Volchok

Creato il 04 gennaio 2013 da Eraserhead
Un dramma comico imbevuto nel surreale, quindi grottesco, forse – anche – film di formazione degenere, di audace lirismo sporco: Volchok (2009) è in prima battuta cinema che il sottoscritto ama vedere, una di quelle opere per cui l’abusata espressione “piccolo grande film” purtroppo (per l’abuso) calza che è un piacere, anche se così piccolo poi non è: sì che ad oggi manca una distribuzione aldilà dei confini russi sia in sala che in DVD, però la pellicola in questione si è fatta un giro in parecchi Festival europei accaparrandosi un buon numero di riconoscimenti (va citato il FIPRESCI vinto in Ucraina) e perciò sottolineare la sua condizione ristretta appare un filo improprio, ma comunque anche con il curriculum sottocchio Volchok lo si continua ad avvertire come un film piccolo, da coccolare affettuosamente, che sprigiona un tepore filmico capace di riparare ai possibili passi falsi (per nulla gravi trattandosi di un debutto), alle esagerazioni, all’accanimento immotivato di una madre contro la propria figlia (ma ne siamo così sicuri? L’incipit suggerisce un aspetto che potrebbe pesare non poco sul legame delle due), e tutto perché è cinema che si forgia sull’estro: assolto dalle ganasce del reale che impongono le solite strade e autonomo nel sovrapporre registri divergenti, di fonderli senza che si crei disordine, di diffonderli nel tessuto diegetico scoprendo il suo prezioso cuore di film non ordinario, tragedia edulcorata dal dileggio e dalla fantasya, ingredienti che allo stesso tempo non ne sminuiscono certamente il carattere rovinoso. La storia, che Sigarev ha adattato da una sua sceneggiatura teatrale, sembra la copia carbone di un altro piccolo (eh…) gioiello apprezzato molto: Magnus (2007), dell’estone Kadri Kõusaar, che condivide con Volchok un approccio simile alla genitorialità; in entrambi i film la figura del genitore ha sostanza aberrante, innaturale, tanto che sulla carta personaggi così non potrebbero mai reggere; la mamma di Sigarev fa sesso con uno dei tanti “zii” calpestando la propria figlioletta rannicchiata in fondo al letto, la insulta, la umilia, la abbandona più volte. Ma regge, eccome. Anche perché il punto di vista in cui bisogna calarsi è quello della bimba, una visione infantile sottolineata dalla narrazione interna che accompagna le immagini e da delle semplici quanto efficaci soggettive che stanno lì a certificare la leadership espositiva della marmocchia. Ciò che accade si distorce quindi sotto la sua fanciullesca lente, si rigenera in fola moderna sapendo intessere in un panorama tipicamente sbiadito dal punto di vista umano come è quello russo una deliziosa vivacità immaginifica, e Sigarev si mette su queste tracce giocando con la mdp, insistendo sui riflessi degli specchi o delle finestre, usando i carrelli all’indietro o in avanti come telescopi per scrutare gli attori in scena, scovando soluzioni estetiche mai banali, convincenti quando si fanno metafora (l’occhio della piccola visto attraverso una fessura che sembra il mirino di una cinepresa, a rimarcare la centralità della sua presenza) e quando sono fini a se stesse (la stupenda sequenza del sogno che squarcia oniricamente il film).
Le trovate del regista sono disseminate lungo i novanta minuti di proiezione e si lascerà allo spettatore il gusto di coglierle (occhio al particolare nel cimitero!), di più si può dire che la prestazione recitativa della mamma (si tratta di Yana Troyanova, moglie di Sigarev, anche lei alla sua prima assoluta) appare di alto livello cosiccome quella della protagonista deliziosamente imbronciata dall’inizio alla fine, e proprio la fine con quell’abbassamento della qualità video che rende granulosa l’immagine impastata nel buio notturno e trafitta dal sonoro fuori campo, ratifica l’arrivo di una corsa a perdifiato che è un po’ il rincorrere di una vita per la figlia e lo sfuggire dalla stessa vita per la madre, nell’unico modo possibile.

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