Vedevo che ultimamente è un gran parlare di fica, sesso, porno, in tante diverse salse è l'argomento del momento. Dice che dobbiamo liberarci le tube dalla morale borghese e dalla norma bacchettona & eterosessista (vero, senz'altro vero). Allora facciamo la gara a chi gode di più, a chi sa liberarsi meglio degli altri dalla costrizione della ragazza per bene con le gambe serrate. Trovo che tutto ciò, quando articolato in modo sensato, sia legittimo e interessante, nonostante qualche volta si cada in toni da gara a chi ce l'ha più lungo.
Ma si parla sempre poco - o direi: per niente - dell'altra faccia della medaglia. Mi riferisco alle contraddizioni e alla vulnerabilità, ai nostri limiti in quanto umani e umane dotati/e di menti e corpi imperfetti e come tali esposti alla debolezza, alla rottura, ai limiti.Non voglio fare un pippone moralista: a scanso di equivoci - mi sembra ovvio ma di questi tempi è sempre bene specificare. In realtà sono fermamente convinta che il sesso sia una questione molto più politica di quanto generalmente si creda, almeno quanto la rappresentazione generale della fica che domina l'immaginario. C'è tanta, tanta repressione sessuale, ci sono tanti meccanismi di potere che ci portiamo dentro le mutande.
Trovo che, per fare giusto un esempio fra gli altri, Le ragazze del porno sia un bell'esperimento da incoraggiare, che in Europa non è certo nuovo ma qui non è mai troppo tardi. Apprezzo molto ogni sorta di tematizzazione che contribuisca a levare quel velo di repressione che ricopre tutto quanto abbia a che fare col sesso e col godimento femminile. Si parla di difendere il proprio diritto di essere arrapate, di essere sconce e di Do It Yourself. Io trovo tutto ciò semplicemente necessario e positivo. (Tanto che mi piacerebbe portare nel profondo Sud questo genere di discorsi, proprio perché so che dai più non sarebbero capiti, e vorrei che suscitassero un bel po' di prurito presso la "gente perbene" che quando qualcuno se la gode di solito tira fuori dall'armamentario concettuale ristretto di cui dispone, epiteti come troia o zoccola, solo e sempre per le donne che lo diciamo a fare, perché l'uomo in tal caso è sempre un tombeur de femmes che se lo può permettere). Eccetera eccetera.
Ma in generale considerando l'aria che tira, che presenta in più articolazioni il discorso sulla fica, alcune più articolate e interessanti altre molto meno, che parlando di una delle sue ultime versioni Jo ha chiamato magistralmente fichismo o femminismo genitale (se ne parla più avanti), e lungi dal ragionare in termini benaltristi, a me interessano sempre le contraddizioni e le narrazioni prive di ambiguità non me la raccontano mai giusta. Perché tutta la libertà che possiamo e vogliamo rivendicare in termini di autodeterminazione del piacere e della fica deve fare i conti anche con la vulnerabilità, le paure. Essere femministe non significa certo non avere paure e contraddizioni, non vivere la sfera relazionale in un modo certo soggettivo in cui però si riflettono in qualche misura dinamiche oggettive, riconducibili a una cultura che inocula nelle donne il germe della dipendenza affettiva e del masochismo. Eppure sembra che questa sfera di narrazione non esista, è la grande assente - una delle grandi assenti dal dibattito. Se pensiamo alla dipendenza affettiva per esempio, è sbalorditivo che per il 99% riguardi le donne: questo fatto non è per nulla raccontato, mi sembra, dai femminismi attuali, per quanto sconcertante. Sono tante le donne che vivono di fatto una scissione interiore tra l'ideale di emancipazione e la realtà, spesso difficile, la difficoltà psicologica di non cedere al ricatto dell'approvazione e del compiacimento pagando il pedaggio sessista per vivere le relazioni. Faccenda che ha molto spesso a che fare con la questione della violenza di genere. Siamo ancora lontane da una parità sul piano psicologico e relazionale: le storie sono troppe, di dipendenza e ricattabilità, che mostrano come al piano dei principi non corrisponde ancora una piena emancipazione sul piano interiore. Ho parlato di dipendenza affettiva ma potrei parlare di moltissimi altri aspetti: il masochismo, la paura dell'abbandono, la malattia, l'ansia, eccetera.
Questo versante della faccenda interessava in qualche modo il cosiddetto femminismo radicale, Carla Lonzi è un esempio lampante di rimessa in discussione degli assunti psicologici - e politici - dell'oppressione di genere. Ma sono passati cinquant'anni e i limiti di quel femminismo sono emersi tutti. Esiste oggi dunque, dopo tantissime evoluzioni - e, non di rado, involuzioni - un nuovo livello di discussione che appare tendenzialmente normativo almeno quanto la norma che volevamo contestare. La norma femminista è sempre in agguato, in ogni femminismo. Io avverto come normativo questo femminismo che non ragiona mai sui problemi relativi alla sicurezza psicologica e alla complessità delle relazioni, alle contraddizioni, all'imperfezione umana, alla vulnerabilità e alle paure considerati in un'ottica di genere.
E' più o meno la stessa cosa che dicevamo in relazione al queer. Il queer sembra possibile solo per chi è psicologicamente privo di crepe interiori e perfettamente capace di gestirsi quel problema secolare che è la perdita dell'oggetto, per dirla con Freud. Non sembra esserci spazio dunque per le crepe e le rotture, per la vulnerabilità, tu devi essere forte, un manager dei tuoi sentimenti, perfettamente in grado di gestire tutte le difficoltà delle relazioni - le parole 'paura', 'dolore', non fanno parte di questa narrazione. Si voleva estendere le maglie dell'universalità, ma dall'universalità continuano a restare fuori in tanti. Ci scontriamo sempre di nuovo con il problema della norma che si infila balordamente nei nostri discorsi intesi alla liberazione dall'oppressione. Questo processo mi piace, purché venga riconosciuto e ricondotto a narrazioni più ampie e più capaci di farsi carico dei problemi - le narrazioni lineari di solito sono bugiarde.In un certo senso questo carattere normativo relativo a una presunta impeccabilità umana è stato messo in evidenza ultimamente dalle ragazze di Soft Revolution, che scrivono Non era la cosa femminista da dire e io l'ho detta lo stesso - un titolo brillante ed eloquente. In questo bell'articolo Margherita Ferrari ha espresso un pensiero che è anche mio, che sento molto mio:
Ciò di cui sento la mancanza, quando leggo gli scritti di certo femminismo italiano che comunica principalmente online, è un riconoscimento della nostra natura imperfetta.Quando mi viene detto che certe cose non le dovrei scrivere su Soft Revolution, perché do un’immagine sbagliata alle ragazze, un cattivo esempio di debolezza, mi chiedo che senso abbia negare parte di noi. In funzione di chi? Di cosa?L'oscuramento non avviene solo sul piano della riflessione sul porno e dintorni. Avviene anche in relazione al cosiddetto femminismo emancipazionista. Una volta, a una conferenza, una persona si alzò per dirmi con certo tono maternalista che qualcuno avrebbe dovuto spiegarmi che cos'era il femminismo. L'argomento era il mio personale femminismo, come l'ho conosciuto e come l'ho fatto mio - parlavo di sentimenti, bisogni e altre amenità più o meno interiori. Però mi è stato detto che non avevo capito, che quello era il femminismo degli anni Settanta dei gruppi di autocoscienza: ora ci sono i potentati internazionali, ci sono problemi economici grossi così, e che dovevo aggiornarmi.Il fatto che io sia profondamente convinta che un'ottica materialista - che cioè presti attenzione alla discriminazione di classe nel suo incrocio con l'oppressione di genere e di razza - sia fondamentale e in un certo senso prioritaria, che la questione del reddito e delle diseguaglianze materiali sia assolutamente centrale, non toglie che debba sentirmi libera di concettualizzare altre sfere di esperienza, solo apparentemente autoreferenziali, che spostino l'asse del discorso, anche solo per un momento, sul piano delle paure e delle contraddizioni, sul piano della propria vita individuale. Non è abbastanza femminista? E io lo dico lo stesso.
Judith Butler è ormai da tempo un punto di riferimento nella teoria e pratica femminista. Lei ha dato un contributo importante nella ritematizzazione del porno, per esempio fra l'altro in Excitable Speech. Ma lei ha anche proposto una riflessione morale incentrata sul concetto di vulnerabilità. Ecco, io ancora non conosco a fondo questo aspetto del suo pensiero, ma in partenza mi piace molto questo porre l'accento sul fatto che siamo corpi, che siamo umane e siamo fragili, intrinsecamente suscettibili alla rottura e che ogni tematizzazione della libertà debba fare i conti con questo inaggirabile fatto. Se il femminismo vuole essere veicolo di liberazione non può negare le contraddizioni, ammesso che queste lo siano, non può negare la debolezza, il dolore, i nostri limiti. Altrimenti diventa una norma, diventa esso stesso oppressivo, diventa una forma di discorso nella quale ci si può riconoscere fino a un certo punto. La grande forza del femminismo stava fra l'altro nella capacità di portare nel dibattito pubblico il piano considerato privato dell'esistenza. Il personale è politico è uno slogan profondo sempre attuale. Il privato non è del tutto privato, in esso si condensano dinamiche più grandi - dinamiche sociali, culturali, politiche che vanno raccontate e problematizzate e possibilmente superate. Ecco mi sembra che in questa fase ci troviamo di fronte a una rimozione del privato considerato nella sua complessità nel dibattito femminista, una rimozione parziale che si misura fra l'altro nell'assenza di ogni rappresentazione che tematizzi queste difficoltà, le quali non vanno ignorate se vogliamo guadagnare terreno in direzione della libertà femminile e in generale nel rapporto fra i sessi.
In un certo senso però capisco perché ciò avvenga. Ci sono tanti problemi, in primis culturali e strutturali, che impediscono un effettivo esercizio della libertà - penso all'obiezione di coscienza che elimina di fatto le conquiste fatte negli anni Settanta con la legge 194; un pericolo che in Spagna ha assunto le forme inquietanti e assolutamente inaccettabili di restrizione del diritto all'autodeterminazione nella riproduzione. E c'è forse il timore che raccontando questa parte vulnerabile di sé, intrinseca a ciascun vivente, si faccia passare una narrazione che riporti lo spauracchio della donna bisognosa di protezione - un concetto pericoloso contro il quale non ci si batte mai abbastanza. Ma questo rischio non è un motivo sufficiente per unilateralizzare la narrazione e saltare a piè pari il problema.
Penso che potremmo permetterci queste tematizzazioni, penso però al contempo che forse sopravvaluto il contesto. Mi accorgo infatti, come scrive l'ottima Jo, che c'è una torsione tendenzialmente disonesta del dibattito - presunto -, che stiamo a parlare di femminismo moralista rispetto al quale rivendicare una libertà di essere puttane, in chiave neoliberista di libera vendita del proprio corpo per i fini che più ci aggradano, non ultimi di arrampicamento sociale passando per l'autorizzazione a esistere rilasciata dal fallo maschile, in salsa grottescamente berlusconiana. Siamo alla reductio ad ficam del complesso apparato di problemi di cui deve farsi carico una riflessione pratica femminista; siamo a una semplificazione brutale della libertà sessuale.
La presunta questione del culo di Bacchiddu (dio mi guardi dall'occuparmene), il libro di Chirico "Siamo tutti puttane", il dibattito sul postporno e gli assunti femministi della liberazione sessuale sono stati arbitrariamente frullati nel Bimby della schematizzazione bruta e della semplificazione disonesta. Si fa passare la battaglia contro una mercificazione dei corpi, in cui si coniugano funestamente patriarcato e capitalismo, per moralismo - si fa cioè lo stesso gioco del sessismo e del maschilismo, però lo si fa dall'interno, prendendo le distanze da presunte nemiche che secondo la fallacia dello straw man ci vorrebbero tutte con le cosce chiuse a dire messa. Non è propriamente così e articolare una risposta mi sembra anche una perdita di tempo, perché in tal modo facciamo regredire il dibattito a uno stadio elementare.Per tornare al discorso di prima, se il contesto è questo, parlare di vulnerabilità è un potenziale boomerang e certamente un off topic. Ma l'ordine del giorno coatto, il terreno del dibattito dai contorni pretracciati ai quali dunque dovremmo normativamente attenerci per avere voce in capitolo, hanno molto poco a che fare con gli assunti fondamentali del femminismo, che in prima istanza domandano un riconoscimento sul piano personale e politico in nome della libertà rispetto alla norma. Insomma, quel che voglio dire è che la libertà sessuale è una faccenda più ampia, articolata e complessa della libertà genitale (cito liberamente da Jo).
Ma il contesto fortunatamente non è solo questo. C'è una colonizzazione mediatica da parte di questo presunto dibattito, che non esaurisce affatto i femminismi - e quello che fra l'altro auspico è che alle battaglie per il rispetto della 194, contro l'obiezione di coscienza, per il reddito e per tutte le altre cose che sappiamo, si affianchi anche un'attenzione per la vulnerabilità, da tenere in conto ogni volta che ragioniamo di questo argomento urgente e complesso che è la libertà.
Raccolgo l'invito di Jo a considerare la questione del cancro al seno e del diritto alla salute e al lavoro, cioè a una vita dignitosa in condizioni di malattia, posta dalle Amazzoni Furiose, perché è assolutamente vero che la questione ci riguarda tutte e tutti e riguarda dunque il femminismo direttamente.