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Vivalascuola. Università: nessuna valutazione o troppe valutazioni?

Creato il 12 marzo 2012 da Fabry2010

Pubblicato da vivalascuola su marzo 12, 2012

Vivalascuola. Università: nessuna valutazione o troppe valutazioni?

Non già che mancassero leggi… le leggi anzi diluviavano… Con tutto ciò, anzi in gran parte a cagion di ciò, quelle gride, ripubblicate e rinforzate di governo in governo, non servivano ad altro che ad attestare ampollosamente l’impotenza de’ loro autori; o, se producevan qualche effetto immediato, era principalmente d’aggiunger molte vessazioni a quelle che i pacifici e i deboli già soffrivano. (A. Manzoni, I Promessi Sposi)

La valutazione nell’Università e il valore legale del titolo di studio
di Ludovico Pernazza

Sulla valutazione nell’Università si sono pronunciati ministri, economisti, sindacati, associazioni, personalità del mondo della ricerca e dell’istruzione e – ovviamente – membri del personale universitario e degli Enti di ricerca; fare ordine nella questione è un’impresa difficile quasi quanto rintracciare nella storia l’origine delle discussioni circa l’altro tema di questo intervento, l’abolizione del valore legale del titolo di studio. Perciò, più modestamente, mi limiterò ad illustrare un possibile punto di vista sulle due questioni, oggi più che mai parallele, dando nel frattempo qualche informazione in merito.

Premetto che, lavorando all’Università, io sono anche parte in causa e perciò di certo non imparziale, tanto più dal momento che aderisco al movimento denominato Rete29Aprile che ha contestato l’introduzione della recente legge 240/2010 sull’Università (“Gelmini“) e che con forza sostiene la necessità di mantenere il carattere pubblico e libero dell’Università, aprendola possibilmente più di quanto sia ora alle istanze della società.

Senza valutazione?
Valutare è certamente un’attività complicata da compiere, ma a mio modo di vedere al momento sta diventando difficile anche parlarne; e l’ostacolo più difficile da superare non è, paradossalmente, l’ignoranza della questione, bensì la sovraesposizione che la parola “valutazione” ha subito negli ultimi anni.

Infatti, nella narrazione che le istituzioni e il flusso di informazioni costruiscono costantemente attorno a noi, alcune parole vengono introdotte non tanto per il loro significato, quanto perché hanno la capacità di fare presa nell’immaginario collettivo; e “valutazione” si trova proprio in questa situazione (accompagnata, ad esempio, da “eccellenza“, “autonomia“, “meritocrazia“, per rimanere soltanto in questo ambito).

C’è bisogno che l’Università si sottoponga finalmente ad una valutazione“, “È tempo di smettere con i finanziamenti a pioggia“, “Vanno premiati i meritevoli“: chi non ha sentito ripetere questi proclami? Il semplice ripeterli tante volte, si sa, li fa poi entrare nel pensiero comune, come nel Mondo nuovo di Huxley. Anzi, come chi si occupa di linguaggio e di comunicazione sa bene, insieme ad essi entrano allora nel pensiero comune anche le loro “implicature conversazionali: evidentemente, l’Università non sa cosa sia la valutazione, riceve finanziamenti a pioggia e non premia i meritevoli; inoltre, si deduce, la valutazione, la scelta dei finanziamenti e il dare premi solo ad alcuni sono degli obiettivi positivi da perseguire che porrebbero fine a questa situazione insoddisfacente.

Anche se una discussione nel merito non sarebbe affatto scontata né inutile, ad esempio per chiarire se i finanziamenti a pioggia esistano ancora e quanto siano diffuse e forti le distorsioni nella selezione dei migliori, il problema è che queste altre convinzioni indotte, vere o false che siano, sono assorbite forse persino inconsciamente tramite una comunicazione artefatta a questo scopo, per cui la visione della realtà ne può risultare pesantemente deformata. Solo mantenendo un atteggiamento costantemente critico si può sperare di acquisire elementi utili per formarsi un giudizio (almeno parzialmente) indipendente.

E veniamo al nostro caso particolare: in coerenza con l’immagine offerta da questo “discorso” pubblico proprio in questi mesi sta cominciando la sua opera la neonata “Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca” (ANVUR) cui è stato affidato il compito di realizzare la Valutazione della Qualità della Ricerca per gli anni 2004-2010 (VQR 2004-2010). Il sistema universitario farà dunque presto l’auspicato salto di qualità? Personalmente penso che le Università, i Dipartimenti e anche i singoli docenti debbano certamente soggiacere ad un sistema che ne controlli l’attività; mi pare un principio giusto, anzi, per l’intera pubblica amministrazione. Ma almeno per l’Università, caso in cui mi sento di parlare, pretendere che questo sia chissà quale illuminante novità, come talvolta è stata presentata la VQR 2004-2010, e quindi aspettarsi dei risultati maiuscoli, mi pare piuttosto bizzarro; ed ora proverò ad illustrare perché.

O troppe valutazioni?
Precisiamo: nel dire che non mi pare una novità non mi riferisco al fatto che esistano classifiche degli atenei mondiali o italiani, compilate da istituti di ricerca diversi e frequentemente pubblicate sui giornali; anche perché quelle classifiche utilizzano a volte criteri così singolari che, se mai, meraviglia che ricevano tanta attenzione. Mi riferisco invece proprio a strutture e meccanismi sovrapponibili a quelli proposti da questo “esercizio di valutazione” affidato all’ANVUR.

Innanzitutto, anche se non hanno avuto la stessa risonanza, organi deputati alla valutazione dell’Università sono esistiti anche prima dell’ANVUR: a partire dal 1996 ha operato l’”Osservatorio per la valutazione del sistema universitario“, previsto dalla Legge 537/1993 assieme ai “Nuclei di valutazione interna” degli atenei; nel 1998 ha cominciato ad operare anche il “Comitato di Indirizzo per la Valutazione della Ricerca” (CIVR), un organo molto simile all’ANVUR (e istituito dal Decreto Legislativo 204/1998, in attuazione della Legge Bassanini 59/1997: e qui fa di nuovo capolino l’”autonomia“…); dal 2000 l’Osservatorio è stato sostituito dal “Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario” (CNVSU), ancora esistente; compiti di orientamento in materia di Università (e anche di ripartizione di fondi per la ricerca) sono infine tra le attribuzioni del Consiglio Universitario Nazionale (CUN) da molti anni. Tra questi organi, poi, il CIVR ha avuto il compito di fare proprio una valutazione triennale prima (VTR 2001-2003) e una quinquennale poi (VQR 2004-2008) del sistema universitario (occasioni in cui è stata appunto introdotta l’espressione “esercizi di valutazione“).

I risultati della valutazione del CIVR sono già stati usati per stabilire la distribuzione di una parte del Fondo di Finanziamento Ordinario (il principale finanziamento dello Stato agli atenei): la cosiddetta “quota premiale” del 7% creata nel 2009 per dare maggiori fondi agli atenei con valutazione migliore (da notare la differenza rispetto alla “quota di riequilibrio” istituita nel 1993 per eliminare le disparità tra la quota di finanziamento storica degli atenei e la loro consistenza numerica ed efficacia didattica). La quota premiale è poi passata al 10% nel 2010 e al 12% nel 2011 (va detto per completezza che nel 2011 dopo molte pressioni è stata reintrodotta anche una minutaquota di riequilibrio” dell’1,5%, condizionata però al rispetto di certi vincoli di bilancio).

Perciò qualcosa di simile alla VQR 2004-2010 è stato già fatto. Ma più radicalmente, per direttive ministeriali, europee o semplicemente per la sua natura, l’Università non è affatto estranea a valutazioni, anche a prescindere dal fatto che vengano predisposti organi appositi. In particolare, per esempio nella ricerca sono sottoposti a valutazione i progetti da scrivere per chiedere fondi, spesso sia preliminarmente in ciascun ateneo, sia ufficialmente da parte di revisori internazionali; non raramente, ad esempio per alcuni tipi di progetti europei, è prevista una valutazione annuale o biennale dello stato di avanzamento del progetto, che può avere anche l’esito di decretarne la fine anticipata; sono valutati – naturalmente! – i risultati delle ricerche, per essere accettati per la pubblicazione sulle riviste del loro settore.

Per legge, poi, tutti i docenti devono scrivere una relazione triennale delle loro attività, da sottoporre all’approvazione delle loro strutture; e anche circa la didattica universitaria, ormai da alcuni anni sono una prassi comune i questionari di valutazione dei corsi e degli esami da parte degli studenti e le commissioni che dai risultati dei questionari cercano di porre riparo alle situazioni critiche (pur con le difficoltà che talvolta questi questionari presentano quando si cerca di utilizzarli, vista la situazione asimmetrica tra studenti e docenti).

Oltre a questi meccanismi espliciti sono poi evidentemente all’opera anche fattori impliciti di valutazione, come quando un settore di ricerca particolarmente attivo attira più studenti di uno poco florido, o un ateneo di buon nome è preferito dagli studenti ad altri tenuto (a torto o a ragione) in minore considerazione; un settore che si lascia più difficilmente andare a logiche distorte nel reclutamento dei docenti risulta in un ambiente di ricerca e di lavoro più piacevole di uno in cui queste condizioni non valgono.

Di ciascuna di queste “valutazioni” già esistenti è chiaramente lecito chiedersi che impatto abbia, ed è anche palese che sono tutti suscettibili di funzionare male se opportunamente forzati. Ma un dubbio viene: forse potrebbe bastare spendere un po’ di energie per controllare che vengano utilizzati correttamente e si potrebbe ottenere già un sistema in cui la valutazione è un punto cardine che produce dinamiche virtuose? Forse proprio queste, le cosiddette “buone pratiche“, produrrebbero con naturalezza quel miglioramento che i metodi quantitativi degli esercizi di valutazione vorrebbero catalizzare?

La valutazione e i suoi obiettivi
Non è possibile pensare che ministri e funzionari non sappiano che molto viene già valutato; mi pare che sia quindi naturale chiedersi perché si sente parlare della necessità di realizzare “finalmente” una “vera” valutazione, e quali siano i suoi fini. C’è un’idea efficace alla base di questa spinta? È solo il fatto che risulta più facile ricominciare da zero ricostruendo il sistema della valutazione dalle fondamenta in modo che sia solido, piuttosto che districarsi nel coacervo attuale? Si tratta di un’opzione più lungimirante per migliorare le cose, molto più “costosa” in termini di tempo e di energie nel breve, ma che forse nel lungo termine potrebbe dare risultati migliori? Purtroppo io non credo che sia così.

La spinta viene in realtà da altri obiettivi e quali essi siano lo si può dedurre confrontando le dichiarazioni degli organismi di valutazione. Ecco le finalità della VTR 2001-2003, dichiarate nelle Linee guida pubblicate all’epoca:

“La valutazione della ricerca non deve essere percepita come un meccanismo burocratico o censorio, ma come preziosa opportunità per mettere a fuoco aspetti nevralgici della performance delle strutture di ricerca, quali:

  • qualità e rilevanza della produzione scientifica,
  • originalità e innovazione, -internazionalizzazione,
  • capacità di gestire le risorse (umane, tecnologiche e finanziarie). (…)”.

Quanto alla presente VQR 2004-2010, né nel decreto che istituisce l’ANVUR, né nel Bando per la VQR si trovano le finalità della procedura, ma possiamo tentare di dedurle da questa recente frase del presidente dell’ANVUR, Sergio Benedetto, in un’intervista sul quotidiano la Repubblica (in linea d’altronde con molte dichiarazioni del precedente ministro, per ora non smentite dall’operato del ministro attuale):

“Tutte le università dovranno ripartire da zero. E quando la valutazione sarà conclusa, avremo la distinzione tra researching university e teaching university. Ad alcune si potrà dire: tu fai solo il corso di laurea triennale. E qualche sede dovrà essere chiusa.”

Forse l’unica vera sorpresa in questa dichiarazione è che sia stata fin troppo sincera. Se si tiene conto del fatto che in base alle valutazioni della VQR 2004-2010 verrà distribuita la quota premiale e che questa, a norma della Legge 240/2010, aumenterà progressivamente ogni anno di una percentuale tra lo 0,5% e il 2% del totale (e come abbiamo visto è effettivamente aumentata dal 10% del 2010 al 12% del 2011), mentre quelle della VTR 2001-2003 non avevano questo effetto, la differenza salta all’occhio: non si tratta più di un’opportunità “non censoria” di scoprire dove migliorare, ma di un mezzo per trovare dove tagliare, per poi farlo nell’unico modo che rende certo il risultato, e cioè eliminando una parte dell’offerta formativa. Ragionando per analogia, potrebbe sorgere il dubbio che anche la ricerca dell’”eccellenza” e la spinta all’”autonomia” siano in realtà finalizzate a limitarsi poi a finanziare l’eccellenza, mentre tutti gli altri dovrebbero cavarsela da soli. Sarà pensare male?

Regole future, conseguenze attuali
Se risultassero confermate queste impressioni, mi permetto di dire che come obiettivo per l’università quello di “costare di meno” come obiettivo per l’Università colpisce per quanto è riduttivo rispetto a quello più “classico” e cui sono più affezionato di

“produrre, conservare e trasmettere il sapere collaborando così all’avanzamento della società nel suo complesso”;

d’altra parte, il “sogno proibito” che le due cose si possano realizzare contemporaneamente non è detto si possa realizzare e questi meccanismi, se si trattasse di scegliere, priviligerebbero chiaramente il primo obiettivo. Ora, certamente viviamo un periodo di “crisi“; ma volendo quantificare, stiamo parlando di tagliare una spesa pubblica per l’Università che nel 2009 era già solo circa lo 0,8% del PIL, piazzandosi così al 25° posto nell’Europa a 27, seguita da Bulgaria e Liechtenstein: dobbiamo pensare che gli altri paesi siano dunque immuni dalla crisi?

Ma proviamo ora a ragionare sulle conseguenze: se questo modo di valutare significa poi rinunciare a sostenere ciò che pare funzionare malino, per dare tutte le risorse a ciò che già funziona meglio (si vede qui la coerenza con il passaggio operato da “riequilibrio” a “premio nella quota del Fondo di Funzionamento Ordinario), saranno solo le realtà già forti ad avvantaggiarsi ulteriormente e alla distanza a resistere ai tagli.

Pazienza se, magari, qualcosa funziona perché si trova già in una posizione privilegiata, a causa della sua storia o del suo contesto (in contraddizione evidente con il “ripartire da zero” dichiarato); pazienza se un ateneo contiene magari molte realtà disomogenee, alcune di alto livello, altre di basso livello; e pazienza se in questo modo a nessun ateneo conviene aprire la ricerca in un campo nuovo, perché darebbe per troppo tempo un contributo scarso o negativo alla valutazione.

Può sembrare una dinamica lenta, ma l’effetto deteriore non si palesa solo in un lontano futuro, perché mentre gli atenei cercano di “salvarsi” rispettando i vincoli di tipo economico (e, a parte qualche eccezione, avranno sempre più difficoltà a rispettarli se la valutazione e il finanziamento verranno portati avanti come previsto attualmente) al loro interno emergono già spinte decisamente contrarie alla missione culturale dell’Università, tendenti a premiare chi “porta finanziamenti” sotto qualunque forma e a trascurare tutti gli altri, senza riguardo per la qualità scientifica, la rilevanza storica, l’utilità didattica o il servizio alla società.

Non intendo però con queste critiche sostenere che allora sia il caso di desistere da qualunque tentativo di valutare e quindi dare anche giudizi negativi. Ad esempio, non nego di certo che esistano realtà universitarie che sono state create probabilmente per motivi sbagliati, come mezzi per proseguire una politica di espansione o come occasioni per esercizi di potere; come anche sono cosciente che esistono e sono molto diffusi metodi di reclutamento che hanno poco a che vedere con il merito.

Per questo penso che bisognerebbe come minimo fare uno sforzo per creare un sistema che faccia ricadere la responsabilità su chi le scelte le ha compiute, sia che abbia abusato della libertà di cui godeva e abbia prodotto situazioni critiche (selezioni di candidati impresentabili, buchi di bilancio o scelte didattiche insostenibili), sia che abbia agito prudentemente e con raziocinio operando scelte meritorie.

Il sistema attuale però porta paradossalmente all’esatto contrario: le responsabilità e le conseguenze vengono scaricate su coloro che tali scelte le hanno subite o addirittura se le sono trovate come retaggio del passato senza poterle influenzare. Per fare un discorso più completo si potrebbe anche entrare nel merito del meccanismo di questo esercizio di valutazione ed analizzare le sue storture; ma per questo rimando ad esempio agli articoli di Francesco Sylos Labini, Giuseppe De Nicolao ed altri sul blog Roars.

L’abolizione del valore legale del titolo di studio: un passo di libertà che viene dal passato?
È proprio nel momento in cui ci si interroga sul destino dei diversi atenei che il discorso della valutazione si salda con quello che concerne il valore legale del titolo di studio, e ora vedremo come. Ma innanzitutto, a cosa può servire che il titolo di studio abbia valore legale? A cosa abolire questo valore? Per un’inquadratura generale sul piano del diritto, da cui traggo anche qualche spunto qui, rimando ad un intervento di Sabino Cassese sul tema.

L’argomento dei sostenitori dell’abolizione è di solito basato sul fatto che in realtà titoli uguali acquisiti in scuole o atenei diversi o in tempi diversi non debbano essere equivalenti, perché per ottenerli è stato realizzato un percorso più o meno qualificante. L’uguaglianza dei titoli sarebbe quindi una sorta di “concorrenza sleale” e perciò sarebbe giusto eliminarla.

Frequente è anche il riferimento ad un celebre intervento di Luigi Einaudi nel 1955 (1). Sorvoliamo sul fatto che andando a leggere le motivazioni addotte da Einaudi si vede che esse sono principalmente centrate sull’indebita aspettativa di un impiego migliore che un titolo con valore legale indurrebbe in chi lo consegue, da cui deriverebbe la delusione della disoccupazione “intellettuale“: problema che oggi mi pare superato se non altro perché il sopravvenuto benessere e l’accresciuta complessità della società hanno fatto sì che le scelte circa gli studi universitari siano molto meno legate di allora a precise carriere lavorative successive al titolo; oltre al fatto che si potrebbe discutere l’importanza sociale della citata “delusione“.

Va comunque ricordato che i titoli di studio hanno un riconoscimento ufficiale solamente nel corso stesso degli studi (per passare da un livello scolastico ad un altro), nell’accesso a determinate professioni (come il medico o l’avvocato) e nei concorsi pubblici; in particolare, nel settore privato nessuno è obbligato a tenerne conto e di fatto spesso viene dato peso diverso a titoli ottenuti in luoghi o in tempi diversi, realizzando quindi già la differenziazione auspicata dai fautori dell’abolizione.

Analizziamo ora separatamente questi tre ambiti di riconoscimento del titolo. Nel primo caso credo ci sia poco da dire (o vogliamo che una scuola superiore di secondo grado possa rigettare alunni che provengono da talune scuole di primo grado?). Anzi, c’è da aggiungere che una serie notevole di comunicati e di raccomandazioni degli organismi europei che hanno portato avanti il Processo di Bologna per la creazione dello Spazio europeo dell’istruzione superiore danno chiare indicazioni a favore del valore legale dei titoli (Praga, 2001; Berlino, 2003; Comitato dei ministri, 2007 (2).

Nel secondo caso, il richiedere, ad esempio, che un medico per accedere all’esame di Stato debba essere laureato in medicina mi pare una garanzia a cui è difficile rinunciare; in ogni caso, sono proprio le varie corporazioni ad imporre questa richiesta, non lo Stato. Il principale ambito di discussione sarebbe allora quello dei concorsi pubblici. Ma anche in questo caso, a ben vedere, nessuna legge prevede che il peso dei titoli sia preponderante nella valutazione dei candidati; anzi semmai accade il contrario, e cioè che le prove concursuali contino decisamente più dei titoli.

Un discorso forse più attento lo meriterebbero le promozioni interne nella Pubblica Amministrazione che sono talvolta riservate ai possessori, ad esempio, della laurea; talune distorsioni ad esse collegate sfruttano effettivamente il fatto che tutte le lauree, comunque acquisite, sono riconosciute uguali. Ma se il valore legale fosse eliminato non vedo perché questo dovrebbe essere di ostacolo a queste promozioni “facili” e non dovrebbe invece facilitarle aumentando ancora di più l’arbitrio! Per non citare il fatto che nella vicina e spesso ammirata Germania i dipendenti pubblici hanno stipendi che dipendono dal titolo di studio in modo automatico, quindi il valore legale ha un peso molto più grande che in Italia, eppure non risulta che questo sia considerato uno scandalo.

O invece un passaggio verso un futuro di maggiori disuguaglianze?
Perciò, come per la valutazione, dobbiamo chiederci: perché questa enfasi circa il valore legale del titolo di studio? Mi pare che, almeno per quanto riguarda i titoli universitari, la direzione indicata dall’abolizione del valore legale sia molto simile a quella della valutazione dell’ANVUR: se la laurea conseguita in un ateneo con poca tradizione non sarà più ufficialmente uguale a quella conseguita in un ateneo prestigioso, quest’ultimo risulterà certamente ancora più “attraente” di quanto non sia già e un meccanismo che si auto-alimenta amplificherà sempre più le differenze tra i due.

Se si aggiunge di fatto che spesso i fautori dell’abolizione del valore legale del titolo di studio promuovono anche la liberalizzazione delle tasse universitarie (che attualmente devono rientrare nel limite del 20% delle entrate di un ateneo, anche se questo limite viene spesso si fatto superato), si realizzerebbe un’operazione che più che un “bluff” ricorda Ezechiele Bluff alias Superciuk, il nemico di Alan Ford che rubava ai poveri per dare a i ricchi. E di una redistribuzione al contrario la nostra società non mi pare che abbia alcun bisogno, né tra cittadini, né tra atenei.

Ma quand’anche queste critiche fossero superate, ancora più a monte di questo trovo che l’abolizione del valore legale dei titoli di studio sarebbe una sconfitta: nell’istruzione, come in altre aree della cosa pubblica, a mio parere lo Stato non può né deve arretrare rinunciando alle sue prerogative. I cittadini devono poter contare sul fatto che alcuni principi vengono mantenuti e difesi, e tra queste garanzie l’istruzione (a tutti i livelli e nei suoi dettagli) deve conservare il suo ruolo centrale.

Note

(1) Luigi Einaudi, Scuola e libertà, in Prediche inutili, Torino, Einaudi, 1959.

(2) Ringrazio per le indicazioni sul tema Piero Graglia, Ricercatore di Storia dell’integrazione europea, Università degli Studi di Milano.

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Materiali: sulla valutazione

I materiali disponibili in rete sugli argomenti della valutazione dell’università e dell’abolizione del valore legale del titolo di studio sono tanti e tanti sono molto interessanti. Qui di seguito ne riportiamo una piccola scelta, rimandando per approfondimenti in particolare al sito dell’Anvur, a quello della Rete29aprile e al blog Roars (Return on Academic Research).

All’Anvur solo atenei del nord e profili scientifici
Sette personalità con un curriculum impeccabile, stimati professionisti in Italia e all’estero ma provenienti solo da atenei del Nord e 6 su 7 hanno un profilo tecnico-scientifico. Ecco, tra tante polemiche, chi sono le persone chiamate a valutare il sistema universitario e della ricerca in Italia

Dal Politecnico di Torino, Trento, Pisa, Padova, Genova e Roma. Sono le università del Nord, la SISSA di Trieste e due atenei romani ad aver “sfornato” i componenti del Consiglio Direttivo dell’Anvur. Dagli atenei “sotto” la Capitale, infatti, neanche un nominato ma, soprattutto, 6 componenti su 7 hanno profili tecnico-scientifici che mal si adatterebbero ad una valutazione delle discipline umanistiche. Protestano filosofi, storici e studiosi di letteratura che vedono fortemente ridimensionata l’importanza delle materie umanistiche come l’archeologia, la filosofia, l’arte, la storia… discipline che rappresentano l’anima del nostro paese. (vedi qui)

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Ad essere ottimisti, ci sono alcuni rischi
E’ opportuno sottolineare alcuni rischi. Il primo è che un’ANVUR, ridimensionata nelle competenze e strutturata come un organismo emanazione del ministro, invece di essere la leva per il miglioramento della qualità e la semplificazione del funzionamento del nostro sistema scientifico, finisca col diventare un’ulteriore struttura burocratica che si aggiunge a quelle già esistenti favorendo ancora una volta i comportamenti opportunistici che hanno spesso caratterizzato la vita accademica nel nostro Paese.

Un ulteriore rischio che mi sembra di intravedere è un’insufficiente consapevolezza dei tempi e dei costi della valutazione. La valutazione ex-post della ricerca richiede tempo ed i miglioramenti della performance delle istituzioni coinvolte non si potranno apprezzare significativamente nel breve termine, che è il tipico orizzonte temporale di chi opera a livello politico. (Lucio Bianco, qui)

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Sembra ridursi ad uno strumento punitivo
A causa di un bando costruito essenzialmente sul modello organizzativo delle università esiste il concreto rischio che gli enti subiscano una incomprensibile e inaccettabile penalizzazione. Innanzitutto per la specificità dell’output che non è fotografabile solo con criteri bibliometrici. L’attività di costruzione di prototipi, il trasferimento tecnologico, la costruzione e il mantenimento di infrastrutture e reti di rilevazione rappresentano il 30% – 40% del lavoro di queste istituzioni…

Ci risulta che la modalità adottata faccia sì che la valutazione invece di essere un incentivo al miglioramento e alla crescita, sembra ridursi ad uno strumento punitivo. Ciò appare ancora meno condivisibile se confrontiamo questo tipo di approccio con quello delle agenzie di altri paesi dove l’attività di valutazione non ha da tempo intenti punitivi. Da ultimo, come emerso nell’ottimo dibattito che appassiona la comunità scientifica non è affatto chiaro quale apporto verrà dato dall’Anvur alla policy making del ministero vista l’evidente difficoltà di costruire un indicatore sintetico. (Domenico Pantaleo, qui)

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Questa non è valutazione, è politica
Il risultato finale sarà una classificazione delle università all’interno di ogni area scientifica… A partire dal 2013 il 20% del Fondo di finanziamento ordinario – circa 832 milioni – sarà distribuito sulla base della mappatura dell’Anvur (Sergio Benedetto, Anvur, qui)

Insomma una volta stilata la classifica, il gioco è fatto: chi non è capace di leggere una classifica? Dalla classifica a chiudere qualche corso o qualche sede il passo è breve e irreversibile: la classifica fai-da-te è il sacro Graal dei valutatori italioti.

Tutto perfetto se non fosse che i compiti illustrati da Benedetto non hanno nulla a che fare con la valutazione; riguardano piuttosto la politica che s’intende perseguire con i risultati della valutazione, come ha correttamente rilevato la CGIL… Una confusione di ruoli molto pericolosa: in ogni paese al mondo dove è stata creata, l’agenzia della valutazione non si occupa di fare anche la politica dell’università o di stilare le classifiche delle università o di chiudere qualche sede e qualche corso. (Francesco Sylos Labini, qui)

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Siamo certi che la competizione sia il modello?
Siamo certi che la direzione da seguire sia quella del modello competitivo anche per l’istruzione? Come dimenticare che la competizione italiana è quella delle cricche, dei furbetti del quartiere, di chi usa la legalità come copertura per fare i propri affari? Siamo sicuri che togliere la legalità – ossia un controllo di legalità – in questo campo significherebbe facilitare la formazione di regole valide per tutti? Si parla tanto di fine delle ideologie, ma l’ideologia aziendalistica della competizione sembra molto dura a morire…

In materia di cultura e di istruzione, così come in altre materie (servizi essenziali, risorse fondamentali come l’acqua ecc.), uno Stato – ossia la macchina che gestisce la res publica – non deve mettersi in concorrenza con altri soggetti, né favorire la concorrenza fra privati, che hanno pur sempre legittimi scopi di lucro, e che non a caso possono sempre competere fra di loro (senza oneri per lo stato…), ma deve offrire e garantire un servizio basilare di qualità crescente, sia pure compatibilmente con le risorse disponibili. (Paolo Cardoni, qui)

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Materiali: sull’abolizione del valore legale del titolo di studio

Abolire il valore legale? Un messaggio di ingiustizia sociale

Stiamo parlando della formazione del capitale umano di un Paese. Prima di dire improvvisamente a chi ha speso anni a studiare che vale come chi non ha studiato, occorre mettere a posto tutti i tasselli del puzzle… Il conseguimento delle lauree ha costituito una leva di sviluppo per il Paese, ha permesso l’ascesa sociale di chi era stato tenuto fuori. Con l’idea di abolire il valore legale si trasmette un messaggio di ingiustizia sociale… Negli ultimi 15 anni sono stati creati veri scandali, cose indegne: ci si laurea per posta… Ci sono atenei messi in piedi in una notte, sostenuti da un ex capo del governo. Faccio parte del comitato che doveva dare un parere sulle nuove università del Lazio: negli ultimi dieci anni, dal ministero Moratti in poi, non siamo mai stati convocati… Non si possono mettere sullo stesso piano lauree buone e lauree comprate. (Guido Fabiani, qui)

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Penalizza donne, giovani e Mezzogiorno
Abolire il valore legale del titolo di studio (Vltsu) penalizza soprattutto il mondo giovanile del nostro Mezzogiorno. Togliere l’obbligatorietà del titolo di laurea significa che il percorso di studio accademico verrà discrezionalmente apprezzato da chi assumerà i giovani per concorso, per libera contrattazione o altro. In altre parole.

Sarà privilegiata, come criterio discriminante, la sede accademica che rilascia il titolo di studio, la cui autorevolezza – pubblicizzata probabilmente da classifiche arbitrarie – avrà per risultato una scontata valutazione gerarchica. La laurea acquisita in una sede del nord (meglio se mega-Ateneo) godrà di un appeal esclusivo per entrare nelle future professioni.

Con questo esito a perdere: la caduta verticale delle iscrizioni dei giovani meridionali – ricordiamo che l’Italia è maglia/nera in Europa per la percentuale di studenti iscritti all’università – nelle sedi accademiche viciniori alle loro dimore: parliamo della popolazione studentesca di ceto basso e medio. L’altra, la più fortunata economicamente, potrà trasferirsi nei grandi Atenei del nord.

Togliere il Vltsu penalizza non solo gli Atenei del sud, ma anche i micro-campus settentrionali. Le classifiche nazionali relative all’appeal delle nostre Facoltà universitarie consiglieranno le famiglie nordiche a scartare i micro-Atenei sotto-casa per iscrivere i figli nelle popolose e accreditate sedi poste sopra la linea gotica.

Ancora un flash sul Mezzogiorno. Togliere il Vltsu significa colpire a morte l’emancipazione culturale e professionale delle ragazze del Bel Paese. E’ facile prevedere la caduta verticale del mondo femminile nelle aule accademiche (a partire dalle Facoltà umanistiche del meridione), con la catastrofica perdita del suo sacrosanto diritto all’emancipazione culturale ed esistenziale. (Franco Fabbroni, qui)

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Un test
Vorreste essere operati da un medico non laureato in medicina? Chiedereste un consiglio a un farmacista non laureato in farmacia? Vivreste in un edificio progettato da un ingegnere non laureato in ingegneria? Vorreste essere difesi da un avvocato non laureato in giurisprudenza?… Vorreste essere giudicati da un magistrato non laureato in giurisprudenza? Volete che qualcuno che non è laureato, e magari non ha neanche fatto le scuole superiori, abbia gli stessi titoli di chi si è laureato in una delle migliori università italiane, ai fini dell’accesso ai concorsi pubblici?

Se avete risposto di sì a tutte queste domande, è probabile che siate favorevoli, come molti dicono oggi di essere, alla c.d. abolizione del valore legale del titolo di studio. (Bernardo Giorgio Mattarella, qui)

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Un appello: siamo di fronte ad una finzione se non a un inganno
La creazione di un mercato dei titoli di studio, conseguente all’abolizione del loro valore legale, metterebbe, secondo i proponenti, le università in una sana concorrenza per la qualità.

Anche in questo caso siamo di fronte ad una finzione (se non ad un inganno). Date le posizioni di partenza degli atenei, diseguali e caratterizzate da sottofinanziamento, l’unica concorrenza che scatterebbe fra Università sarebbe appunto per le risorse, con conseguente vantaggio dei gruppi di potere accademico, politico ed economico consolidati che invece, si suppone, dovrebbero essere il bersaglio delle politiche di liberalizzazione nel loro spirito più nobile. Il “valore legale” tenderebbe semplicemente ad essere sostituito dal valore monetario necessario per conseguire il titolo di studio. Le due misure associate produrrebbero un effetto micidiale di stratificazione per censo delle Università, acuendo i già presenti dislivelli territoriali che caratterizzano il nostro sistema universitario nazionale.

Abolire il valore legale del titolo di studio significa anche abbandonare l’obiettivo di uno standard nazionale di riferimento per la formazione universitaria: al contrario bisogna intervenire perché tutte le università finanziate dallo Stato rispettino tale standard. Anche l’accento (giustamente) posto sulla centralità del merito nella vita universitaria assumerebbe, alla luce di queste misure, un deciso sapore classista.

Queste proposte implicano una decisa spinta alla privatizzazione di fatto dell’università pubblica e alla restrizione sociale dell’accesso. Accettarle significherebbe anche una resa istituzionale all’inefficienza pubblica in vari ambiti, come il controllo dell’evasione fiscale e della qualità dei servizi pubblici, e del reclutamento nell’impiego pubblico.

Per questo chiediamo alla classe politica che si riconosce nella nostra Costituzione repubblicana e al Governo di rifiutarle, di non accettare scorciatoie fuorvianti ai problemi del finanziamento e del rilancio del sistema educativo e universitario pubblico, così come di altri ambiti preziosi della produzione culturale del Paese. L’università deve restare una istituzione pubblica centrale e deve riprendere a svolgere tutte le sue funzioni, in primis quella di fornire una formazione critica e qualificata, basata su didattica e ricerca libere, plurali e rigorose, con il più ampio accesso sociale agli studi e alle professioni della ricerca e della docenza. Per poter svolgere questo suo ruolo pubblico all’università non serve mettersi in vendita, ma servono politiche e risorse adeguate. (vedi qui)

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La settimana scolastica

L’occupazione in primo piano nelle notizie della settimana. Mentre secondo i dati Istat di gennaio il tasso di disoccupazione giovanile è superiore al 31% , ora arriva anche l’aumento della disoccupazione tra i laureati: il XIV Rapporto Almalaurea ci dice che la disoccupazione dei laureati triennali è passata dal 16% del 2009 al 19% del 2010. Dato che lievita anche per i laureati specialistici, passato dal 18 al 20 per cento. A  10 anni dalla laurea risulta che lavorano 88 intervistati su cento, valore in calo di 4 punti percentuali rispetto all’analoga rilevazione condotta nel 2006.

Nel contempo lo stipendio a un anno dalla laurea (pari a 1.105 euro mensili netti per i laureati di primo livello, 1.050 per gli specialistici a ciclo unico, 1.080 per gli specialistici), già non elevato, perde ulteriormente potere d’acquisto rispetto alle indagini precedenti (con una contrazione compresa fra il 2 e il 6% solo nell’ultimo anno).

Per quanto riguarda l’occupazione degli insegnanti, la notizia che in settimana più ha tenuto in tensione la scuola è stata questa. Le commissioni Affari costituzionali e Attività produttive della Camera approvavano un emendamento al Decreto semplificazioni proposto dal Pd, che bloccava l’organico del personale della scuola a quello in vigore nell’anno scolastico 2011/2012: 724 mila cattedre per gli insegnanti e 233 mila posti per il personale Ata (amministrativi, tecnici e ausiliari).

Così, annunciavano Manuela Ghizzoni e Francesca Puglisi (le due proponenti) “si blocca il trascinamento dei tagli nella scuola primaria e alle superiori“. La “riforma” Gelmini infatti, che ha già tagliato 87.000 cattedre e 43.000 posti Ata, non è ancora a regime: alla scuola primaria mancano due anni e alla superiore altri tre. E produrrebbe i suoi effetti sul personale della scuola per altri due anni alla scuola elementare e per altri tre anni alla superiore: effetti calcolati in un ulteriore taglio agli organici del personale docente pari a 1.835 posti di lavoro. E continuavano Ghizzoni e Puglisi:

Vengono inoltre aggiunti ulteriori 10 mila posti per attività di recupero, di integrazione e sostegno agli alunni con bisogni educativi speciali anche per estendere il tempo scuola, con particolare riguardo alla scuola primaria e alle medie. Si tratta di una importante inversione di tendenza che dovrà essere confermata dalla commissione bilancio e che restituisce ossigeno e fiducia alle scuole.

Ma in serata l’emendamento veniva bocciato in Commissione Bilancio per mancanza di copertura economica (350 milioni di euro).

Il giorno dopo arrivava un nuovo testo concordato tra governo e maggioranza, che prevede il calcolo dell’organico, su base triennale, in relazione all’andamento della popolazione scolastica. Niente 10.000 posti di lavoro in più, quindi, e nuove assunzioni solo se gli alunni aumenteranno. Il fatto è che, per il prossimo anno, il numero di alunni previsti è di 8.436 in più rispetto all’anno in corso, che vorrebbe dire circa 900 nuove assunzioni, la metà rispetto ai tagli già previsti per i prossimi due anni. Da 20.000 a 10.000 a 1.000 immissioni in ruolo: nella progressione di questi numeri si riassume il devastante risultato di quanto accaduto in questi giorni, che Marina Boscaino illustra inserendolo nel quadro dell’evoluzione del precariato negli ultimi anni. Che dire?

La scuola non ha bisogno di annunci poi smentiti ma di una forte discontinuità col passato che finora non c’è stata. Bisogna investire sulla conoscenza e per farlo bisogna essere convinti fino in fondo, avendo un progetto di Paese che guardi al futuro. Questo è l’unico vero limite del governo Monti che magari nel 2013 ci darà il pareggio di bilancio ma per andare dove? (Pippo Frisone)

Il tema delle nuove assunzioni è oggetto anche di una interrogazione parlamentare a firma di alcuni esponenti del PD e con prima firmataria la sen. Bastico, che chiede al Ministro informazioni su reclutamento, graduatorie, concorsi, chiamata diretta in Lombardia e aumento dell’organico.

Lo stesso tema si fa sempre più caldo in Lombardia, dove l’Assessore regionale all’Istruzione Valentina Aprea, attraverso un’intervista a Sussidiario.net del 7 marzo, insiste sul reclutamento scolastico d’istituto e propone al Ministro tre strade per conseguire l’obiettivo “lombardo”:

  • un accordo solo tra Stato e Regione Lombardia;
  • un’intesa dentro la Conferenza degli assessori regionali;
  • una copertura normativa che possa dare il via ad una serie di sperimentazioni non solo in Regione Lombardia ma anche in altre.

Aprea precisa che questo riguarderebbe solo i “supplenti annuali oggi inseriti a vario titolo nelle diverse graduatorie. Gli inseriti nelle graduatorie però, a suo dire, non potranno avere pari condizione di accesso al posto, perché le scuole dovranno

bandire o corsi di istituto o selezioni o esprimere gradimento per docenti che possano andare a ricoprire incarichi annuali in quella scuola, vogliamo dire che, tra gli aventi diritto, le scuole sceglieranno i docenti che meglio garantiscono la corrispondenza tra le competenze possedute e i progetti dell’offerta formativa delle scuole.

Qualcuno dice in tutta l’Europa si fa così. “Non è vero!” sostiene Pino Patroncini.

Questa è un’altra di quelle panzane che la stampa ci rimbalza senza nessuna verifica. È vero invece che il sistema della chiamata dalle scuole funziona o in paesi dove c’è penuria di insegnanti o in paesi molto piccoli con pochi milioni di abitanti (e quindi anche poche scuole e pochi insegnanti).

Questo il commento della Flc Cgil:

L’obiettivo principale di tutto l’articolato in questione e da noi da tempo denunciato, nonostante qualcuno ci abbia dato dei “visionari“, rimane quello di un “reclutamento regionale“.

Questo è quel che, finalmente, traspare, in tutta la sua evidenza, dall’intervista dell’Aprea: “questa sperimentazione sarà funzionale, domani, per un modello di reclutamento“.

La Flc Cgil annuncia mobilitazioni prima dell’approvazione della Proposta di Legge in Consiglio regionale, prevista verso il 10 aprile, e così conclude:

La FLC CGIL Lombardia mantiene ferme tutte le sue denunce più volte espresse in merito. Chiediamo, insieme alla Cgil, che l’art. 8 venga cancellato dalla Proposta di Legge perché discriminante, sminuente la professione docente, incostituzionale, illegittimo rispetto alle norme vigenti, pericoloso per le possibili derive autonomiste e secessioniste a danno del sistema nazionale d’istruzione.

Anche i docenti precari, i primi a essere colpiti da questa “sperimentazione” della “chiamata diretta” da parte del Dirigente scolastico, annunciano mobilitazioni. Il Coordinamento lavoratori della scuola3 ottobre” ha indetto per il 27 marzo un presidio sotto il Pirellone. Prosegue la raccolta di firme per un appello proposto dall’Associazione “Non uno di meno“.

La valutazione delle scuole è una delle altre questioni senza fine della scuola italiana. La Commissione Cultura della Camera, nell’approvare gli articoli riguardanti la scuola nel Decreto semplificazioni, chiede al governo che “si tenga conto, nell’erogazione dei finanziamenti (alle istituzioni scolastiche, ndr), dei risultati ottenuti“. Il progetto è quindi di “premiare” le scuole che ottengono risultati migliori con più soldi. Il giornalista Salvo Intravaia giustamente domanda:

Resta da capire in che modo si dovrebbero misurare i “risultati ottenuti“. In base alle promozioni o in base alle performance nei test Invalsi e Ocse Pisa?

Vengono avanzate critiche al progetto di valutazione delle scuole da parte del governo anche per altri motivi: per Benedetto Vertecchi ad esempio esso “fa riferimento in massima parte a variabili dipendenti” assumendo “una logica orientata a interpretazioni di breve periodo” trascurando fattori di ben altra consistenza, come la necessità di nuovi profili culturali e l’eccezionale impoverimento che la scuola ha sofferto negli ultimi anni per iniziativa degli stessi governi.

E’ per questi motivi che anche quest’anno alcuni Collegi (vedi qui, qui, qui, qui) si sono già pronunciati contro le prove Invalsi e che da alcune associazioni della scuola è stato proposto un emendamento allo scopo di eliminare l’obbligo da parte delle scuole, previsto con chiarezza dalla relazione tecnica, di somministrare i test Invalsi a tutti gli studenti delle classi coinvolte. Una rilevazione campionaria e non censuaria, sostengono i promotori dell’emendamento, può essere usata solo per la valutazione di sistema ed elimina la possibilità di usare i test per valutare anche le scuole e gli insegnanti.

La richiesta è che le prove siano effettuate su campione, previamente individuato con metodo statistico, mediante rilevatori esterni adeguatamente formati e che i risultati siano utilizzati per favorire i processi di autoanalisi e autovalutazione di istituto.

La cronaca registra nuove condanne per il Ministero. Il 5 marzo 2012, il TAR del Lazio ha depositato la sentenza n. 1176 con la quale ha riconosciuto il diritto al rapporto 1 alunno diversamente abile/1 insegnante di sostegno.

Il ricorso è stato promosso e organizzato dal Coordinamento Scuole Elementari di Roma, con il patrocinio degli avvocati Marco Tavernese e Maurizio Rossi. Vi hanno partecipato 13 famiglie ai cui figli, frequentanti la scuola dell’infanzia o la scuola primaria, non era stato assegnato dal Ministero dell’Istruzione il numero delle ore di sostegno di cui avrebbero avuto diritto secondo la Diagnosi Funzionale redatta dalle ASL. E’ il primo ricorso collettivo che viene effettuato e vinto presso il TAR del Lazio. Così commenta Salvatore Nocera, vicepresidente nazionale della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap):

L’Amministrazione Scolastica… dovrebbe dunque convincersi sempre più che una buona formazione iniziale e obbligatoria in servizio di tutti i docenti curricolari e il rispetto del tetto massimo di alunni – nelle classi dove ve ne siano di disabili – sarebbero anche economicamente convenienti.

Sul tema del mancato rispetto della maturazione al 31 agosto dei requisiti per il pensionamento da parte dei lavoratori della scuola il ministro Fornero, durante un question time, ha affermato:

Per quanto possa umanamente comprendere questi lavoratori non la ritengo un’ingiustizia e dunque non credo che possiamo tornare su questa questione riportando indietro le lancette a favore della categoria dei lavoratori della scuola. (vedi qui)

Reazioni da parte dei sindacati, mentre prosegue l’organizzazione della class action degli insegnanti della classe del 52, la più penalizzata dalle nuove norme sulle pensioni.

Per finire ricordiamo che una giornata di mobilitazione nazionale della scuola è in preparazione per il 23 marzo: “L’urlo della scuola. La giornata è organizzata per richiamare l’attenzione sullo stato di estremo abbandono, disattenzione e impoverimento in cui versa l’istruzione pubblica: la scuola dell’obbligo costretta a finanziarsi attraverso le famiglie in una sorta di privatizzazione strisciante incostituzionale, il personale insegnante e amministrativo ridotti all’osso, un’offerta formativa e un tempo scuola ogni anno più modesti. Le università arrugginite e incrostate da baronie inamovibili, numeri chiusi e quiz, selezione senza merito e una cultura aziendalista che tende a uccidere nella culla la libertà di ricercare e sperimentare.

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Su ForumScuole tutti i tagli all’istruzione per il 2012.

Su ReteScuole le iniziative legislative estive del governo che riguardano la scuola. Su PavoneRisorse una approfondita analisi delle ricadute sulla scuola della finanziaria di agosto 2011.

Il decreto Brunetta qui e il vademecun della CGIL sulle sanzioni disciplinari qui.

Tutte le “riforme” del ministro Gelmini.

Per chi se lo fosse perso: Presa diretta, La scuola fallita qui.

Altre guide alla scuola della Gelmini qui.

Le circolari e i decreti ministeriali sugli organici qui.

Manuali di resistenza alla scuola della Gelmini qui e qui.

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Dove trovare il Coordinamento Precari Scuola: qui; Movimento Scuola Precaria qui.

Il sito del Coordinamento Nazionale Docenti di Laboratorio qui.

Cosa fanno gli insegnanti: vedi i siti di ReteScuole, Cgil, Cobas, Gilda, Cub.

Finestre sulla scuola: ScuolaOggi, OrizzonteScuola, Aetnanet. Fuoriregistro

Spazi in rete sulla scuola qui.

(Vivalascuola è curata da Nives Camisa, Giorgio Morale, Roberto Plevano)


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