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William Shakespeare, “La Tragedia di Amleto, Principe di Danimarca” III

Creato il 02 maggio 2013 da Marvigar4

Amleto Vignolo Gargini

William Shakespeare

LA TRAGEDIA DI AMLETO, PRINCIPE DI DANIMARCA

Titolo originale The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark

Traduzione di Marco Vignolo Gargini

ATTO PRIMO

SCENA QUARTA

Entrano Amleto, Orazio e Marcello

AMLETO: L’aria morde con denti aguzzi, è molto freddo.

ORAZIO: È un’aria pungente e impaziente.

AMLETO: Che ora è adesso?

ORAZIO: Credo manchi poco a mezzanotte.

MARCELLO: No, è già suonata.

ORAZIO: Ah sì? Non l’ho sentita. Allora s’appressa il momento in cui lo spirito è apparso.

(Squillo di trombe, salve di cannoni)

E che vuol dire questo, mio signore?

AMLETO: Il re stanotte veglia, alza il bicchiere, fa bisboccia, e si dà alle danze più sfrenate,  e come sbevazza i suoi sorsi di vino del Reno, così il tamburo e la tromba berciano il trionfo del suo brindisi.

ORAZIO: È un’usanza?  

AMLETO: Sì che lo è; ma secondo me, che pure sono nativo di qui, e abituato da sempre, è una usanza più onorata nel trasgredirla che nell’osservarla.

Questi stupidi ci fanno conoscere a est e a ovest e ci screditano presso le altre nazioni.

Ci danno degli ubriaconi, e chiamandoci maiali insozzano il nostro credito; e questo veramente toglie alle nostre attività, anche se di alto livello, la quintessenza del nostro attributo.

Così, spesso accade in uomini particolari, che qualche neo degenerato della loro natura, così come sono nati, di cui non ne hanno colpa – dato che la natura non può scegliere la propria origine – per l’eccesso di qualche carattere, che spesso abbatte i pali e i forti della ragione, o per qualche abitudine che impregna troppo la forma delle maniere accettabili – accade che questi uomini, riprendendo, per il segno di un difetto, sia livrea della natura o stella della fortuna, le proprie virtù siano pure candide come la grazia  e infinite per le umane possibilità, saranno corrotte nel giudizio generale per quel particolare neo. Una stilla di male rende tutta la nobile sostanza per un sospetto oggetto del suo proprio scandalo.  

Entra lo Spettro

ORAZIO: Guardate, mio signore, arriva!

AMLETO: Angeli e ministri di grazia difendeteci! Che tu sia uno spirito benefico o un dannato demonio, che porti con te zefiri dal paradiso o raffiche dall’inferno, che i  tuoi intenti siano maligni, o caritatevoli, tu vieni in tale enigmatica forma che io ti parlerò. Ti chiamerò Amleto, re, padre, regale Danese. Oh, rispondimi! Non farmi schiattare nell’ignoranza, ma dimmi perché le tue ossa benedette e composte nella bara hanno strappato il loro sudario? Perché il sepolcro, in cui ti vedemmo riposare in pace, ha spalancato le sue ponderose fauci di marmo per rigettarti qui di nuovo? Che cosa può voler dire che tu, morto cadavere, di nuovo armato d’acciaio rivisiti così l’albeggiare della luna rendendo agghiacciante la notte, e noi fantocci della natura  così orribilmente a sconquassare il nostro pensiero con pensieri che vanno oltre i confini del nostro animo? Dimmi, perché questo? A che pro? Cosa dovremmo fare?  

(Lo Spettro fa un cenno)

ORAZIO: Vi fa segno di andare dietro con lui, come se volesse dire qualcosa a voi solo.

MARCELLO: Guardate con che gesto cortese vi invita verso un luogo più lontano. Ma non andate con lui.

ORAZIO: No, per nessun motivo.

AMLETO: Non vuole parlare; allora io lo seguirò.

ORAZIO: Non fatelo, mio signore!

AMLETO: Perché, di che dovrei aver paura? La mia vita non la stimo uno spillo,  e in quanto alla mia anima, cosa può farle se è immortale come lui?

Mi invita di nuovo ad andare. Lo seguirò.  

ORAZIO: E se vi tenta verso i gorghi, mio signore, o alla spaventosa cima della roccia che strapiomba dalla base dentro il mare, e là assume qualche altra forma orribile, che vi toglierebbe il controllo della ragione e vi trascina nella pazzia? Pensateci. Il posto stesso suscita trastulli di disperazione senza alcun altra causa, in ogni mente a chi s’affaccia così alto sul mare, e ne ascolta il ruggito là sotto.  

AMLETO: Mi invita di nuovo.

Vai, ti seguirò.  

MARCELLO: Non andrete, mio signore.

AMLETO: Tenete giù le mani.

ORAZIO: Dominatevi, non dovete andarci.

AMLETO: Il mio destino grida, e fa ogni misera arteria di questo corpo forte come i nervi del leone di Nemea. Ancora sono chiamato. Giù le mani, signori. Per il cielo, farò un fantasma di chi mi trattiene. Via, dico. Vai avanti, ti seguirò.  

(Escono lo Spettro e Amleto)

ORAZIO: È la disperazione dell’immaginazione.

MARCELLO: Teniamogli dietro, non è giusto obbedirgli così.

ORAZIO: Andiamo. A quale conclusione porterà questo?

MARCELLO: C’è qualcosa di marcio nello stato di Danimarca.

ORAZIO: Il cielo gli darà la direzione.

MARCELLO: Sì, però teniamogli dietro.

(Escono)

SCENA QUINTA

Entrano lo Spettro e Amleto.

AMLETO: Dove vuoi portarmi? Parla, non vado oltre.

SPETTRO: Osservami.  

AMLETO: Sì.

SPETTRO: È quasi giunta la mia ora, quando alle fiamme sulfuree e tormentose  devo restituire me stesso.

AMLETO: Ahimè, povero spirito!

SPETTRO: Non compatirmi, ma presta serio ascolto a ciò che ti rivelerò.  

AMLETO: Parla, io sono pronto ad ascoltarti.

SPETTRO: E lo sarai a vendicarmi, quando avrai ascoltato.

AMLETO: Che cosa?

SPETTRO: Io sono lo spirito di tuo padre condannato per un certo periodo a vagare di notte, e di giorno relegato a digiunare nel fuoco, finché i turpi crimini compiuti nei miei giorni naturali non siano arsi e purificati. Se non mi fosse proibito raccontare i segreti del mio carcere, una storia potrei rivelarti la cui parola più lieve strazierebbe la tua anima, gelerebbe il tuo giovane sangue, farebbe schizzare i tuoi occhi dalle loro orbite come stelle, scarrufferebbe le tue ciocche ferme e compatte, e ti farebbe rizzare uno per uno i tuoi capelli come gli aculei di un istrice irritabile. Ma questo blasone eterno non deve essere per orecchie di carne e sangue. Ascolta, ascolta, oh ascolta!  Se tu mai amasti il tuo caro padre…

AMLETO: Oh Dio!

SPETTRO: Vendica il suo atroce e mostruoso assassinio. 

AMLETO: Assassinio!

SPETTRO: Assassinio davvero atroce, com’è sempre,

ma questo davvero atroce, inaudito e mostruoso.

AMLETO: Presto, fatemelo conoscere, che io con ali veloci come la meditazione o i sogni d’amore, possa scagliarmi verso la mia vendetta.

SPETTRO: Ti trovo pronto.  E dovresti essere più ottuso dell’erba grassa che s’abbarbica a suo agio all’attracco del Lete, se tu non fossi spinto in questo. Ora, Amleto, ascolta.  

Hanno detto che mentre dormivo nel mio giardino una serpe mi morse – così l’orecchio di tutti i danesi è da un resoconto artificioso sulla mia morte rozzamente ingannato. Ma sappi, tu nobile giovane,  la serpe che punse la vita di tuo padre ora ne porta la corona.

AMLETO: O anima profetica! Mio zio!  

SPETTRO: Sì, quella incestuosa, quella adultera bestia, con la magia della sua scaltrezza, con doni di traditore – oh malvagia scaltrezza e doni che hanno il potere di sedurre così – vinse al suo svergognato piacere il volere della mia regina dall’aspetto molto virtuoso. O Amleto, che caduta fu quella! Da me il cui amore era talmente degno Che andava mano nella mano con i giuramenti che le feci sposandola, abbassarsi a un essere spregevole i cui doni naturali erano poca cosa rispetto ai miei. Ma la virtù, come non è mai smossa sebbene il vizio la corteggia in forma celestiale, così la lussuria, fosse pure legata a un angelo raggiante, vuole pascere se stessa in un letto celeste e si caccia in un letamaio.  

Ma piano, mi pare di fiutare l’aria del mattino; devo esser breve. Mentre dormivo nel mio giardino, come era sempre mia abitudine nel pomeriggio,  nella mia ora di serenità tuo zio entrò di nascosto, con succo di maledetto giusquiamo in una fiala,  e nelle mie orecchie versò  quel distillato lebbroso, il cui effetto è tanto deleterio al sangue umano, che scorre rapido come l’argento vivo per le porte e i sentieri naturali del corpo, e con vigore istantaneo rapprende e caglia, come le gocce d’acido nel latte, il sangue sottile e sano; così fece con il mio, e una improvvisa scabbia rivestì, come Lazzaro, di croste ributtanti e immonde tutto il mio corpo liscio. 

Così fui io, nel sonno, per mano d’un fratello di colpo privato della vita, della corona, della regina, falciato proprio nel fiore del mio peccato, senza preparazione, senza unzione, senza assoluzione né esame di coscienza, ma mandato alla mia resa dei conti  con tutte i miei peccati sulla mia testa – Oh orribile! Oh orribile, troppo orribile! Se c’è in te natura, non tollerarlo, non permettere che il letto del re di Danimarca sia un giaciglio di lascivia e di dannato incesto.  

Ma, in qualsiasi modo tu perseguirai questo atto, non insozzare la tua mente, che la tua anima non trami nulla contro tua madre; lasciala al cielo, e a quelle spine che sono conficcate nel suo petto per penetrarla e pungerla. Ti dico subito addio. 

La lucciola annuncia che il mattino è prossimo E sbianca il suo vano fuoco. Addio, addio, addio. Ricordati di me. (Esce)

AMLETO: Oh voi tutte schiere del cielo! O terra! Che altro? Aggiungerò l’inferno? Vergogna! Resisti, resisti, mio cuore, e voi miei nervi non invecchiate di colpo, ma tenetemi saldo. Ricordarmi di te? Sì, tu povero spirito, finché la memoria ha un posto in questo globo sconvolto. Ricordarmi di te?  

Sì, dalla tavola della mia memoria cancellerò ogni nota triviale e sciocca, tutte le massime dei libri, tutte le forme, tutte le impressioni passate che gioventù ed osservazione vi copiarono, e il tuo comando tutto solo vivrà nel libro e nel volume del mio cervello, non mischiato con materia più indegna -  Sì, per il cielo!

O donna malefica!

O furfante, furfante, sorridente, dannato furfante!  

Il mio taccuino – io ci voglio scrivere sopra che un uomo può sorridere, e sorridere, ed essere un furfante in Danimarca: Così, zio, eccoti qua sei servito. Ora il mio motto; è “Addio, addio, ricordati di me.” L’ho giurato.

Entrano Orazio e Marcello

ORAZIO: Mio signore, mio signore!.

MARCELLO: Principe Amleto!

ORAZIO: Il cielo lo protegga.

AMLETO: Così sia!

MARCELLO: Olà, oh, oh, mio signore!

AMLETO: Ohilà,oh, oh ragazzo! Vieni, uccellino, vieni.

MARCELLO: Come va, mio nobile signore?

ORAZIO: Che notizie, mio signore?

AMLETO: Oh, meraviglia!

ORAZIO: Mio buon signore, raccontatecela.

AMLETO: No, voi la rivelerete.

ORAZIO: Non io, mio signore, per il cielo.

MARCELLO: Nemmeno io, mio signore.

AMLETO: Allora che ne dite, potrebbe mai il cuore di un uomo immaginarselo? Ma terrete il segreto?  

ORAZIO e MARCELLO: Sì, per il cielo, mio signore.

AMLETO: Non c’è un furfante in tutta la Danimarca che non sia un briccone matricolato.

ORAZIO: Non c’è bisogno che un fantasma, mio signore, venga dalla tomba per dirci questo. 

AMLETO: Giusto, sì. Tu hai ragione.  E così, senza tante cerimonie credo opportuno stringerci le mane e andare via;  voi dove vi porteranno i vostri affari e i vostri desideri,  perché ogni uomo ha affari e desideri, così come sono, e io per la mia misera parte, guardate, andrò a pregare.

ORAZIO: Queste parole sono assurde e sconnesse, mio signore.

AMLETO: Mi dispiace che ti offendano, di cuore, sì in fede, di cuore.

ORAZIO: Non c’è offesa, mio signore.  

AMLETO: Ma sì che c’è offesa, per san Patrizio, Orazio,  e un’offesa molto grave. Quanto a questa apparizione qui –  è uno spettro onesto, lasciate che ve lo dica –   Per la tua voglia di sapere che c’è tra noi,  padroneggiala come puoi. E ora, buoni amici, come siete amici, studenti e soldati, accordatemi un piccolo favore.  

ORAZIO: Quale, mio signore? Lo faremo.

AMLETO: Non fate mai cenno di ciò che avete visto stanotte.

ORAZIO e MARCELLO: Mio signore, non lo faremo.

AMLETO: No, ma giuratelo  

ORAZIO: Non io, mio signore, in fede.

MARCELLO: Nemmeno io, mio signore, in fede.

AMLETO: Sulla mia spada.

MARCELLO: Noi abbiamo già giurato, mio signore.  

AMLETO: Veramente, sulla mia spada, veramente. 

SPETTRO (Di sotto): Giurate!

AMLETO: Ha, ha, ragazzo, tu dici così? Sei laggiù, brav’uomo?  Via – lo sentite l’amico giù in cantina – Acconsentite a giurare.

ORAZIO: Proponete il giuramento, mio signore.

AMLETO: Non parlare mai di ciò che avete visto, giuratelo sulla mia spada.

SPETTRO (Di sotto): Giurate!  

AMLETO :  Hic et ubique? Allora cambiamo posto. Venite qui, signori, e di nuovo le mani sulla mia spada. Di non parlare mai di ciò che avete udito, giuratelo su questa mia spada  

SPETTRO (Di sotto): Giurate sulla sua spada!

AMLETO: Ben detto, vecchia talpa. Sai lavorare sottoterra così svelto? Ma che bravo pioniere! Una volta ancora spostiamoci, buoni amici.

ORAZIO: Oh giorno e notte, ma questo è straordinariamente strano.

AMLETO: E allora, come si fa con uno straniero, dagli il benvenuto. Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia.  Ma venite – qui, come prima, MAI, così la grazia vegli su di voi, che per quanto io possa comportarmi in maniera un po’ strana o bizzarra – dato che io forse d’ora in poi potrò pensare opportuno assumere un atteggiamento bizzarro – voi vedendomi in quei momenti a braccia conserte così, o scotendo la testa così, o pronunciando qualche frase ambigua, come “Bene, bene, noi sappiamo” o “Noi potremmo, se volessimo,”  o “ Se volessimo dire,” o “Ce ne sono, che se potessero,” o altre simili ambiguità, mai lascerete capire che voi sapete ogni cosa di me – giurate questo così la grazia e la pietà nel bisogno più alto vi soccorrano.  

SPETTRO (Di sotto): Giurate!  

AMLETO: Riposa, riposa, spirito inquieto. (Essi giurano) Così, signori, con tutta la mia devozione mi affido a voi; e quanto un pover’uomo com’è Amleto può fare per esprimervi il suo affetto e la sua amicizia, Dio volendo, non vi mancherà. Rientriamo assieme, e sempre le vostre dita sulle vostre labbra, vi prego. Il tempo è scardinato. O destino maledetto, che sia mai nato io per rimetterlo in sesto! Su, venite, andiamo assieme.

(Escono)



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