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What a fusion: Yellowjackets e Felix Pastorius al Blue Note

Creato il 29 maggio 2012 da Scribacchina

Del concerto degli Yellowjackets col Felix Pastorius al Blue Note di Milano, cari soliti lettori, avrei potuto proporvi la solita recensione tecnica: titoli di brani eseguiti, tecniche strumentali utilizzate, analisi dell’interplay tra i musicanti, funambolismi et similia. In realtà, per concerti di tal portata non vi sarebbe da attendersi altro, dallo scribacchino di turno.

Invece no, giovincelli miei.
Sarà cronaca ibrida: parti alterne firmate di volta in volta dalla svagatissima Scribacchina dei corsivi e dalla seriosa Scribacchina degl’articoli su carta (quella che i concerti li va a vedere per lavoro – oh, beninteso: stavolta v’è andata per puro piacere).

Ma non basta. Quest’ultima, serissima donzella si produrrà in un ulteriore sdoppiamento: cronaca del concerto e pizzichi di cronaca personale della serata.
Ardito esperimento, l’ammetto: ma già sapete che nello scrivere, come nel vivere, occorre sapersi rimettere continuamente in discussione.

D’altra parte, qui mica siam su carta stampata.
Qui siamo in territorio neutrale, dove tutto è concesso.
Qui non vi son regole, se non quelle ch’io stessa impongo alla narrazione.

Come sempre, buona lettura. 

Felix Pastorius & Yellowjackets in concerto al Blue Note

(qui sopra: Felix Pastorius in concerto al Blue Note di Milano con gli Yellowjackets – foto di Alberto Simone)

***

25 maggio 2012, spettacolo delle 23.30

Evidentemente, qualcuno mi ha lanciato una maledizione: non riesco a spiegarmi altrimenti com’è possibile che ogni volta che vado al Blue Note il meteo non collabora. L’altra volta, per Billy Cobham, esco di casa e trovo la neve; stasera, per gli Yellowjackets, mi accoglie una pioggerella subdola, di quelle che capitano matematicamente quando sei senza ombrello. E che in trenta-secondi-trenta sono capaci di farti diventare ricci i capelli, da lisci che li avevi tirati.
Per non parlare del mascara non-waterproof che cola.
Dannazione e stra-dannazione.

***

Quella di stasera, venerdì 25 maggio, è l’ultima serata milanese per gli Yellowjackets, protagonisti al Blue Note per tre sere consecutive con doppio spettacolo alle 21 e alle 23.30. Nella formazione, accanto a Bob Mintzer (sax), Russell Ferrante (tastiere) e Will Kennedy (batteria), da poche settimane c’è un nuovo bassista: Felix Pastorius, giovane talentuoso il cui cognome lascia poco spazio alla fantasia. Superfluo specificare che il musicista, 30 anni, è uno dei quattro figli di Jaco Pastorius: Felix e Julius, gemelli avuti da Ingrid, e John e Mary, nati dal primo matrimonio con Tracy.

Chiamarsi Pastorius è qualcosa a metà strada tra una benedizione e una maledizione. Un’eredità pesantissima, quel cognome, che getta la sua ombra sul musicista che sta per esibirsi stasera; e si avverte a pelle, la presenza dello spettro di Jaco: lo straordinario musicista che ha fatto la storia del basso elettrico (meglio: che ha reinventato il basso elettrico) è lì, sul palco del Blue Note, vivo come non mai. Lo stesso Bob Mintzer, presentando Felix, non dimentica di citare Jaco: «In passato ho avuto la fortuna di suonare con lui; oggi è un onore poter suonare con suo figlio».

***

Mon Dieu, soliti lettori, non vogliatemene: quando decisi ch’era il caso d’andar a sentire il Felix live, mica pensavo a lui come musicista… L’ammetto: come tutti, anch’io in lui vedevo pel 99,9% soltanto il figlio del Vate. Eppure oggi, dopo averlo ben sezionato (musicalmente: che avevate capito, voialtri?) e dopo adeguata riflessione, ammetto che Felix – oltre ad essere validissimo fusionista – è giovine di gran fegato. Converrete con me che nascere figlio di Pastorius, per un musicista, è una disgrazia di per sé: una vita in bilico, passata tra confronti e raffronti, sempre col fiato altrui sul collo. Figuratevi un po’ – poi – se detto musicista va a scegliersi come iStrumento proprio il basso elettrico. E se come genere sceglie la fusion.

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La somiglianza tra Felix e Jaco è impressionante; lo stesso fisico asciutto, lo stesso sguardo, lo stesso approccio divertito allo strumento.
Lo stesso, particolare modo di tenere la mano destra: il movimento delle dita, quello spostare la mano verso il manico per giocare con le sonorità.
E la mano sinistra, che quando accompagna sembra contenersi, limitandosi ad una diteggiatura stretta; una mano che ti sorprende quando il solo entra nel vivo e l’urgenza di «cantare» si fa pressante: lì la mano si allarga e… sì, sembra quella di Jaco.
Meglio: è quella di Jaco. Identica.

***

Oh, qui aggiungerei che quella mano mi par larga come un badile, soliti lettori. Un dubbio m’assale: sarà la mia, di mano sinistra, ad esser troppo piccola o sarà la sua ad esser smisuratamente ampia? Controllo subito (perdonami Felix, distraggo un attimo l’attenzione dal di te solo): mon Dieu, non ho mani grandi, ma neppure mignon, su questo siam d’accordo… Ebbene, non ho altre spiegazioni: è evidente che i due Pastorius son nati dotati. Di ampia mano.

***

Gli Yellowjackets sono favolosi, non ho altre parole; l’ideale accompagnamento per la loro fusion credo sarebbe una bottiglia di vino, qualcosa di raffinato. Un Franciacorta di nicchia: qualcosa come un satèn di Bersi Serlini sarebbe perfetto.
… Sì, figurati se qui al Blue Note hanno un Bersi Serlini.
Senza contare che la pattuglia della stradale è sempre in agguato. Meglio ripiegare su una sempreverde pinta di Weizen.

***

L’attenzione è catalizzata dal bassista, Felix Pastorius; dopo un inizio un po’ in sordina, con il fraseggio limitato al tema, ecco il primo solo. E qui arriva la vera rivelazione della serata: è chiaro che Felix ha raccolto l’eredità del padre, ma da lì è partito per un suo personale viaggio alla scoperta delle potenzialità espressive dello strumento. Un po’ l’atteggiamento che aveva anche Jaco: niente cliché, niente déjà vu. Non solo jazz, non solo fusion. E’ una nuova visione, è uno approccio quasi ribelle. E’ punk.
Qui i paragoni tra padre e figlio sembrano perdere interesse: sotto i riflettori c’è soltanto la facilità espressiva di Felix, con quel suo straordinario senso del ritmo. Per non parlare del fraseggio che riesce a cavare dal suo cinque corde Fodera.

***

L’avrei fatto più giovinetto dei suoi 30 anni, il Felix. Per come suona, gliene avrei dati 24, non di più: ha ancora quell’irruenza, quell’atteggiamento ribelle tipico del ventenne. Che poi, diciamocelo: il Felix ha pure il physique du rôle del giovincello. Alto, un po’ allampanato, con questi capelli neri svolazzanti che sarebbero stati meglio legati; tatuaggi sulle braccia, fatti alla vivaddio: v’è pure una specie di «B», lettera della quale ignoro il significato.
E ancora, quella maglietta scura con la scritta
«Charles Mingus» e una foto che non ho ben capito se sia del Pastorius padre, della Joni Mitchell o d’un qualsiasi altro musicista. Capirete, soliti lettori: col basso ben piazzato davanti alla maglietta, non è che ci si veda molto.

E a proposito di basso, fatemela dire una cosa: ma questi bassi Fodera, che hanno incorporato? Il pedale «Pat Metheny»? Diamine, a tratti la sonorità del cinque corde del Pastorius mi ricordava quella del Fodera di Janek Gwizdala, che già notai all’Eurobassday.
Un atroce dubbio m’assale: sarà forse il basso a sonar di vita propria? Se così fosse, direi ch’è il caso di prenotare, sin da domattina, un quattro corde dal Vinny.
… No, niente cinque corde, per la Scribacchina. Meglio i quattro corde.
Che poi, pure il Jaco sonava un quattro corde.

***

Mi rileggo e m’accorgo di non aver scritto nulla dello stellare batterista, Will Kennedy; nulla dello straordinario sassofonista Bob Mintzer; nulla dell’altrettanto valido tastierista Russell Ferrante.
… Embé?
Che avete da ridire?
Che c’è di male?
Già lo sapete: ero andata al Blue Note soltanto per sentire il Felix.
Tutto il resto era semplice corollario. 

Blue Note - Milano

Ed ora, soliti lettori, vi propongo due diversi finali per quest’avventura milanese: quello della Scribacchina seria e quello della Scribacchina dei corsivi. Quasi fossimo in Sliding Doors, a voi indovinare quale dei due è stato eseguito live dalla Scribacchina in carne ed ossa. Personcina che, manco a dirlo, si ritrova perennemente a fare i conti da un lato con un’innata timidezza, dall’altro coll’urgenza di mostrarsi per quel che è.

FINALE NUMERO 1 – tondo
Il bis è concluso, gli Yellowjackets scendono dal palco.
La pinta di Weizen è finita.
Si alzano le luci.
Si alzano anche gli spettatori, ed io con loro.
Mi guardo attorno con un po’ di tristezza: sarebbe dovuto durare di più, il concerto. Sarebbe dovuto durare in eterno.
Il curioso è che, mentre sto pensando ad un improbabile ritorno sul palco dei musicisti, gli Yellowjackets si palesano realmente. Ma è solo per raccogliere la loro roba: strumenti, spartiti, cavi e accessori vari.
C’è anche Felix Pastorius: lo vedo uscire dai camerini, il basso in spalla. Non so perché, ma da lui mi sarei aspettata una custodia rigida; non quella custodietta in tessuto, quasi uno zainetto: roba da ragazzini. Ce l’avessi io, un Fodera, lo terrei in un baule a triplo strato, a prova di bomba.
Ad ogni modo, Felix segue i colleghi sul palco; raccoglie le ultime cose.
Lo osservo con un’aria malinconica, pensando a quanto mi piacerebbe andare lì, stringergli la mano e dirgli: «Felix, sei un grande». Magari aggiungere che sono anch’io una bassista. D’accordo, con molte meno carte da giocare rispetto a lui, ma pur sempre una collega.
Fortunatamente, sognare è ancora lecito.
Sorrido tristemente.
Giro i tacchi degli stivali, mi dirigo verso l’uscita: ma sì, meglio non pensarci e tornare subito a casa. E’ la una passata, ci vorrà almeno un’altra ora prima di arrivare a destinazione. Pattuglia della stradale permettendo.

FINALE NUMERO 2 – corsivo
Scribacchina è incantata: il concerto degli Yellowjackets è stato un qualcosa di stellare, ben oltre le sue più rosee aspettative.
Coll’entusiasmo che la caratterizza, secondo voi che può combinare alla fine del concerto? Guarda da lungi e con rimpianto il Felix che sale sul palco a raccoglier la di lui roba, o s’arma di coraggio e lo rincorre sul palco per stringergli la mano, fargli tante
congratulations ed assicurargli ch’egli è quel che vien definito «an amazing bass player»?
Immagino abbiate indovinato da soli.
Oh, va da sé che mi son palesata sotto le spoglie d’una bassista, mica sotto quelle d’una scribacchina: talvolta è bene scindere l’esser fan dall’esser articolista.
Comunque, mentre la mia bocca sillabava qualcosa del tipo: «
Hey Felix, may I ask you to sign my bass strip?», la mano volava rapida alla borsetta per estrarre – a mo’ di prestigiatore – la secolare cinghia del mio basso e un pennarello indelebile. Oggetti presi – come s’usa talvolta dire – «di volata» pochi secondi prima d’uscir di casa.
V’assicuro che il giovine Felix è stato estremamente disponibile, e che da quest’oggi la mia cinghia in pallido cuoio è griffata FP.
Un unico rammarico: m’ero ripromessa di non lavar la mano destra per almeno otto-giorni-otto, convinta che la tecnica bassistica e l’essere
«amazing nel sonare» si possan trasmettere per contatto. Ebbene, non feci in tempo a rincasare che, senza rendermene conto, mi ritrovai in bagno con entrambe le mani ricoperte da quegl’intrugli correntemente utilizzati dalle donzelle per rimuover fondotinta, varie ed eventuali.
Scribacchina, te possino…
E sia: m’è andata male.
Sarà bene rimettermi a studiar scale, soliti lettori.


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