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Voglio infett-arti

Creato il 08 febbraio 2011 da Zarizin

Mostra artistica al bar ‘Ai Preti’ da gennaio 2011 a… indefinitamente!

DI ENRICO GIOVANAZZI

LAUTARO ANTU’ MARTINEZ

Qualche giorno fa ho sceso i gradini d’entrata dei Preti, lo spartano locale che tutti conosciamo, vicino piazza Isolo, e ho (ri)conosciuto due ragazzi mori, circondati dai loro lavori appesi ai muri. Sono studenti dell’Accademia di Belle Arti di Verona, iscritti all’indirizzo di pittura: Lautaro Antù Martinez e Enrico Giovanazzi, l’uno argentino, l’altro di Bolzano.

All’inizio ingraniamo bevendo una birra e, dopo un cin alla nostra chiacchierata, io chiedo:Beh, ragazzi, parlatemi un po’ del luogo dove studiate, in cui esercitate la vostra passione, l’Accademia com’è? Non tutti la conoscono…”

Loro rispondono un po’ sogghignando e un po’ sconsolandosi dentro. Lautaro dice: “Mah, l’Accademia è un po’, se così si può dire, l’ambiente-pubblico delle nostre scorribande artistiche, ma anche un po’ una scatoletta…” “Sì” completa Enrico: “Un’istituzione un po’ troppo rigida per come vediamo noi l’arte”.

Cosa intendete per scorribande artistiche?”

Eh qui ce ne sarebbe da raccontare!” dice Enrico “pensiamo che non ci si debba fermare e limitarsi a quello che dice di fare l’insegnante, se l’esperienza artistica è davvero una passione, qualcosa che va oltre, deve arrivare a travolgere la gente, suscitare un entusiasmo creativo che non può fare a meno di agire, costruire, tagliare, reperire qualsiasi materiale (spesso non propriamente nostro!) e dargli una forma, un colore, un nuovo significato, che di frequente noi stessi all’inizio ignoriamo e arriviamo a conoscere solo a lavoro finito.”

Per esempio, una volta” mi racconta Lautaro “io e Enrico abbiamo preso un enorme pannello e lo abbiamo trasformato in una giostra, era bellissima, ma non ci sentivamo di tenere quest’opera così grande tutta intera, forse, ecco, era troppo grande, così l’abbiamo tagliata col seghetto riducendola a qualche decina di quadretti molto più pratici”.

E lì che è iniziato il principio dell’infezione!” esclama Enrico, ed io rimango un po’ sconcertata e domando incuriosita:

Cosa significa? Che infezione?”

L’infezione artistica!” mi risponde “Il nostro obiettivo sarebbe quello di riempire la città di quadretti, lavori nostri, principi di virus che si diffondano e contagino la gente”. Lautaro mi fa un esempio pratico: “Metti uno che passando per strada vede sul marciapiede un lavoro artistico abbandonato. Quale sarebbe la reazione? Sembrerebbe totalmente fuori luogo! Resterebbero indifferenti? Lo ruberebbero? Beh, se prendessero un mio disegno o una mia pittura io ne sarei davvero felice…”

Ma come ma, non vorreste recuperare le vostre opere? Volete dirmi che non ne siete gelosi?

Mah no, perché dovremmo? Farò degli altri lavori. Non faccio arte per tenerla sotto chiave, altrimenti non sarebbe più un canale di comunicazione”.

Io non l’avevo mai pensata in questo senso, credevo che tra l’artista e la sua creazione ci fosse un legame molto forte di appartenenza e identificazione e devo dire la loro prospettiva mi fa riflettere. Proseguo chiedendo: “E come è andata a finire con la giostra?”

Già tutti quei quadretti che avevamo tagliato li abbiamo disposti tutt’intorno all’Accademia mostrandoli a chi passava: professori, studenti e bidelli. E siamo pure riusciti a venderne qualcuno”.

Ma riuscite a ricavare soldi da quello che fate?”

Poco, ma poco anche importa. Dipende dall’acquirente che capita e comunque di solito investiamo il ricavato in grasse bistecche!”

Ridiamo e l’atmosfera si colora di tonalità calde.

Quindi” intervengo “riuscite comunque a sfogarvi nella vostra creatività nonostante l’offerta formativa accademica vi abbia deluso?”

Si, si, noi, figurati! Ci troviamo sempre qualcosa che ci tenga occupati: dialoghiamo con Leonardo in Ultime cene moderne, inventiamo storie da disegnare a due, andiamo a cercare materiale come tele, pennelli di compensato, tavolette di legno da usare come supporti per le nostre prossime zingarate…”

Quindi usate anche materiale di recupero?”

Si, si, quando non veniamo finanziati”.

Ma” chiedo scherzosamente “ voi avete due menti distinte o una sola? Il vostro operare comune mi sorprende”.

Ah ah! No, non siamo in simbiosi. Veniamo infatti anche da due esperienze artistiche diverse, ma nell’ultimo anno e mezzo da quando ci siamo conosciuti, l’evoluzione del nostro disegnare e dipingere è stata pazzesca. A volte ci miglioriamo a vicenda, a volte al contrario ci roviniamo i quadri, ma non importa, ci piace lavorare insieme, ne nascono risultati inaspettati e ognuno contribuisce ad accrescere l’entusiasmo dell’altro”.

Mi avvicino a guardare i loro quadri e mi immergo nella varietà dell’insieme e dentro ognuno di essi. Ciò che colpisce, infatti, osservando la saletta dei Preti che accoglie l’esposizione di questi due giovani pittori è proprio l’eterogeneità non solo dei temi (Mosè, cavalli, vecchietti, supereroi, rompicapi latini), ma anche delle dimensioni, dei supporti e delle tecniche: un elogio alle sfaccettature multiple dell’arte.

Enrico mi racconta la genesi di Love, (dovreste farvela raccontare da loro) un enigmatico personaggio inventato da loro, una sorta di Batman in tuta rosa, ma dall’espressione rigata tipica di un Clint Eastwood di certi vecchi western. Questa misteriosa e impenetrabile figura trova spazio d’azione nelle pagine di fortuna di un fumetto inedito, che è sempre una loro opera, insieme a molte altre sagome di personaggi ben caratterizzati, ma allo stesso tempo indefiniti e sfuggenti nei loro tratti essenziali: la tesa di un cappello, il fumo di una pistola, il bavero di una giacca intrisa degli odori di chissà quale localaccio, un’ombra che si allunga in quello che possiamo immaginare un deserto, magari in Arizona o in Messico.

Nei lavori di Lautaro ricorre la figura del vecchio. Come disse Hemingway, un vecchio “magro e scarno, che aveva rughe profonde (…) e sulle mani aveva cicatrici tutte antiche come erosioni di un deserto senza pesci”. C’è qualcosa dietro queste linee e chiedo a Lautaro : “Cos’è che ti affascina degli anziani?”

E’ bello disegnare i vecchietti, mi piace riprodurre le pieghe della loro pelle segnata dal tempo, pensare a quanto tempo hanno vissuto che ha scavato quei solchi”. Già, penso io, anni di vita e di ricordo umano che come in una nebbia diventa impalpabile, lentamente si nasconde tra i risvolti del tempo, della pelle e della mente.

La serata va avanti tra chiacchiere varie, una tisana, una passeggiata, una pasta col sugo. Infine, dopo cena, ci salutiamo. Io, a casa mia, guardo quei vecchi pannelli -chissà chi li ha dipinti- forse dovrei fare qualcosa anch’io, qualcosa che sia mio, un’immagine che nasca dalla mia mente. Poi nel letto ripenso alla serata in scene che vorticosamente cominciano a girarmi intorno: la varietà, i cavalli, la campitura (ma chissà poi cosa vuol dire), Mosè e il limo del Mar Rosso, i supereroi, la Gestalt, sator arepo tenet opera rotas, la grande giostra che mi rimescola i pensieri, perché infondo se la immagini non serve completare la linea, e allora noi scappiamo a Venezia! Cortometraggi di 26 minuti su draghi felici, pescecani, pescicane, e-cani, i-cane, Ci sei amico?

Un momento. Farnetico. Forse mi sto ammalando, sono un po’ congestionata. Mi rigiro e prima di chiudere gli occhi, addormentandomi dico: “Ragazzi, mi avete infettato”.

Voglio infett-arti

Un disegno di Lautaro

Taggato con: 2011, Arte, enrico giovanazzi, lautaro martinez, mostre, preti, underground, verona Pubblicato in: Verona

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