C’erano una volta i buoni e i cattivi. Poi c’è stato Watchmen, e i buoni e i cattivi sono rimasti esattamente dov’erano, soltanto, è diventato tremendamente difficile stabilire da che parte stiano. È il 1988 quando Alan Moore alla sceneggiatura e Dave Gibbons alle tavole ci regalano uno di quei lavori che è considerato cardine della letteratura inglese moderna e contemporanea – e a distanza di più di vent’anni, il figlio di questo matrimonio non smette di dare soddisfazione ai genitori. L’intuizione – onore al merito – è geniale: creare lo stesso mondo a fumetti della DC, ma privilegiando il realismo psicologico più di ogni altra cosa. E quindi ciao super-eroi καλοί καί ἀγαθοί; addio accettazione serena dell’uomo ordinario di fronte all’unheimliche profili psicologici dei personaggi tutti identici l’uno con l’altro, è stato un vero piacere conoscervi. Quello che Moore vuole – e quello che Moore ottiene – è dare vita a tutta una serie di personaggi – satellite di quelli protagonisti che diano credibilità e spessore a un vero e proprio Alternative Universe del nostro, di modo che l’effetto stordente sia tanto più grande quanto più è grande il livello di immedesimazione raggiunto dal lettore. Ma che suddetto lettore non si illuda, non se ne salva uno. E quando si parla di salvarsi, si intende in senso metaforico.
Spettro di Seta è un’insignificante arrampicatrice sociale; la seconda Spettro di Seta è una donna che nasconde dietro un’emancipazione più ostentata che maturata una drammatica incapacità di crearsi un’identità che non sia quella dell’uomo a cui si accompagna; Rorschach è uno psicopatico violento e pericoloso che priva la giustizia di compassione e la trasforma in un diagramma di flusso inflessibile e spaventosamente gelido; entrambi i Gufo Notturno sono due borghesi elettrizzati dal senso di avventura e poco altro; Ozymandias è un machiavellico nel senso più puro in cui la parola è intesa nei manuali di psicopatologia – perché il fine giustifica i mezzi, sempre e comunque (?) – e probabilmente mettere per iscritto la parola più atta a definire il Comico non è opportuno all’interno della sede che ci ospita. Ma ecco!, è tutto qui riassunto il valore inestimabile del prodotto. Se le tavole non sono certo quelle a cui la Marvel ha ormai viziato l’incontentabile fruitore del XXI secolo – così prodigo di attrezzatura digitale per gli ancora più viziati disegnatori – questo nessuno avrà il tempo di rimpiangerlo: l’uso dei colori mette la parola fin a qualunque tipo di lamentela qualcuno possa mai sognarsi di muovere.
L’alternanza di viola e giallo – che già da sola farebbe piangere calde lacrime d’amore a qualunque lettore dal gusto filo-espressionista – è molto più della giustapposizione di colori complementari. Grida luminosità – non della luce che illumina, ma della luce che stordisce: quella psichedelica della città, quella che obnubila e irretisce i sensi. Sono le luci dei televisori, sono le luci stroboscopiche, sono le luci che abbacinano la persona e la privano di personalità. Senz’altro interessante. Oh Loki!, Alan Moore avrebbe bisogno di rivedere la sua concezione di omosessualità, perché non è nemmeno necessaria chi sa quale vis polemica per dichiarare interamente prive di senso certe sue prese di posizione in materia, è sufficiente un qualunque dizionario della lingua italiana – o, nella fattispecie, inglese. Ma lungi da me tacciare di omofobia l’autore di V per Vendetta, sarebbe ridicolo. Pure, qualunque riferimento egli faccia sull’argomento urla ignoranza fino a scartavetrare le pareti della gola.
Questo in fondo non deve sorprendere, fino al 1987 la discussione in seno all’APA (American Psychological Association) era ancora – vergognosamente – accesa, e non saper distinguere l’omosessualità da una nevrosi, quanto alle sue dichiarazioni; dall’esibizionismo spicciolo, nel caso di Silhouette; o dal sadomasochismo nel caso di Giustizia Mascherata può giusto perplimere più che suscitare chi sa quale sentimento di condanna, e si inserisce perfettamente nel quadro complessivo del suo tempo. Quando una persona non sa di cosa parla, d’habitude non sa di cosa parla: ah!, il meraviglioso mistero della semiotica. Ma le critiche vanno, il merito resta, quello di aver messo per iscritto che il migliore sia il peggiore, che il peggiore sia il migliore, e che forse migliore e peggiore non hanno poi tanto senso in un contesto dove è l’eroe ad essere il nemico, e forse nemmeno esiste: se sia l’eroe o il nemico a non esistere, questo lo si scelga dopo la lettura.