di Antonio Scarazzini
Ormai giunta al limite del cortocircuito tra rigore e crescita, l’Unione Europea vive negli ultimi mesi la più profonda defaillance strutturale dal varo della moneta unica. Divisa al suo interno tra sistemi economici spesso molto differenti tra loro, l’Europa deve oggi ricostruire la sua architettura istituzionale. Solo attingendo ai modelli più virtuosi, senza imporre soffocanti prescrizioni, e mutualizzando forme di controllo e sanzione si ritroverà quell’unione politica necessaria a riprendere il timone della politica economica e monetaria.
Nel complesso quadro che la crisi finanziaria ha assunto in Europa, la Germania continua rispecchiarsi nel duplice ruolo di motore trainante l’economia europea e, contemporaneamente, di principale fautore del rigore che ne ostacola la crescita. Guardando al sistema economico tedesco e, in particolare, ai fattori che ne determinano la competitività, si possono certamente distinguere dei tratti peculiari che suggeriscono l’esistenza di un “modello Germania”. Possono i Paesi in deficit di competitività, come l’Italia, aspirare ad imitare tale sistema?
Il tema è molto dibattuto e interessante e, per affrontarlo, occorre ad esempio valutare le soluzioni che i vari Paesi adottano in termini di welfare e mercato del lavoro. A livello europeo è infatti possibile riscontrare l’esistenza di almeno tre modelli di welfare: il primo di tipo socialdemocratico, un secondo tipico di Paesi come l’Italia ed uno anglosassone. Il modello tedesco tutela la persona, mentre quello italiano il lavoro. Abbiamo quindi da un lato un lavoro ipertutelato, a fronte di un esercito di lavoratori precari per i quali non si può parlare di flessibilità: sarebbe tale solo se il passaggio di contratto in contratto coincidesse con un avanzamento di retribuzione, anziché con l’alternanza di lavori temporanei e mal retribuiti. L’Italia continua a poggiarsi dunque su un mercato del lavoro duale in cui queste asimmetrie hanno aiutato ad elevare i livelli disoccupazione e di disagio sociale; in Germania, invece, tramite un’accurata gestione del sussidio di occupazione si è riusciti a delineare quel particolare concetto di flexicurity in grado di conciliare flessibilità per il datore di lavoro e sicurezza per il lavoratore. A dire il vero, moniti contro l’incongruenza tra questi due fattori furono infatti già lanciati in Italia nel 1997 quando fu approvato la legge Treu, che creava i contratti co.co.co e co.co.pro: la Commissione Onofri, oltre a segnalare lo sbilanciamento della spesa pubblica italiana a favore delle pensioni, denunciò, infatti, come l’introduzione della flessibilità senza reti di protezione, attraverso un sussidio universale, avrebbe portato a storture dell’occupazione. Dalla Germania possiamo quindi imparare a riformare il sussidio, la cui esistenza in Italia è pressoché minima, ma soprattutto possiamo attingere alla cultura della cogestione. Ciò significa che i sindacati possono sedere nei consigli di vigilanza delle aziende e partecipare alle decisioni delle stesse, in cambio di una flessibilità maggiore concessa ai datori di lavoro. Nei momenti di grande crisi, come dopo il 2001, aziende e lavoratori si accordarono per bloccare gli aumenti di stipendio. Quando l’economia si riprese, tra il 2005 e 2006, le richieste di aumento si fecero pressanti; questo clima di collaborazione unito all’introduzione di strumenti quali la settimana corta, fanno sì che ora la disoccupazione in Germania sia di 3-4 punti percentuali sotto la media europea. Il sistema tedesco può servirci da esempio per abbandonare un modello conflittuale tra capitale e lavoro, che è tipica della nostra cultura e che impedisce ai rappresentanti di aziende e lavoratori di discutere con efficacia.
In Italia ha quindi ancora senso parlare di concertazione per risollevare il contatto fra le parti sociali?
La concertazione in Italia ha avuto i suoi difetti: la Banca d’Italia ci dice che gli stipendi in termini reali sono rimasti fermi a vent’anni fa. Questa è un’ulteriore dimostrazione dell’utilità di scegliere il modello tedesco, cosa che è successa ad esempio per il contratto dei chimici. Si tratta certo di un piccolo contratto, ma è simbolo di un tentativo di conciliazione fra le parti, che sceglie di subordinare gli aumenti di stipendio alla ripresa economica. I limiti mostrati dalla concertazione sono dovuti in parte anche all’arretratezza della mentalità imprenditoriale: al momento dell’introduzione dell’euro le aziende italiane, anziché approfittare della sfida per innovare, hanno preteso di continuare le stesse produzioni agendo al ribasso sui salari per contenere un costo del lavoro già reso particolarmente alto dal livello di contribuzione fiscale.
Il governo Monti ha il merito di aver ridato credibilità internazionale all’Italia, anche grazie al ripetersi di diversi vertici intergovernativi in particolare con Francia e Germania. Qual è il peso delle riforme compiute in Italia sul percorso di uscita dalla crisi? I “compiti a casa”, come la riforma delle pensioni, sono effettivamente stati svolti nella misura richiesta da Bruxelles?
La riforma delle pensioni è uno dei risultati più importanti ottenuti dal governo Monti soprattutto perché si è fatta giustizia intergenerazionale, questo malgrado i passi falsi commessi ad esempio sugli esodati. Sino ad oggi si scontavano infatti gli errori compiuti nella riforma Dini del 1995: coloro che all’epoca avevano maturato almeno diciott’anni di lavoro sarebbero andati in pensione con il sistema retributivo misto; gli altri avrebbero ricevuto una pensione calcolata con il contributivo, pari quindi ai contribuiti versati. La riforma Fornero è stata quindi fondamentale per correggere quelle storture che permettevano ad alcune categorie di andare in pensione ricevendo quasi due volte e mezzo l’ammontare complessivo dei contributi versati. Tutto questo a scapito quindi delle generazioni più giovani.
Accanto alla crisi interna, maggiormente strutturale, di alcuni suoi Stati membri, che bilancio si può stilare circa le scelte compiute dall’Unione Europea per rispondere alla “sua” crisi strutturale, come ad esempio l’attivazione di un vero fondo salva-stati come l’ESM? Sono sufficienti per evitare di confidare unicamente nell’intervento della Banca Centrale Europea come sola garante della moneta unica?
Questo è un nodo importante. La scelta della BCE di lanciare il programma OMT di acquisto dei bond sovrani ha senso solo se accompagnata da un progresso politico. Il grande errore originario dell’euro è la creazione di un’unione monetaria senza unione politica. Progressi politici ci sono comunque stati, come al vertice del 29 giugno quando si è deciso di intraprendere la strada della creazione di una vigilanza bancaria unificata. I problemi dell’economia europea hanno a che fare tanto con le finanze della Grecia quanto con i conti delle banche, per cui sarebbe fondamentale che questa vigilanza venisse estesa a tutti gli istituti bancari, compresi quelli molto peculiari come le landesbank tedesche e le cajas spagnole, malgrado le opposizioni dei rispettivi governi. L’altra decisione fondamentale è stata quella di concedere al fondo salva-stati (l’ESM) la possibilità di ricapitalizzare direttamente le banche. Se la politica non smonterà queste decisioni, le correzioni all’architettura europea ci potranno salvare, perché l’intervento della sola BCE non potrà mai essere risolutivo.
A tal proposito, qual è il suo giudizio sull’operato della BCE guidata da Mario Draghi?
Rispetto al suo predecessore, Mario Draghi ha compiuto una cesura fondamentale. Trichet aveva iniziato ad acquistare titoli compiendo una sorta di moral suasion, dando cioè delle direttive circa le riforme che Italia e Spagna avrebbero dovuto attuare, operando comunque in seguito programmi di acquisto. Draghi ha invece affermato l’intenzione di voler riprendere i piani di acquisto dei bond se il Paese in questione chiede aiuti all’ESM e si lega quindi a piani di risanamento. Il pericolo è che un’eccessiva austerity non consenta di uscire della recessione; per questo Draghi ha affermato, nell’ultima riunione della BCE, di voler dare precedenza alle riforme strutturali piuttosto che all’aggiustamento dei conti. La Grecia, ad esempio, è un Paese che poteva essere salvato nel marzo 2010 ed invece oggi il salvataggio costerà 250 miliardi di euro. Da cinque anni è in recessione e dal 2009 ha perso un quarto della ricchezza nazionale e non si vede una via d’uscita: chiederle ora di sistemare le finanze è impossibile oltre che inutile, e la necessità di ricette diverse è sotto gli occhi di tutti. Se ne rendono conti anche i governanti, così come del fatto che è necessaria una convergenza delle architetture europee con vigilanza unica, un fondo salva-Stati unico dotato di licenza bancaria e possibilmente un progetto politico (come l’elezione da parte dei cittadini del presidente di Commissione o Consiglio) che dia maggiore sostanza a questa moneta.
Gli ultimi mesi dell’azione europea sono stati caratterizzati dal susseguirsi di vari vertici bilaterali: l’intergovernativismo sembra aver avuto la meglio sul metodo comunitario. Quali sono i rischi derivanti dall’esclusione dal dibattito di Paesi come la Gran Bretagna, fondamentale per il mercato unico, o di altre economie forti ma fuori dall’euro come la Polonia ?
Personalmente trovo che la grande assente al momento sia la Francia, soprattutto di fronte alle fughe in avanti della Germania e in particolare quando queste rischiano di essere peggiorative. Pensiamo ad esempio che recentemente i tre Ministri delle finanze di Germania, Finlandia e Paesi Bassi hanno affermato che i fondi dell’ESM saranno utilizzati solo per casi che possano verificarsi in momenti successivi rispetto all’attivazione della vigilanza bancaria unica. Davanti ad interventi così destabilizzanti mi sarei aspettata una risposta ferma da parte di Hollande che pure in campagna elettorale aveva usato toni risoluti contro l’austerity. Il pericolo generale è che si perda comunque di vista il ruolo delle istituzioni, anche e soprattutto quando si tratta di imporre sanzioni: Francia e Germania non possono arrogarsi il diritto di sanzionare la Grecia quando invece esiste una specifica procedura d’infrazione controllata dalla Commissione Europea. Le istituzioni europee devono essere rafforzate e tutelate, anche nel potere sanzionatorio e il Premier Monti è stato particolarmente accorto nel riportare la discussione a livello comunitario. Occorre sensibilizzare maggiormente l’opinione pubblica sull’operato delle stesse istituzioni: si è ad esempio parlato poco di come il Parlamento Europeo abbia bloccato la nomina del ventitreesimo membro del consiglio direttivo della BCE, per fare sì che almeno una donna venga eletta accanto ai ventidue uomini già presenti. Un caso purtroppo poco noto di felice intervento da parte di un’istituzione europea.
* Antonio Scarazzini è Dottore in Studi Internazionali (Università di Torino)