Da quando il mondo del lavoro ha espulso anzi tempo molti amici della mia generazione me compresa, mi capita di confrontarmi spesso con persone che vivono come in sospensione, in attesa che qualcosa accada.
Io stessa sento di vivere aspettando.
È un’attesa senza direzione la mia, aspetto qualcosa e mi rifugio nell’idea che, se saprò essere paziente, questa gestazione psichica che avverto così espansiva e forte e dolorosa, libererà in me un esito benefico. Qualcuno o qualcosa verrà: “verrà, se resisto” scrive Clemente Rebora, in una sua poesia di immensa bellezza. L’attesa è apertura al tempo e all’avvenire. E voglio crederci.
Mi ripeto che attendere è nella natura dell’uomo. Da sempre gli esseri umani aspettano di incontrare il divino, di raggiungere una persona amata, di realizzare un desiderio o un progetto di vita. Nel frattempo, quando diventiamo consapevoli di questa esperienza interiore, ci confrontiamo con i sentimenti, con quel filo fragilissimo che ci spinge a cercare un senso. E questo è un bene.
Ho letto di recente L’attesa e la speranza di Eugenio Borgna (Feltrinelli, 2005), che è primario di psichiatria all’Ospedale Maggiore di Novara ma non solo… è un grande scrittore, cultore appassionato di poesia e di letteratura. E sulle ali leggere delle sue parole, l’attesa diventa una dimensione lirica e metafisica.
Per Borgna l’attesa è una passione che ci trascina fuori dal tempo, ci sospende al di sopra dell’esperienza: qualcosa a un certo punto – un Dio, una musa, un oggetto – “fa come un cenno e l’uomo esce dal tempo, si mette sul bordo della strada, e attende”. Attende che quella metamorfosi esistenziale che l’attesa produce possa aprire nuove domande, dilatare le possibilità di guardare la vita. Proprio come in quella magnifica canzone di Giogio Gaber che s’intitola appunto l’Attesa. Ascoltatela, è dolcissima.
Insomma aspettare è vivere, e bisogna saper aspettare…. foss’anche mezzo secolo come era capitato a Fiorentino Aziza nel romanzo di Marquez, L’amore ai tempi del colera, che aveva aspettato la sua Fermina Daza (sposata con un altro) per “cinquantatré anni sette mesi e undici giorni notti comprese”. Solo allora era partito con lei per un lungo viaggio su un battello fluviale.
E, ormai vecchi, avevano finalmente fatto l’amore.