Simon Staho. Quando un nome (mi) dice tutto.
La comunità cinefila internettarola conosce, tra virgolette, questo giovane danese per quello che a mio avviso è un capolavoro degli anni zero, ovvero Daisy Diamond (2007). Un film che al sol pensiero (mi) scatena un pandemonio di glaciali sensazioni, una cosa che nella vita di uno spettatore non si vede di frequente, pellicola di puro, gigantesco, mastodontico Dramma, cinema che pur forgiandosi in un discorso meta non si arena nel suo pensarsi ma diventa opera multi-leggibile mantenendo sempre come bussola interna il tracollo annichilente della sua protagonista.Ma Staho non si è limitato DD e in coppia con lo sceneggiatore Asmussen ha inciso il suo nome nel cinema contemporaneo attraverso un lavoro di ricerca che da una parte ripesca nel classico danese (Dreyer) e dall’altra innova con un modus operandi che si r-innova di film in film. Ma queste sono soltanto elucubrazioni di un Ereserhead qualunque perché in realtà i film di Staho non hanno quasi mai partecipato a Festival importanti, morale: al di fuori dei paesi scandinavi non se lo sono cagato granché, quindi, se potete, recuperatelo che le sue produzioni fanno del bene a tutti gli organi impegnati nella visione di un film.
- fine messaggio –
Eppure il sermone pro-Staho se applicato a Kärlekens krigare (2009) potrebbe apparire quasi esagerato. Infatti il film in questione è un concentrato di minimalismo moderno impresso di sottrazione: solo due attrici in scena, musiche latitanti, dialoghi rare(/arte)fatti, trama pressoché inesistente. Sappiamo però che nel cinema ad un’apparente semplicità può corrispondere una concreta complessità, e, giusto per dire, basta avere l’occhio un po’ allenato per capire che Staho ha svolto uno studio preparatorio non da poco in merito alle inquadrature. D’altronde il regista sa come fare cinema e l’aspetto non sorprende più di tanto, di certo però ci troviamo di fronte ad un’opera diversa da quelle che l’hanno preceduta con le quali però condivide dei punti in comune: soprattutto con il corto Nu (2003) per il b/n e per il legame omosessuale, ma anche in quell’impostazione visiva che fa della frontalità la sua benzina; l’arte di Staho è decisamente frontale, il suo riprendere le cose “che ha di fronte” ha partorito due film sulla carta molto azzardati come Dag och natt (2004) e Bang Bang Orangutang (2005) che si sono rivelati poi esemplari di cinema a dir poco strepitosi.
In questo film, come sottolineato, abbiamo tali affinità (tra l’altro un bianco e nero del genere non lo si vedeva da un bel po’), ma allo stesso tempo si ravvisa un netto distacco dell’autore rispetto al suo passato registico. Con Warriors of Love Staho entra di fatto a piedi uniti nel cosiddetto CCC (Contemporary Contemplative Cinema), ed è un’entrata che porta inevitabilmente al disorientamento. Avevamo ancora negli occhi un film come Heaven’s Heart (2008) tutto incapsulato attorno ad un tavolo da pranzo e tutto giocato sul botta e risposta, qui di contro l’atmosfera è densa di silenzio e preme esclusivamente sulla mimica facciale delle due ragazze, in più, dopo che avviene il fattaccio, la mdp di Simon si incammina nella natura lavorando principalmente con la lunghezza di campo che rende le protagoniste due donne piccole, o due bambine, quali sono.
La commestibilità della pellicola è comunque ad appannaggio di palati fini, nello specifico è consigliata a spettatori che non si scoraggiano di fronte ad una dilatazione dei tempi filmici (gli stacchi vengono continuamente procrastinati, dall’immagine di una rampa di scale deserta al primo piano muto tenuto a fuoco anche per un minuto), e che, aspetto primario, non danno peso realistico alla psicologia dei rapporti sentimentali. Ida e Karin più che due innamorate si rivelano icone dell’Amore, portatrici di un sentimento puro e assurdo (come in fondo l’amore è), un’entità unica dalla doppia faccia: la bionda è una figura quasi cristologica che accetta le violenze subite dal padre senza portare rancore, la mora è la parte terrena che pianifica la vendetta con raggelante serenità.
Detto tra noi: è un film per pochi, un po’ per la sua veste estetica e un po’ per il modo di portare avanti le sue argomentazioni. I fan (?) di Staho avranno di che lambiccarsi il cervello, il loro beniamino si conferma un’interprete sgusciante, ma con un mirabile ancoraggio verso la settima arte, del cinema odierno.