnanti? Che insomma la valutazione degli apprendimenti servirà per valutare gli insegnanti?

ROBERTO RICCI
Se mi si permette la semplificazione, non si può confondere un ingrediente con la torta. Al di là delle affermazioni, a volte anche un po’ originali, che ho letto su molta stampa, ciò che a mio giudizio conta è ciò che realmente avviene. Nelle risposte alle domande precedenti credo di aver delineato le caratteristiche principali delle prove dell’INVALSI che, sottolineo, riguardano solo i due apprendimenti di base principali, ma che non si estendono all’intera gamma degli apprendimenti prodotti dalla scuola del nostro Paese. Mi si permetta di dire che la domanda tende a confondere scopi e finalità del servizio nazionale di valutazione con quelli di un sistema di valutazione che, naturalmente non potrà non tenere in considerazione anche gli apprendimenti, ma che dovrà basarsi su tanti altri elementi e aspetti che dovranno essere attentamente definiti e condivisi, anche con la comunità scientifica.

MARINA BOSCAINO
Nessuno ammetterà esplicitamente che tra gli obiettivi possa esserci anche questo. Nei Paesi europei alla valutazione degli insegnanti e degli istituti accade che siano legati scatti di retribuzione. Ma – ripeto – in una logica ben più seria e autorevole. Ci sono tanti elementi da tenere dentro. Ci siamo chiesti perché in molti Paesi è possibile la chiamata diretta degli insegnanti (un’altra delle insidie ventilate dalla maggioranza?). Perché il senso dello Stato altrove impedisce la compravendita di posti di lavoro e l’annullamento di diritti legittimi. Affidare ai dirigenti, a comitati interni alla scuola, ad enti dipendenti dal ministero la valutazione dei docenti, nel nostro Paese, è una scommessa azzardata e pericolosa.

Quotidianamente assistiamo al senso di una premialità che non dipende realmente dalle competenze professionali di chi viene (o verrebbe) premiato. Il ministro stesso è l’esempio di chi ha usato scorciatoie per arrivare e che riveste un ruolo pur non avendo esibito né competenze specifiche nel campo dell’istruzione, né doti politiche o etiche a livello nazionale. Quando sento parole come “merito” o “premio” – che purtroppo anche l’opposizione non esita a pronunciare – mi insospettisco. Perché troppe volte si determinano indici di non gradimento del lavoro di un docente a causa di elementi o requisiti che non sono esattamente la sua incapacità professionale. E la necessità di affermare il Pensiero Unico, l’ossessione antisessantottina, il premier che parla di insegnanti che “inculcano” principi e caldeggia l’esodo verso le scuole private non evocano in me l’idea della serenità e dell’imparzialità del giudizio. Concludo dicendo che il tentativo di Brunetta di equiparare la scuola a tutta la Pubblica Amministrazione testimonia lo sguardo corto di chi vuol far cassa e usare il randello, invece che ottimizzare la specificità della scuola: la collegialità, la progettualità, il pluralismo.

8. Per sua esperienza personale, c’è qualche affermazione fatta da chi la pensa diversamente da lei che secondo lei ha qualche fondatezza? O che comunque provenga secondo lei da sincera convinzione e non da posizioni precostituite?

MARINA BOSCAINO
Certamente ci sono molte persone in buona fede, che è bene continuino ad esprimere le proprie idee. Nelle numerose occasioni in cui mi è capitato di dover parlare di questo argomento e in cui mi sono trovata contrapposta a dei sostenitori della bontà dell’“operazione prove Invalsi”, ho avuto a che fare con colleghi zelanti, volenterosi e certamente capaci di gestire la vicenda. Ma sempre con gente non dotata di quella dimensione professionale che potremmo considerare “politica”, di quel respiro critico generale che transita attraverso l’assoluta priorità di alcuni principi, il riconoscimento del limite dei propri diritti e doveri, la capacità di leggere qualsiasi evento che riguardi la nostra professione in un quadro generale e non come evento in sé. Eseguendo, certamente in modo diligente e con impegno, ma senza cogliere la collocazione nell’insieme, il contesto generale, le conseguenze – di carattere politico, culturale e in termini di violazione di diritti – dell’accettare che chi ci governa possa continuare al far leva su quello zelo e quella buona volontà. Eludendo impunemente procedure, inverando leggi attraverso le semplici parole, rendendo la nostra scuola sempre più povera di fondi, di strumenti, di senso.

ROBERTO RICCI
Certamente sì. In questi primi mesi del 2011 ho girato per tutta Italia incontrando più di 10000 insegnanti e ogni volta mi confronto con professionisti interessati a capire le caratteristiche, le finalità e gli scopi del Servizio nazionale di valutazione. La quasi totalità delle persone che incontro è aperta a un’operazione come quella del SNV ed è sinceramente interessata che essa si traduca in un vantaggio per il nostro sistema educativo.

È importante che tutti sappiano che quasi nessun insegnante solleva obiezioni sugli oneri che il SNV comporta per loro. Ciò che i docenti vogliono giustamente sapere è quali siano le implicazioni del SNV sull’insegnamento e spesso temono un appiattimento della didattica sulle prove. Condivido a pieno questa preoccupazione e l’INVALSI si spende quotidianamente per evitare che ciò avvenga. Le soluzioni sono molteplici come prove diverse, differenti nelle tipologie delle domande, basate su quadri di riferimenti di respiro e densi di significato. Tuttavia, lo strumento veramente efficace per eliminare il rischio del cosiddetto teaching to the test è la conoscenza da parte dei docenti e dei dirigenti scolastici del servizio nazionale di valutazione, delle sue potenzialità e limiti.

Non serve e non è opportuno, né auspicabile, modificare la didattica in funzione di prove, peraltro sempre differenti, o acquistare testi specifici. Sarebbe uno spreco di opportunità, di occasioni e di risorse. È più che sufficiente che i ragazzi facciano qualche prova delle edizioni passate e disponibili sul sito dell’istituto. È importante che la didattica continui a rimanere nelle mani dei suoi professionisti, ossia i docenti, concentrando magari gli sforzi sulla riflessione di alcune suggestioni che possono derivare dalla lettura congiunta degli esiti delle prove stesse, dei quadri di riferimento e dei testi delle prove.

In questo senso sono ormai diffusi in tutto il Paese, da Nord a Sud esempi interessantissimi di scuole del primo ciclo che hanno avviato riflessioni e approfondimenti di grande spessore. Come sempre accade, credo che, istituzionalmente parlando, i nostri migliori testimoni non siano tanto le nostre dichiarazioni, ma l’esempio concreto, operoso e, sovente, silenzioso delle scuole del primo ciclo che ormai da tre anni si sono avviate lungo un cammino che sta dando frutti interessanti e ricchi di potenzialità.

9. C’è qualcosa di significativo su questo argomento che non le ho chiesto e che lei vuole aggiungere?

ROBERTO RICCI
Sì. Le cose delle quali vorrei parlare sono tante, ma mi limito a sottolinearne alcune. In questi ultimi anni l’INVALSI sta lavorando in uno spirito di collaborazione fattiva con centinaia di scuole e migliaia di docenti. Credo che questo patto d’onore di reciproca collaborazione sia il tesoro più prezioso dell’istituto. Grazie a questa collaborazione le nostre prove sono migliorate e potranno continuare a farlo anche in futuro. I dati che restituiamo sono sempre più vicini alle esigenze conoscitive delle scuole per le loro riflessioni didattico-metodologiche e ciò grazie allo sforzo dell’istituto di ascoltare e capire quali sono le esigenze vere delle scuole.

Credo che siamo arrivati al punto. Se si comprende che il ruolo dell’INVALSI è quello di fornire prove, dati, interpretazioni e strumenti di analisi in grado di aiutare tutti a capire meglio il sistema educativo nazionale, allora si sarà fatto un passo decisivo per dotare il Paese di un’importante infrastruttura immateriale, strategica per la crescita futura. Su questa linea ognuno ha le proprie responsabilità. In primo luogo quelle dell’INVALSI stesso che deve mantenere alta la qualità del servizio offerto, continuando a investire in ricerca sia sulle modalità di costruzione delle prove sia sul disegno della rilevazione. Ma ci sono anche le sfide per il mondo della scuola che deve continuare a sollecitare l’istituto e le istituzioni affinché il sistema migliori, si radichi e divenga sempre più utile. Infine, vi sono anche le responsabilità delle istituzioni che devono rafforzare l’INVALSI, garantendogli autonomia e stabilità, non solo di risorse, ma anche programmatiche in modo che il servizio nazionale di valutazione possa contare su tempi e condizioni di lavoro adeguati per la costruzione di una vera infrastruttura in grado di contribuire allo sviluppo della risorsa più importante del Paese, ossia il suo capitale umano.

MARINA BOSCAINO
Sì. Credo che usare la resistenza che una parte consistente della scuola italiana sta legittimamente opponendo all’operazione “valutazione” non solo rispetto ai test Invalsi, ma anche alle sedicenti “sperimentazioni (fallite) sulle scuole medie e sui docenti delle superiori, come prova che la scuola voglia sottrarsi alla valutazione tout-court; strumentalizzare questa resistenza (che invece è testimonianza di una rinnovata dinamica di partecipazione democratica e di capacità critica di ostacolare progetti velleitari e pericolosi); considerarla il paradigma della nostra inerzia, dell’acquiescenza, del fannullonismo, del corporativismo e della difesa ad oltranza del “posto fisso” – tutte interpretazioni degli attuali strateghi delle politiche scolastiche – sia la manifestazione non solo dell’incapacità di comprendere la complessità della scuola e della professione del docente; ma anche, e soprattutto, della mala fede con la quale questo governo guarda al mondo dell’istruzione.

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Materiali

Qui si può visitare il sito dell’Invalsi e prendere visione delle attività e dei dati.

Altri interventi per il NO: di Marco Barone, Francesco Mele, Giorgio Tassinari e Bruno Moretto,  Girolamo De Michele, Giovanna Lo Presti.

Altri interventi per il SI: di Maria Piscitelli, Maurizio Tiriticco, Giampaolo Sbarra, Paolo Fasce.

Una disamina metodologica: di Gabriele Boselli.

La grammatica nelle prove Invalsi: lettura dei risultati e riflessioni didattiche di Adriana Arcuri e Maria Rosa Turrisi.

I risultati degli anni precedenti: difficoltà per Sud e stranieri: Fiorella Farinelli e Gilberto Bettinelli.

Una pagina dedicata su ForumScuole.

Il documento dell’Avvocato dello Stato Laura Paolucci: Le prove Invalsi sono obbligatorie per le scuole?

La Direttiva del Miur.

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L’occhio del lupo
Più invalsi per tutti

Più invalsi per tutti. Li vogliamo severi e cazzuti. Gli invalsi. Non vediamo l’ora. Che arrivino. Li aspettiamo. Così sapremo quante cose non sappiamo. Datevi da fare, abbiamo detto ai ragazzi. C’è stato qualche ingenuo che lo ha detto. Epperò è andato oltre. Ha spiegato per filo e per segno perché si fanno, gli invalsi. Così sapremo quante cose non sappiamo, noi insegnanti. Soprattutto lo sapranno loro. Quelli di viale Trastevere. C’è stato qualche ingenuo che ai ragazzi glielo ha detto. Qualcun altro ha aggiunto che magari vedremo di mischiare le carte. Si copia si suggerisce si risolve. Geni. Perché ci son pischelli che non gli par vero di fare una prova schifa. Che magari se lo levano davanti, il prof insopportabile. E che ci provi a suggerire, lo denunciano.
(michele lupo)

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La settimana scolastica

La precarietà in primo piano questa settimana, che si conclude, sabato 9 aprile, con manifestazioni a Roma, Napoli e tante altre città italiane. Più flash mob nelle capitali europee. Giovani, stagisti, ricercatori, laureati costretti nei call center, hanno raccolto l’appello di “Il nostro tempo è adesso“.

Complice di tanta popolarità è anche il Presidente del Consiglio, prodigo non solo di consigli, come l’invito alle giovani neolaureate ad andare tutte al bunga bunga (e chi non ricorda il consiglio a una precaria di sposare un milionario?), ma anche di gesti concreti: un reality show su una rete televisiva Mediaset mette in palio 10 anni di stipendi per docenti precari. Una vergogna, dice la Flc Cgil.

Intanto diventano una valanga i ricorsi dei precari della scuola contro il ministero dell’Istruzione. Secondo il Ministero sono 65.000 i supplenti che hanno i requisiti per rivolgersi ai giudici del lavoro e avanzare una richiesta di risarcimento danni per la mancata immissione in ruolo. Anzi, in una recente sentenza non solo risarcimento danni, ma anche immissione in ruolo del docente precario con tre contratti a tempo determinato.

Il MIUR punta ad arginare sui contratti su organico di fatto, quelli al 30 giugno, sebbene per gli stessi contratti molti precari hanno avviato ricorso per la trasformazione al 31 agosto, dato che molti posti al 30 giugno risultavano in realtà essere su organico di diritto.

Nel dibattito di questi giorni su come risolvere il problema della stabilizzazione del personale precario della scuola (ma anche di altri settori) interviene il giuslavorista Pietro Ichino, che sulle pagine del Corriere della Sera lancia la sua proposta (Tutti di ruolo, nessuno inamovibile. Una proposta sul nodo dei precari). Qui un’analisi critica della proposta. Critico anche il segretario generale della Flc Cgil, Domenico Pantaleo, che spiega:

“L’idea del professor Ichino è sempre la stessa e cioè che si deve abbassare‘ la quota dei diritti per potere lavorare. E questa è un’idea che io assolutamente non condivido. Noi siamo invece convinti che, con un’azione programmata, è possibile arrivare a stabilizzare tutti i precari della scuola”.

Anche per i neolaureati i dati continuano a essere impietosi. Secondo l’indagine Istatsull’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro” nel secondo trimestre 2009 circa 2,2 milioni di giovani fino a 34 anni laureati o diplomati (corrispondenti al 47,1% del totale) possiede un titolo di studio superiore a quello richiesto per svolgere la propria professione.

Dall’ultimo rapporto Almalaurea emerge che in media, l’11% dei laureati, dopo quattro anni dal conseguimento del titolo, giudica “per nulla efficace” la propria laurea rispetto al lavoro trovato. Su un mondo universitario che ogni anno sforna oltre 290.000 laureati, ben 32.000 di fatto metteranno la pergamena nel cassetto e non la utilizzeranno più.

Intanto vengono resi noti gli organici per il prossimo anno scolastico e si scopre l’entità dei nuovi tagli, per esempio a Milano succede questo e questo in Lombardia. Mobilitazioni contro la nuova tranche di tagli: il 14 aprile in Emilia Romagna occupazione simbolica di tutti gli Uffici Scolastici, dall’11 al 15 aprile a Milano presidio permanente davanti all’Ufficio Scolastico.

Sul fronte delle prossime prove Invalsi, mentre continuano le polemiche sulle prove, il Ministero chiarisce che le prove «sono condotte dall’istituto su un campione di scuole attraverso rilevatori esterni che seguono direttamente la fase di erogazione e di tabulazione delle prove. Non è quindi richiesto agli insegnanti delle classi comprese nel campione alcun tipo di intervento straordinario o aggiuntivo». Il campione comprende: 2300 scuole superiori, 1981 scuole medie e 1778 scuole elementari.

Il ministero poi «invita anche le scuole non comprese nel campione a utilizzare le prove come un’ulteriore opportunità offerta per compiere un’analisi delle competenze dei loro studenti. Ma è una scelta dei singoli istituti», ricorda Giovanni Biondi.

E per concludere con una nota positiva: mentre si aggravano i problemi dovuti alla mancanza di fondi delle scuole persino per far fronte alla ordinaria amministrazione (la carta igienica!), il Ministro Gelmini tranquillizza l’opinione pubblica e dice che, a differenza di quanto accadde nell’ultimo Governo Prodi, oggi i soldi ci sono grazie ai risparmi sulla voce ‘pulizia’: se i presidi chiedono contributi alle famiglie, lo fanno per attaccare il Governo.

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Il decreto Brunetta qui.

Il vademecun della CGIL sulle sanzioni disciplinari qui.

Tutti i materiali sulla “riforma” delle Superiori qui.

Per chi se lo fosse perso: Presa diretta, La scuola fallita qui.

Guide alla scuola della Gelmini qui.

Le circolari e i decreti ministeriali sugli organici qui.

Una sintesi dei provvedimenti del Governo sulla scuola qui.

Un manuale di resistenza alla scuola della Gelmini qui.

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Dove trovare il Coordinamento Precari Scuola: qui; Movimento Scuola Precaria qui.

Il sito del Coordinamento Nazionale Docenti di Laboratorio qui.

Cosa fanno gli insegnanti: vedi i siti di ReteScuole, Cgil, Cobas, Cub.

Spazi in rete sulla scuola qui.

(Vivalascuola è curata da Nives Camisa, Alessandro Cartoni, Michele Lupo, Giorgio Morale, Roberto Plevano, Lucia Tosi)



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