Andando al concerto riflettevo. Sapevo di avere da poco compiuto 28 anni e mi domandavo quanto fosse plausibile partecipare a uno spettacolo di un gruppo rock adolescenziale, come quello dei Wolfmother. Complesso -si diceva una volta- di ragazzi australiani che tanto si lasciano influenzare dal rock anni ’70, stile Led Zeppelin, The Who, The Doors, per intenderci. Un pubblico di giovani scatenati, al quale non appartenevo più, mi avrebbe circondato; temevo di sentirmi a disagio. Ma in fondo, alla fine, stavo andando proprio per lasciarmi alle spalle il peso dei miei anni e delle mie responsabilità. Stavo andando, se non per sentirmi più giovane, almeno per non pensare a nulla se non a saltare, urlare, sfogarmi. Il concerto ha rispettato pienamente le attese. Avevo visto i Wolfmother dal vivo in televisione, una domenica mattina, durante la riproposizione del Live AID, che si era svolto nelle maggiori piazze del mondo. La loro esibizione era in Australia. Mi avevano entusiasmato per la carica che trasmettevano e il coinvolgimento del pubblico che creavano. Mi avevano atterrito per le stonate che il cantante proponeva e la qualità mediocre dell’esecuzione. Scopro che tra il primo album (semplice, lineare e travolgente) e il secondo (mediocre, non rispettante le attese) hanno cambiato completamente formazione. E’ rimasto soltanto il leader e cantante. Se hanno perso in vena creativa, di certo hanno guadagnato in qualità di esecuzione, mantenendo la loro carica e il loro entusiasmo. Il concerto, infatti, è stato trascinante, coinvolgente, divertente. Mi sono ritrovato, a 28 anni, nel mezzo di un pogo selvaggio. Non lo cercavo, ma forse non aspettavo altro. Se non per sentirmi più giovane, per non avere altri pensieri nella testa che saltare, cantare, sfogarmi.