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È possibile raccontare al cinema un melodramma epico d’altri tempi, per gran parte ambientato durante l’immane tragedia della prima guerra mondiale, dal punto di vista di un cavallo? È questa la grande sfida che deve aver affascinato Steven Spielberg, convincendolo a trasporre sul grande schermo War Horse, l’eccentrico romanzo per ragazzi di Michael Morpurgo (1982) in cui il protagonista è un destriero che assume persino le vesti del narratore. Al cinema però – come d’altronde a teatro, dove il romanzo è già stato adattato – è impossibile osare tanto, essendo la componente antropomorfica essenziale all’immedesimazione dello spettatore. E così Spielberg e i due sceneggiatori Richard Curtis (I Love Radio Rock) e Lee Hall (Billy Elliot) hanno deciso di raccontare una storia in cui non c’è un narratore interno, senza far quindi ricorso alla voice over di alcun personaggio (tanto meno del cavallo) e seguendo le incredibili vicende del portentoso equino di razza Joey e degli esseri umani che di volta in volta condividono il suo avventuroso percorso.
Poco dopo la nascita Joey viene acquistato all’asta dal contadino inglese Ted Narracott (Peter Mullan), il quale, folgorato dalla bellezza del quadrupede, per ottenerlo spende una cifra superiore alle proprie possibilità, pur avendo bisogno di un animale in grado di trascinare l’aratro per i campi. Data l’ingente spesa, Ted alla fine del mese non ha più a disposizione la somma necessaria per l’affitto della casa e del terreno da coltivare. Diviene allora prioritario insegnare a Joey ad arare i campi al fine di ripagare, in ritardo e con gli interessi, il poco sensibile proprietario terriero: un’impresa ardua visto che Joey è un puro sangue e non certo un cavallo da tiro. Il figlio di Ted, Albert (Jeremy Irvine, al suo esordio cinematografico), si assume allora la responsabilità di domare Joey e di farlo lavorare. Tra il ragazzo e il cavallo nasce e si sviluppa un rapporto profondo ma allo scoppio delle guerra Ted, per saldare i debiti ed evitare di perdere la casa, vende Joey di nascosto dal figlio all’esercito in partenza per il fronte. Da qui – siamo a quaranta minuti circa di narrazione sulle quasi due ore e trenta totali – parte tutto un altro film, che racconta la guerra seguendo le peripezie di Joey attraverso gli orrori. Fino a un finale che strizza l’occhio con evidenza al cinema classico di John Ford.
War Horse è molto interessante se si prendono in considerazione i meccanismi di identificazione che innesca nello spettatore. Oltre ad essere talmente ben costruito da riuscire a tratti persino a far entrare lo spettatore in empatia con il cavallo (peraltro in maniera anche intensa), la struttura della storia ci porta più volte ad appassionarci alle vicende degli esseri umani che a mano a mano si susseguono al fianco di Joey, abituando con sistematicità chi guarda ad abbandonare dei personaggi per abbracciarne subito dopo degli altri. L’opera di Spielberg potrebbe dunque essere definita come una sorta di bizzarra pellicola corale sui generis (si partecipa alle vicende di soldati inglesi, tedeschi e francesi, oltre che a quella di una piccola famiglia transalpina) che ruota però tutta attorno alla figura del cavallo protagonista.
Girato con maestria da uno Spielberg evidentemente ispirato (superbi i carrelli laterali che seguono le galoppate di Joey nei campi di battaglia o le sequenze in trincea che per un attimo portano alla mente Orizzonti di gloria di Kubrick), War Horse è una favola epica assai elegante nella forma, fieramente anacronistica e nostalgica, che privilegiando il punto di vista di un cavallo sugli accadimenti bellici ci mostra con forza, mediante un’operazione che in parte ha certamente un effetto straniante, l’assurdità e l’atrocità della guerra voluta dagli uomini. Senza dubbio il film di Spielberg fa ricorso ad una buona dose di retorica, come d’altronde avviene in quasi tutto il cinema del sessantaseienne cineasta nordamericano. Ma in questo caso ci sembra che, considerato il contesto fiabesco e avventuroso dell’opera, ciò non costituisca affatto un elemento di disturbo ma vada invece accettato come una componente quasi inevitabile nel contesto dell’operazione complessiva, chiaro omaggio a quei film d’avventura classici di un tempo che ora non si producono più. Eccellenti il lavoro del direttore della fotografia Janusz Kaminski (già premio Oscar per Schindler’s List e Salvate il soldato Ryan) e le musiche originali del celebre compositore John Williams, entrambi fidi collaboratori di Spielberg.
Articolo pubblicato su cinemartmagazine
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